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17/09/2018

Partiti e struttura del potere politico

“Oggi la potenza della burocrazia è generalmente ascendente, in diretta proporzione al declino della classe politica. Specie nelle liberaldemocrazie di antico lignaggio. Qui la politica scade a narrazione, la legge perde di senso perché il disordine del mondo eccede le sottigliezze del giurista. L’orizzonte decisionale si calcola in minuti secondi e il dibattito pubblico, deprivato di riferimenti, miti e mete ideali o comunque future è ridotto a scariche di tweet. A differenza delle istituzioni politiche, esposte al trionfo e al recesso degli eletti, quelle amministrative sono dotate di vita propria, destinata a estinguersi solo con la fine dello Stato. Dispongono di batterie sovraccariche di energia accumulata nei decenni, talvolta nei secoli. Sottoposte (non sempre) alla legge, non esposte ai capricci dell’elettore. Legittime ma per carattere tendenti all’autolegittimazione d’ufficio, arbitrariamente analoga alla “suitas” derivata dal diritto romano. Sempre però esposta all’urgenza del capo politico di offrire ai media un capro espiatorio tecnico in caso d’insuccesso. Ma se il pragmatismo degli eletti si riduce a incompetente opportunismo, se in alto si fa buio, le vette della politica non emettono luce e il governo si riduce a inerte amministrazione, anche lo Stato profondo ne soffre. Da nessuno si può pretendere senso dello Stato, se lo Stato non fa più senso”.

Ho ritenuto di riportare per intero questo passaggio tratto dall’introduzione all’ultimo numero di “Limes” (8/2018) in cui si tratta di “Stati profondi – abissi del potere: viaggio negli apparati pubblici e segreti, custodi e motori strategici delle nazioni e degli imperi”.

Un estratto che mi è parso sufficientemente riassuntivo, quale vera e propria premessa, per affrontare il tema della struttura del sistema politico italiano, della crisi dell’impalcatura che reggeva il rapporto tra politica e amministrazione e quello tra politica e società: una crisi nella quale si sono aperti varchi attraverso i quali si stanno evidenziando infiltrazioni inedite e alquanto pericolose.

Nello stesso numero di Limes un intervento di Alessandro Aresu “C’è vita dopo la morte della Patria” affronta lo specifico del “caso Italiano”.

Vale la pena riportare un punto del suo intervento:

“Nella debolezza politica, la riduzione della Repubblica dei partiti allo stato gassoso è un fattore dirimente. Senz’altro nell’Italia della guerra fredda i partiti hanno fatto lo Stato e surrogato il sentimento nazionale, quindi la loro scomparsa ha lasciato un vuoto. Il vuoto è divenuto stabile, e non transitorio, con l’esaurimento delle loro risorse economiche. I partiti (o movimenti che dir si voglia) possono ancora competere sul mercato elettorale attraverso staff o società di comunicazione. Hanno difficoltà a costituirsi come apparati in senso proprio, se non facendo leva sui fattori di stabilità: una presenza locale e parlamentare radicata (è il caso della Lega: al proposito si segnala che è in uscita presso il Mulino una ricerca curata da Itanes che dimostra come la cosiddetta “nazionalizzazione” della Lega, oltre ai risultati elettorali, sia ancora di là da venire n.d.r.) o entità esterne (Casaleggio associati / Movimento 5 stelle).

Nel momento del potere, alle difficoltà di organizzazione si sopperisce attraverso la distribuzione delle cariche di società controllate e partecipate dello Stato. In ciò consiste il centro del potere dei partiti”.

Al riguardo dell’ultimo punto: esattamente lo spettacolo cui abbiamo assistito in questi mesi.

All’interno di questo quadro emerge così la questione del rapporto tra apparati e politica: la sopravvivenza della burocrazia italiana, sostiene ancora Aresu, non è la capacità di adattarsi a compiti nuovi e non corrisponde alla capacità di rappresentare e indirizzare la domanda di Stato, che pure nell’attualità si trova sempre di più a essere invocata.

Si è così creato una sorta di corto circuito che riguarda la funzione amministrativa e il rapporto tra questa e la funzione politica al riguardo del quale l’Italia sembra non aver ancora deciso il “che fare”.

Il tema da indicare, allora, è quello del ritornare a occuparci della questione dei partiti, del ruolo dei partiti nella democrazia repubblicana.

Occupandoci dei partiti intendiamo, semplicemente entrare nel cuore della necessaria “pars costruens” di difesa e sviluppo della nostra democrazia repubblicana.

Gli elementi costitutivi di quello che potrebbe essere definito come un “grande partito” (al di là dei numeri disponibili in partenza) debbono essere rappresentati dalla capacità di darsi una forte identità che distingua il partito dagli altri partiti, rendendolo così ben riconoscibile.

E, ancora, un partito deve essere distinto e riconosciuto, attraverso la capacità di elaborare un programma di governo dell’intera società, sul fondamento di una selezione di interessi e valori prevalenti rispetto a quelli delle parti politiche e sociali portatrici di differenti interessi e valori.
Dobbiamo tornare a interrogarci su quale tipo e quale forma di soggettività politica è necessario guardare oggi, nella crisi del neoliberismo e della torsione negativo subita, appunto, dalle strutture politiche esistenti.

Per rispondere a questa domanda non ci aiuta la debolezza della nostra concezione della democrazia, di una visione negativa e minimalista della democrazia.

Abbiamo bisogno di recuperare, da un lato, la forza etica della dignità della persona e della partecipazione politica e, dall’altro canto, riscattare la politica dall’imperio tirannico del privatismo individualistico.

Abbiamo bisogno di recuperare i due valori fondanti della democrazia: la cittadinanza e l’eguaglianza.

Abbiamo bisogno della cittadinanza perché l’erosione delle istituzioni politiche e del ruolo della partecipazione è facilmente strumentalizzabile da chi ha più presenza politica e più strumenti per formare il consenso.

Abbiamo bisogno dell’eguaglianza perché appare sotto gli occhi di tutti l’attacco sistematico cui il concetto di eguaglianza è sottoposto, con l’indebolimento dei diritti sociali, della scuola pubblica, della stessa idea di redistribuzione come volano di solidarietà.

Sia la cittadinanza, sia l’eguaglianza meritano la nostra attenzione oggi, non per ridimensionare la cultura dei diritti, ma per rafforzarla reinterpretandola all’interno di una cornice politica, non soltanto morale e giuridica, per l’appunto individualista.

Nella “paura della politica” che ha dominato nel corso degli ultimi anni si sono aperti gli argini al cosiddetto “partito liquido”: non propriamente un partito, ma un contenitore di forze dai confini sfuggenti, e quindi tale da provocare spinte e controspinte difficilmente governabili, come dimostra l’esperienza delle “primarie all’italiana” e l’uso arrogante della cosiddetta vocazione maggioritaria.

Non troppo paradossale, in questo senso, il fatto che incamminatici sulla strada del “partito liquido”, vari “cerchi” e/o “gigli” magici hanno utilizzato l’occasione con piglio sicuramente “leninista” di totalizzazione nella gestione del potere, utilizzandolo proprio nella funzione di “nomina” rivolta verso la funzione sostitutiva che, nelle varie branche dell’amministrazione, l’alta burocrazia si è trovata a svolgere mentre svaniva la funzione di intermediazione dei corpi politici (durante si riduceva sempre più anche e soprattutto il ruolo del Parlamento, per come questo era stato architettato dalla Costituzione Repubblicana).

Occorre riprendere il ragionamento sul partito, cercando di comprendere, prima di tutto, che la pretesa di un partito di essere lo specchio e il contenitore di tutti gli interessi e di tutti i valori importanti e significativi presenti nella società (come nel caso del cosiddetto “Partito della Nazione”) è sintomo non di forza, ma di debolezza; dell’incapacità di comprendere che un partito è un raggruppamento di volontà determinate e specifiche; uno strumento di scelte di campo; di quelle cose, di quei fattori che nel loro convergere costituiscono un programma, matrice dei “sì” e dei “no”, che animano e danno senso alla competizione tra partiti e loro programmi.

Un partito non è un ente che debba ambire a inglobare la società, ma un ente che si pone di fronte a questa e indica, in modi diversi, ma anche alternativi, come governarla.

Un partito che intenda “pacificare” nel suo seno le varie opzioni esistenti nella società abdica per ciò stesso al proprio ruolo e si assegna uno scopo non perseguibile.

In questo senso, dopo l’azzeramento delle scelte compiute a cavallo della “transizione italiana” avviata agli inizi degli anni’90 del secolo scorso, l’opera da compiere è enorme.

La sinistra italiana disponeva di un formidabile background sotto quest’aspetto e, al di là del discorso sull’organicità gramsciana e dell’idea di “egemonia” che in essa si collocava, il discorso sulla tradizione va ripreso attorno a due punti:

a) l’idea di una ripresa culturale, che faccia parte della vita del partito come “ponte” verso l’esterno, senza chiusure immotivate, ma anche come sede di una battaglia da combattere (quella della vita culturale vera e propria, nel senso dell’impresa culturale: riviste, case editrici, utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa, ecc.); una battaglia da combattere attraverso quelle che un tempo si definivano “armi della critica”, ponendoci un primo obiettivo, quello di aprire un ciclo di studi seri e meditati, con ricerche pazienti per arrivare a un’approfondita rielaborazione della storia del nostro Paese, in ambito e con respiro europeo, almeno per gli ultimi 40 anni: sta qui, infatti, nell’assenza di una ricostruzione storica concreta dei passaggi che abbiamo vissuto, il nocciolo della distruzione di memoria, di identità e, quindi, di capacità politica che stiamo vivendo. La ricostruzione della storia è la sola strada possibile per un recupero di egemonia;

b) ricostruire la storia per ricostruire l’identità non può risultare un esercizio fine a se stesso ma necessario, invece, per far sì che si dispieghino liberamente le contraddizioni sociali dell’oggi, offrendo loro una sintesi: una sintesi di proposta politica di trasformazione della società.

In conclusione: un’idea, quella di una soggettività politica per la trasformazione che oggi può apparire balzana, irrealistica, addirittura utopica, ma senza il cui riferimento, pratico e ideale, non solo non avrebbe senso una discussione come questa che stiamo affrontando, ma anche qualsiasi azione politica conseguente.

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