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18/09/2018

Il governo si fa in tre, senza trovare “la quadra”

I tre governi sotto la teorica guida del povero Giuseppe Conte sono alle prese con l’unica vera prova che può minarne la stabilità: la legge di stabilità, o perlomeno la “nota di aggiornamento al Def”, che va presentata alla Commissione Europea per ottenere un via libera che eviti i prevedibili attacchi speculativi dei “mercati”.

Il vertice di ieri pomeriggio ha lasciato le cose più o meno com’erano: tutte e tre le componenti hanno bisogno di rassicurare i propri principali referenti. E dunque il ministro dell’economia Tria e quello degli Esteri Moavero Milanesi spingono per rispettare i vincoli europei, quindi stringere il più possibile le spese senza copertura certa e magari ridurle (come promesso ogni anno alla Ue). Salvini e i leghisti pretendono di portare a casa almeno parte delle loro principali promesse elettorali, e quindi la flat tax per i ricchi (sono quelli che ne guadagnerebbero di più) e un ritocco alla “riforma Fornero” sulle pensioni che consenta di poter dire agli operai del Nord: “via abbiamo portato la quota 100, così che a 62 anni potrà andare in pensione chi ha 38 anni di contributi”.

Il diavolo si nasconde nei dettagli, lo sappiamo. I 38 anni di anzianità contributiva indicano la platea di quanti hanno cominciato a lavorare nel 1980, l’anno della “restaurazione capitalistica”, della sconfitta dei 35 giorni di occupazione alla Fiat. Da allora in poi comincia la discesa del numero degli occupati nell’industria (nelle grandi aziende, quelle che assicuravano una maggiore continuità lavorativa), si moltiplicano i licenziamenti (per via della ristrutturazione della produzione), cui si aggiungono ben presto crisi vere e proprie e poi l’esplosione delle “delocalizzazioni”, quando crolla il Muro e si cominciano a sfruttare i bassi salari dell’Est europeo. Non sono moltissimi, insomma, i lavoratori industriali che potrebbero usufruire di questo “anticipo” pensionistico. Probabilmente di più sarebbero invece i dipendenti pubblici (sottoposti da due decenni al blocco del turnover e degli stipendi, ma “salvati” dal rischio licenziamento-delocalizzazione).

Dev’essere per questo che, leggendo meglio la proposta di “riforma” avanzata dalla Lega, di fatto si limiterebbe la “quota 100” ai dipendenti delle aziende in crisi e a quelli di cui le aziende sono disposte a liberarsi. Insomma, non una vera “quota 100” uguale per tutti, ma una pensione anticipata per gli “esuberi”, sostitutiva degli “scivoli” aboliti dai governi Monti in poi... Che non riguarda ovviamente i “pubblici”. Un provvedimento dalla spendibilità politica limitata, ma che certamente i media si incaricherebbero di magnificare come “una svolta” (magari sparandogli contro).

Ma anche così ridotta il costo complessivo di riduzione delle tasse e anticipo pensionistico eccede le disponibilità indicate dal “ragioniere” Tria. Tanto più che servono almeno 12,5 miliardi per evitare l’aumento automatico dell’Iva al 24%, che sarebbe una doccia fredda sui consumi proprio mentre la “crescita” si va affievolendo fino a scomparire.

La “finanziaria” dei Cinque Stelle – ovvero le loro promesse elettorali da rispettare almeno in parte – è altrettanto divergente sul piano dei costi. Un “reddito di cittadinanza” anche solo formale (300 euro al mese, invece dei 780 promessi), erogato a una platea comunque molto più ristretta di quanti ne avrebbero bisogno, ha costi variabili a seconda di chi fa i calcoli, ma comunque alti.

C’è poi il campo minato della “pace fiscale” pretesa dalla Lega, in pratica un condono ad evasori grandi e piccoli, che porterebbe qualche soldo nelle casse dello Stato, ma risulterebbe indigeribile per l’elettorato grillino già deluso dalle troppe giravolte di Giggino Di Maio.

La coperta, più che corta, appare insomma filiforme. Ma d’altro canto nessuno può fare un vero passo indietro e rimandare a tempi migliori – sperati, ma per nulla certi – perché a fine maggio ci sono le elezioni europee, dunque le promesse non mantenute rischiano di esser pagate salate e subito.

Ma i tre governi in uno guardano a questa scadenza con occhi completamente diversi, e questo ovviamente influisce pesantemente sulla loro tattica intorno alla legge di stabilità.

I terminali contabili e diplomatici dell’Unione Europea non hanno alcuna esigenza elettorale particolare, ed anche la necessità di “non infierire” sulla popolazione per non accrescere il consenso alle formazioni “populiste” (nel linguaggio giornalistico, proprio quelle ora al governo) appare oggi meno pressante. A Bruxelles, in fondo, stanno dando l’Italia per persa, almeno momentaneamente, e vanno affilando le lame per la prevedibile offensiva sui conti pubblici definitivi.

La Lega continua a giocare su due tavoli, come dimostra il “colloquio utile” di sabato sera tra Salvini e Berlusconi, in cui si sono probabilmente accordati su nomine pubbliche (quella in Rai è fondamentale per chi deve gestire una campagna elettorale infinita), elezioni regionali e liste europee. I salviniani possono perciò permettersi di tirare la corda per cercare di strappare il massimo del risultato, perché lo sfarinamento di Forza Italia e l’inconsistenza dei “meloniani” conferisce loro la leadership incontestabile della destra. Anche in caso di crisi ed elezioni anticipate, insomma, al momento farebbero bottino pieno.

I grillini sono quelli più in difficoltà. Senza qualcosa di socialmente utile da potersi intestare – il “decreto dignità” è stato poco più di una barzelletta – i prossimi appuntamenti elettorali rischiano di metter fine alla favola del movimento sempre in crescita, aprendo probabilmente l’era della discesa rapida.

Ma sono anche quelli che non possono rompere l’alleanza di governo e intestarsi una crisi politica, in questo momento. Quindi appaiono destinati a una cottura a fuoco lento al termine della quale – come dimostra l’esperimento della rana – sarebbero “bolliti”. Come sempre, rischiano di decidersi a saltare fuori dalla pentola quando il danno è ormai irreparabile...

I prossimi mesi, insomma, saranno teatro di colpi sotto la cintura e rissosità crescente, anche perché la congiuntura economica non sembra preparare orizzonti meno “austeri”.

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