Quel che resta del Grunge.
Può titolarsi così la disamina della nuova uscita degli Alice in Chains, perchè in buona sostanza il disco quello vuole cantare, e lo fa in modo esplicito.
Rainier Fog è un perfetto esempio di amarcord, a un ventennio ormai abbondante da quando il Seattle sound, esaurì fisiologicamente la propria spinta sia creativa a livello artistico, sia propulsiva in termini di sub-cultura nell'emisfero ovest del mondo.
Nostalgia canaglia dunque? In buona misura sì.
Lo dimostrano, a titolo non solo didascalico, il nome medesimo dell'album, ispirato a Monte Rainier, il vulcano che domina l'area metropolitana di Seattle e la decisione del gruppo d'incidere la scaletta dei brani presso i Bad Animals/Studio X, un complesso di registrazione storico, in cui buona parte delle formazioni grunge hanno forgiato il proprio suono. Gli Alice in Chains stessi vi registrarono nel 1995 il disco cui fece seguito lo scioglimento di fatto.
Diventa abbastanza evidente, quindi, che Rainier Fog sia un album per fan, non solo degli AiC in quanto tali, ma della corrente grunge nel suo complesso; ed entro questa focale, tutto sommato, l'album riesce ancora a smuovere, seppur di rimando, una buona dose di emozioni.
Diversamente, perimetrandolo nei propri confini esclusivi, appare un prodotto di maniera in cui ritornelli orecchiabili, ritmica granitica e solismo ancora pregevole si amalgamano in misura accettabile tra loro, ma in funzione prevalente delle necessità di valorizzazione economica delle radio FM statunitensi e più in generale dell'industria musicale odierna.
Stante questo dualismo, diventa sterile enunciare, come tanta critica ha fatto, i punti deboli di Rainier Fog fondati sull'appena descritta "operazione nostalgia" che si riverbera in una scrittura ampiamente già sentita in tutte le proprie componenti – sia strumentali, sia vocali – o nella produzione, ben fatta ma troppo attuale rispetto all'epoca che l'album vuole rievocare.
Più "centrato" sarebbe auspicare che Cantrell, prima o poi – ma di tempo ne rimane sempre meno... – allarghi le maglie del processo creativo al resto del gruppo, eccessivamente imbrigliato dalla sua presenza spesso macroscopicamente ingombrante, come nel caso delle voci.
Nel particolare, la sua appare solo ridondante quando il microfono può giovarsi di un ottimo interprete come DuVall, che a 10 anni dall'ingresso nella formazione, evidentemente, non gode ancora dell'autonomia che meriterebbe.
Fin qui il disco. L'introduzione a "quel che resta del Grunge" cela però altro.
Un "altro" evocato dal gruppo stesso in alcune interviste, in cui ha tracciato una sorta di collegamento tra l'album e le vicende che nell'ultimo lustro hanno squassato il mondo.
Proprio in questo ambito Rainier Fog sembra trovare un riscatto inatteso, perchè le tracce che lo compongono, pregne di malinconia tanto cupa da evocare sindromi ben più nere, diventano una finestra aperta sull'odierna società statunitense e non solo. Un mondo rimasto troppo in fretta orfano dei riferimenti sui cui era stata edificata l'american way of life, mito creduto universale sulla base di una supposta fine della storia, declamata con troppa leggerezza proprio quando il grunge sprigionava le sue prime distorsioni (era il 1989).
Gli Alice in Chains arrivarono un attimo dopo (1990), con quell'istantanea straziante ma terribilmente autentica di We die young.
Avevano capito perfettamente già allora come sarebbe finita.
A 30 anni di distanza si sono limitati a registrare di aver avuto ragione.
Il merito artistico che rivendicano è tutto qui, il loro limite sta nell'impossibilità di andare oltre (ma vale per tutta la "cultura" occidentale degli ultimi decenni).
Parafrasando Gramsci: il nuovo non nasce, perchè il vecchio non è ancora morto.
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