Difficile orientarsi nel labirinto di annunci e repentine smentite che caratterizzano l’azione di governo in prossimità della legge di bilancio.
Ciò che però risulta evidente è che qualsiasi misura annunciata in campagna elettorale si scontra con quei vincoli di bilancio imposti dall’Unione Europea che di fatto precludono qualsiasi tipo di intervento che comporti impiego di risorse: la rottura di quei vincoli è quindi la condizione necessaria per mettere in campo politiche espansive, ma al di là dei proclami questo governo non appare intenzionato a sfidare davvero la governance europeista.
E così la tanto annunciata abrogazione della legge Fornero si tramuta in una ben più misera quota 100 che dovrebbe riguardare soltanto i lavoratori delle aziende in crisi del settore privato (300/400 mila lavoratori); il reddito di cittadinanza, oltre all’assurda e incostituzionale destinazione “autoctona”, rischia di tramutarsi in un reddito di inclusione con una platea leggermente più allargata; la flat tax, tanto cara alla Lega, presumibilmente si configurerà, in una prima fase, con un innalzamento della soglia dei ricavi utili per poter usufruire dell’aliquota agevolata del 15 percento. Ad oggi tale aliquota agevolata si applica già nei confronti di tutti quei professionisti che percepiscono ricavi fino a 30mila euro e per altre categorie con ricavi fino a 50 mila euro. L’obiettivo è estendere la platea ad autonomi e società di persone (Snc, Sas e Srl) che optano per il regime di trasparenza con ricavi fino a 65mila euro. Dai 65mila ai 100mila euro si pagherebbe poi un 5 percento addizionale.
A completare il quadro, anche un abbassamento dello sgravio Ires dal 24 al 15 percento sugli utili investiti dalle società di capitali in beni strumentali e nuova occupazione.
A finanziare la misura dovrebbe intervenire il solito condono di turno che, nella versione del governo del cambiamento, assume la denominazione di “pace fiscale”.
Al di là della platea alla quale si rivolgerà il testo definitivo, non vi è dubbio che la flat tax indirizzi il vantaggio fiscale alle fasce di reddito più alte e non riguarderà minimamente quel variegato mondo dei lavoratori precari (falsi autonomi o professionisti a reddito basso e discontinuo) ai quali tutti strizzano l’occhio giusto il tempo della campagna elettorale.
Fatta questa doverosa premessa è però opportuno chiarire che sul tema delle tasse si gioca una finta contrapposizione politica tra l’attuale governo e la presunta opposizione: ambedue gli schieramenti, pur riferendosi ad un elettorato differente, convergono sul fatto che le tasse occorre ridurle ai più ricchi in base a quella strampalata teoria secondo la quale se costoro pagano meno tasse investiranno di più e creeranno posti di lavoro. Il fatto che tale teoria non abbia alcun riscontro nella realtà ed anzi contribuisca ad acuire le diseguaglianze sociali, viene considerato un dettaglio irrilevante.
In realtà quelle forze politiche che oggi si scandalizzano dinanzi alla flat tax ed invocano il principio della progressività delle imposte tacciono sul fatto che non solo le società di capitali (tra cui le imprese più grandi) di fatto non sono mai state assoggettate ad imposta progressiva, ma l’aliquota unica per tali società è stata progressivamente abbassata, passando nel corso degli anni dal 37 all’attuale 24 percento, grazie all’ennesima riduzione di ben 3,5 punti percentuali operata dal governo Renzi nella legge di stabilità del 2017.
In sintesi l’ aliquota unica del 24 percento per le società di capitali (indipendentemente dal fatturato) corrisponde più o meno all’aliquota IRPEF più bassa (23 percento) riguardante chi percepisce redditi fino a 15.000 euro...
La logica sottesa a questo incredibile trattamento di favore nei confronti delle grandi imprese è stata quella di attrarre nel nostro paese gli investimenti esteri attraverso una tassazione irrisoria.
Sul versante IRPEF (che dovrebbe essere interessato dalla flat tax a partire dal 2020) è sufficiente ricordare che di quel sistema progressivo che contemplava fino ai primi anni 80’ ben 32 scaglioni con l’aliquota più alta che arrivava al 72 percento per i redditi sopra i 500 milioni delle vecchie lire e l’aliquota più bassa al 10 percento per i redditi sotto i 2 milioni delle vecchie lire, non è rimasto più nulla.
Tutti gli interventi fiscali messi in campo dai vari governi che si sono succeduti hanno avuto un minimo comune denominatore: alzare le aliquote fiscali dei redditi più bassi ed abbassare quelle dei redditi più alti. Risultato: gli scaglioni sono ora ridotti a 5 con l’aliquota più bassa salita dal 10 al 23 percento e quella più alta scesa dal 72 percento al 43 percento per i redditi oltre i 75.000 euro.
E’ in questo quadro di continua erosione del principio costituzionale di progressività dell’imposta che si inserisce la proposta delle 2 aliquote Irpef tanto cara alla Lega.
Ma non è sufficiente limitarsi a contrastare tale proposta, se non si rimette in discussione tutto un sistema fiscale che si fonda sulla iniquità e sulla diseguaglianza sociale.
Per questo lavoratori dipendenti, pensionati, precari e in generale i ceti meno abbienti devono diffidare quando sentono ripetere che in Italia le tasse sono troppo alte.
La genericità di questa affermazione prelude sempre a interventi fiscali volti ad avvantaggiare i più ricchi. Ce lo insegna la storia
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