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23/09/2018

“Finalmente dai NO si passa alla proposta”. La vendetta dei Pigs

Un commento di Stefano Zai – Eurostop Parma al libro “PIGS, la vendetta dei maiali. Per un programma di alternativa di sistema: uscire dalla UE e dall’Euro, costruire l’Area Euromediterranea” di Luciano Vasapollo con Joaquin Arriola e Rita Martufi presentato domenica a Roma al convegno di Eurostop.

Il testo attualizza una precedente pubblicazione, “Pigs, il risveglio dei maiali”, che poneva in essere la trattazione dell’unificazione economica e monetaria dei paesi periferici della UE, appunto i “Pigs” (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna), proponendo una nuova prospettiva, quella della costruzione dell’Area Euromediterranea. L’elaborazione originaria degli autori è stata aggiornata ed integrata con le osservazioni degli attivisti del coordinamento nazionale di Eurostop, venendo così a formare uno scritto che è il prodotto del lavoro di un “intellettuale collettivo”.

Area Euromeditteranea non è forse la definizione più corretta, infatti a ben leggere nel testo si parla di area Euro-Afro-Mediterranea. Una costruzione che non guarda solo al sud dell’Europa e ai paesi “maiali”, come definiti dalla UE perché, “grassi ed ingordi”, che non hanno saputo controllare i conti pubblici sperperando danaro (nda: sulla formazione del debito italiano e non solo e la narrazione ipocrita che lo accompagna occorrerebbe una trattazione ad hoc che per motivi evidenti non può essere affrontata in questo breve articolo, si tenga presente che un così alto debito pubblico è il prodotto da un atto politico – volontaristico e consapevole delle conseguenze – che preparava l’Italia all’entrata nell’Euro: ossia la divisione del ministero del Tesoro da Banca d’Italia, nel 1981, producendo la sussunzione dello Stato nella finanza e preparando il terreno del ricatto politico delle riforme in nome della stabilità di bilancio), ma anche ai paesi del nord Africa che si affacciano sul Mar Mediterraneo.
“Non da oggi, e non solo tra intellettuali marxisti, è in corso un dibattito sull’opportunità per un’area formata da paesi a struttura economico-sociale simile di realizzare l’”abbandono” o il “distacco” (“delinking”, secondo Samir Amin) da quella che Hosea Jaffe nel 1994 ha chiamato “l’azienda mondo”, identificando con questa un sistema capitalista internazionale fondato su istituzioni e organismi come Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, BCE, WTO ecc.

[...] L’attenzione che oggi si registra intorno alla nostra proposta di costruire un’area mediterranea dipende proprio dal fatto che si tratta di una proposta politica che si relaziona con l’autodeterminazione di quei popoli che sono direttamente colpiti dal rafforzamento dell’Unione Europea [...].

La proposta dell’ALBA o Area Euro-Afro-Mediterranea (AR.E.A Medit) parte anche dalla considerazione che è pura retorica fuori contesto storico e socio-economico parlare in unità della classe operaia europea. Oggi il proletario italiano, quello portoghese, spagnolo, greco ed anche tunisino, algerino, egiziano e marocchino, hanno interessi e condizioni di vita completamente differenti da quelle del lavoratore tedesco, svedese, olandese, belga, britannico, che guadagnano un minimo salariale al mese relativamente molto più alto dei lavoratori dei PIIGS, e possono vantare condizioni di vita estremamente più stabili e di benessere completamente differenti dalle nostre. Inoltre, gli europei mediterranei, come pure quelli dell’est europeo, sono considerati “proletari migranti” e cioè concorrenti che possono danneggiare o minimizzare il loro standard di vita.
(nda: chi stesse già partendo con accuse di nazionalismo, si fermi un attimo e continui a leggere l’articolo fino alla fine).

Come si evince dall’estratto, una proposta contestualizzata a pieno nel quadro storico attuale, che guarda e affonda le mani nelle contraddizioni che ci troviamo di fronte, non rincuorandosi nella retorica politica ormai stantia e non reale legata alla costruzione dell’Unione Europea come luogo dei popoli o teorici recuperi democratici di una struttura di “governance”, quella della UE, che invece sta funzionando per come è stata concepita. Le tesi sostenute non sono campate per aria, ma affondano a pieno nella materialità storica in cui ci troviamo a vivere.

Prima fra tutte la necessità della rottura con la “gabbia della UE”, una struttura fondata sui trattati che ne rappresentano l’architrave e l’essenza stessa, a partire da quelli di Roma del ’57 fino ad arrivare al famigerato “Fiscal Compact”. Un architrave, quello dei trattati, che ha prodotto un sistema di governo post-democratico negli stati membri con la relativa espulsione della sovranità democratica e popolare, la distruzione dello stato sociale, la privatizzazione dei servizi pubblici, la precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro, distruggendo quel diritto al lavoro che crea una “vita degna per sé e per la propria famiglia”, come recitato dalla nostra stessa Costituzione.

I trattati, infatti, sono completamente incompatibili con essa, soprattutto con i principi fondamentali che garantiscono stato sociale, salute, tutela dell’ambiente e diritto al lavoro. Da qui si percepisce la grande volontà posta in campo negli ultimi anni per cambiarla, per fondarla sulla libera concorrenza di mercato, anche se in realtà è già stata minata alla radice con la famosa introduzione del pareggio di bilancio, nell'articolo 81. L’attuale formulazione dell’articolo, difatti, impedisce di realizzare politiche economiche espansive, rivolte al bene pubblico, al sociale, fuori dall’egida del profitto e del pareggio di bilancio; cosa di cui incominciamo a vedere le conseguenze con il crollo del ponte Morandi a Genova. Il testo affronta la problematica dell’”Europa a due velocità”, “centro- periferia” che sta ridefinendo i rapporti tra i paesi del centro a guida franco-tedesca e quelli del sud, relegando quest’ultimi ad essere in ultima istanza fornitori di manodopera e servizi perlopiù turistici e di ristorazione.

Un ruolo definito dall’ortodossia neoliberale del centro nei confronti dei PIGS – attraverso la logica del credito-debito che rafforza la sudditanza dei secondi nei confronti dei primi – che dalle tesi del libro incomincia ad essere scalzata con una proposta che guarda al “qui ed ora” dello spazio nazionale (unico spazio nel quale le classi lavoratrici, gli sfruttati, ecc. possono influire nei rapporti di forza in essere, come hanno dimostrato il referendum del 4 dicembre 2016 e le ultime elezioni politiche) e che non si tira indietro di fronte alla non veridicità della sincronicità storica che determinati eventi alternativi possano accadere simultaneamente e con le stesse caratteristiche in differenti paesi, determinando per tutti le medesime condizioni. Ma immediatamente e contestualmente rivolto ad una proposta internazionalista, sia nelle relazioni tra le classi di sfruttati degli altri paesi, sia in relazione alle “bordate” finanziarie e monetarie internazionali di cui come singolo paese si sarebbe bersaglio e da cui difficilmente se ne potrebbe uscirebbe vincitori.
“È utile ribadire che la questione dell’uscita dall’euro e dall’Unione Europea non è da noi concepita in chiave nazionalista, cioè di generica, impropria, inadeguata e dannosa sovranità nazionale ma ha una dimensione immediatamente di classe perché è un passaggio, se storicamente affrontato da una soggettività politica consapevole e capace di svolgervi una funzione, in grado di porre le basi per una inversione dei rapporti di forza lavoro-capitale nel polo imperialista europeo [...]

La creazione dell’euro è stata accompagnata dall’intensificazione del mercato unico e dalla divisione europea del lavoro, andando verso una formazione sociale su scala europea – attualmente, un quarto del PIL dei paesi dell’Europolo viene valutata per mezzo del mercato comune e la specializzazione settoriale intraeuropea si trova in una fase di deindustrializzazione accelerata della periferia dell’area. Nonostante questo processo non sia ancora stato completato, la frammentazione monetaria dell’Euro-zona è una possibilità reale, ciò che non lo è, è tornare a monete nazionali che lungi dal rappresentare una sovranità (monetaria) recuperata, non potrebbero non essere che simboli monetari di territori politicamente ed economicamente frammentati e dipendenti dall’area di influenza del capitale europeo. Se i paesi della periferia europea vogliono riprendere il controllo sull’attività produttiva, lo potranno fare solo in modo congiunto e mediante un processo di rottura con il modello delle finanze private e con lo spazio monetario asimmetrico di adesso. L’uscita dall’euro è una opzione politica più che economica e può essere un passo verso la soluzione dei gravi squilibri strutturali delle economie periferiche, che non sono squilibri finanziari, ma produttivi: una base industriale in declino, uno spreco enorme di forza lavoro, una concentrazione scandalosa della ricchezza e del patrimonio. Però come sfida politica generale, supera il grado di autonomia decisionale di qualsiasi paese danneggiato dalla politica che soggiace al patto originario dell’euro [...]

Uscire dall’euro proponendo una nuova moneta per Paesi con strutture produttive più o meno simili sarebbe l’unica alternativa realizzabile, che permetterebbe sia di mantenere un margine di negoziazione con le istituzioni comunitarie e con la Banca Centrale Europea sia di creare un nuovo blocco politico istituzionale capace di realizzare un modello di accumulazione favorevole ai lavoratori”
La globalizzazione è ormai finita e ci troviamo in un contesto geopolitico internazionale che ritorna alla “polarizzazione”, nella quale si acuisce lo scontro fra i differenti imperialismi. Ognuno sta giocando la propria partita per accaparrarsi una fetta dell’attuale mondo, posto in cui “il vecchio muore ma il nuovo ancora non può nascere”, ed in tale scontro si va affermando quello tra Stati Uniti e Cina. Scontro imperialistico che non trova più un centro geografico come quello otto-novecentesco, ma che come riportano gli autori si da con le seguenti caratteristiche.
“Il cambiamento più grande nel XXI secolo è proprio la globalizzazione neoliberista. Che è anche un sottoprodotto del dominio anglosassone, in un contesto in cui la mondializzazione è proprio la globalizzazione del neoliberismo della cultura anglosassone, inalterata dai limiti che strette frontiere nazionali impongono alla circolazione di beni e persone e in cui la cultura e la lingua globale, l’inglese, funzionano come un procedimento per estrarre ricchezza immateriale – conoscenza – dal resto del Pianeta; e la finanziarizzazione e il dominio del dollaro nelle transazioni e nelle riserve internazionali attirano rendite finanziarie a beneficio del centro del dominio globale.

[...] a differenza delle rivalità intercapitalistiche precedenti, ora la disputa non è gestita dalle strette frontiere nazionali dei principali competitori; la disputa ora non è per imporre l’uno o l’altro progetto imperiale con un centro geografico delimitato da confini dentro i quali si accede alla cittadinanza dell’impero e al di fuori no. Il nuovo scenario ci porta indietro, in un certo qual modo, al concetto di cittadinanza dell’antica Roma: "ovunque ci sia un cittadino romano, sia presente l’impero”. Per tale ragione, ora, l’area d'influenza della Cina è, prima di tutto ed al di fuori del territorio cinese, la comunità cinese sparsa nel mondo. Questo nuovo scenario, di rivalità comunitarie più che nazionali, è stata ben intesa da una parte della classe politica dei paesi anglosassoni”.
Da qui, ulteriormente, la necessità di creare un’area “Euro-Afro-Mediterranea”, che sia ben riconoscibile e che punti a contrastare ed invertire le tendenze imperialistiche, nonché scalzare le presenti e nuove mire neo-coloniali che producono migliaia e migliaia di immigrati ed emigrati, affermando un progetto nel quale l’autodeterminazione dei popoli è la base per un’alleanza internazionalista che non ricada o scambi l’internazionalismo nel “globalismo borghese”, fatto di genti apolidi che se la prendono sistematicamente con il loro vicino più povero come causa di tutti mali.

Ci troviamo di fronte ad un progetto politico che propone un percorso di costruzione reale, ben piantato nel XXI secolo e soprattutto “affermativo”, perché finalmente ci troviamo di fronte ad una proposta. Sicuramente non esauribile in un solo testo, conscia dei problemi che pone nel progetto, che ha di fronte a sé delle sfide enormi, ma che finalmente propone e che non si fa perimetrare nello spazio politico del campo avversario, limitandosi a dire “No”, ad essere solo “Contro” o “Anti” qualcosa. Questa è l’intuizione fondamentale del libro, ovviamente pariteticamente intrecciata dal rigore scientifico della proposta stessa, analisi e dati. Lo smarcamento, nell’affermazione del progetto, per la definizione di un campo differente da quello del nemico. Il blocco sociale, se lo vogliamo definire così, a cui dobbiamo guardare e che fino ad ora solo elettoralmente ha espresso la propria rabbia per le condizioni di vita in cui si trova a dover galleggiare, ha scaricato definitivamente nel passato le élite neoliberali di centro-destra ma anche ed egualmente quelle euro-riformiste ed eurocentriche della sinistra neoliberale, ma indirettamente ha dato un segnale che non può non essere colto da tutti quei movimenti politici e sociali antagonisti che si adoperano per un cambiamento: “non ci bastano i no, perché con quelli non si mangia, occorrono progetti e proposte”.

Starà a quelli che si vogliono adoperare per un reale cambiamento mostrargli che ciò che si propone è valevole della loro attenzione perché prende realmente in considerazioni le reali condizioni di vita in cui si trovano e al contempo smonta l’ideologia della paura in cui annegano per dirgli che un percorso alternativo si può fare, non è indolore, certo, ma non è la fine della Storia come ci vogliono raccontare e che fuori dalla gabbia della Ue non c’è il nulla dello spazio siderale.

La proposta Euro-Afro-Mediterranea va in questa direzione e lo fa considerando l’aspetto economico-produttivo, quello monetario e quello geopolitico, appunto decostruendo lo spauracchio del salto nel buio che quotidianamente ci viene propinato.

Tra le sfide e le innumerevoli difficoltà che si trovano di fronte ad un progetto di questo tipo vi è anche quella ideologico-culturale e non solo economico-strutturale. Occorre, anche da questo punto di vista, trovare quel denominatore comune che unisca popolazioni che hanno storia e cultura profondamente ed innegabilmente differenti. Sottopelle al testo si percepisce che la risposta sta nel “mare nostrum” e nel prodotto del lavoro di un “intellettuale collettivo”, quindi chi scrive è convinto che questo non sia un testo con un “The End” ma che termini con un “Continua...”.

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