di Gioacchino Toni
Ippolita, Il lato oscuro di Google. L’informatica del dominio, Milieu edizioni – Ippolita, Milano, 2018, pp. 191 € 16,90 (*)
«La profilazione dell’immaginario non è che l’ultima tappa del
processo di colonizzazione capitalistica delle Reti che abbiamo chiamato
onanismo tecnologico» (Ippolita)
Dagli elettrodomestici ai capi d’abbigliamento, dai giocattoli ai sex
toys, sono sempre di più le merci costruite al fine di monitorare e
catturare dati relativi ai consumatori e alle loro abitudini. Secondo le
stime della compagnia d’analisi Business Insider Intelligence riportate
da Rosita Rijtano su «Repubblica» (“Quanto spiano quegli oggetti smart:
sanno tutto di noi”, 24/09/2018) entro il 2025 potrebbero essere 55
miliardi i dispositivi montati sulle merci in grado di monitorare gli
utilizzatori e inviare i dati a distanza alle agenzie di analisi. Già
sono diversi gli oggetti finiti sul mercato in grado di profilare i
clienti: si va dai bambolotti della Genesis Toys che si sono rivelati in
grado di raccogliere informazioni sulle famiglie per una compagnia
legata alle agenzie governative d’intelligence, ai sex toys della
Standard Innovation, condannata nel 2017 per aver raccolto dati a
distanza circa i gusti sessuali degli utilizzatori senza che questi ne
fossero informati, fino agli impianti nel campo della domotica
costantemente “in ascolto” per rispondere ai “bisogni degli utenti”.
In un’epoca caratterizzata dalla vetrinizzazione, per dirla con Vanni Codeluppi [su Camilla], in cui gli individui sembrano costantemente alla ricerca di gestire la
propria identità catturando l’altrui attenzione attraverso un costante
adeguamento agli standard di rappresentazione sociale egemoni nella
società, non è affatto scontato che il proliferare di pratiche di
profilazione sia percepito negativamente. In un contesto in cui milioni
di individui forniscono volontariamente dati che li riguardano
sui social network, uno degli strumenti di profilazione degli utenti,
senza che questi ne siano del tutto al corrente, e forse nemmeno
infastiditi, è sicuramente Google e ad esso, e al mondo del Web in
generale, è dedicato il libro Il lato oscuro di Google. L’informatica del dominio, scritto dal “gruppo di ricerca e formazione indisciplinare” Ippolita.
«Le parole, come le tecnologie, incarnano le credenze, le idee, le
ideologie, i pregiudizi e gli obiettivi delle persone che le hanno
costruite, ma anche e soprattutto di chi le propaganda per fini
egemonici. In questo senso ogni tecnologia è necessariamente orientata,
ed è per questo che non esistono e non possono esistere tecnologie
neutrali. La tecnologia implica sempre un certo potere, quanto meno il
“poter fare” qualcosa grazie ad essa. L’uso di strumenti tecnologici
implica una competenza che è il risultato di saperi specializzati. Anche
se si tratta di conoscenze poco o per nulla formalizzate [es. l’uso dei
social network], in ogni caso l’utente si trova implicato in una
dinamica di potere, in una dimensione di potere» (p. 7).
Le stesse parole che vengono utilizzate in riferimento a tali
tecnologie non sono neutre; parlare di Open Source Economy è ben altra
cosa, nonostante le apparenze, rispetto a parlare delle libertà su cui
si è fondato il movimento Free Software, sottolinea il gruppo Ippolita.
Premesso ciò, nel volume si passa a spiegare come, nonostante le
promesse di “verità oggettive” e di poter gestire l’intero universo
delle conoscenze presenti in internet, dietro a Google si celino in
realtà sofisticate strategie di marketing e di propaganda al fine di
produrre e propinare pubblicità personalizzate in base alla profilazione
degli utenti. In altre parole «lo sfruttamento ad ogni livello
dell’economia relazionale messa in moto nei confronti degli utenti» (p.
173).
Proponendo agli utenti il materiale che essi stessi hanno fornito alla rete, Google è davvero una macchina che si costruisce
sfruttando l’utilizzo che ne fanno gli utenti. «I dati degli utenti
sono diventati un enorme patrimonio economico, sociale e umano.
Soprattutto sono rilevanti i metadati, ciò che descrive i dati e ne
consente l’interrelazione. Ciò che sta attorno ai contenuti, ovvero le
relazioni dei contenuti con altri contenuti, il luogo in cui sono stati
generati, il tipo di dispositivo e così via» (p. 174).
Dietro
alla narrazione esaltante la molteplicità dell’offerta volta alla
personalizzazione dei servizi non è difficile individuare l’intenzione
di «diffondere una forma di consumismo adatta all’economia
internazionale: la personalizzazione di massa delle pubblicità e dei
prodotti. Il capitalismo dell’abbondanza di Google procede a un’accurata
schedatura dell’immaginario dei produttori-consumatori (prosumer),
a tutti i livelli. Infatti gli utenti forniscono gratuitamente i propri
dati personali, ma anche suggerimenti e impressioni d’uso dei servizi;
gli sviluppatori collaborano all’affermazione degli strumenti “aperti”
messi a disposizione per diffondere gli standard di Google, che
rimangono sotto il vigile controllo di Mountain View; i dipendenti di
Googleplex e degli altri datacenter si riconoscono pienamente
nella filosofia aziendale dell’eccellenza. La profilazione
dell’immaginario non è che l’ultima tappa del processo di colonizzazione
capitalistica delle Reti che abbiamo chiamato onanismo tecnologico. La
mentalità del profilo si ammanta di dichiarazioni a favore della “libera
espressione degli individui”, salvo poi sfruttare quelle “espressioni”
per vendere luccicanti e inutili prodotti personalizzati» (pp. 174-175).
Certo, ricorda il collettivo Ippolita, i social network hanno avuto
un ruolo importante anche in alcune sollevazioni nordafricane, arabe,
asiatiche e in fenomeni come Occupy Wall Street ma, nonostante le
mitizzazioni che individuavano nei social network incredibili
potenzialità democratiche capaci di produrre e sedimentare confronti
orizzontali, occorre constatare che, oltre all’indubbio ruolo avuto nel
chiamare a raccolta nelle piazze, le piattaforme sociali commerciali, in
tutti questi casi, non sembrano aver sedimentato dibattito e attivismo
duraturi.
Se insomma il mondo di Google – e dintorni – appare come un’abile
macchina di profitto basata su abilità comunicative e tecnologiche
(spesso derivate dalle ricerche open source), per invasività nulla è
forse paragonabile a Facebook, tanto da meritare da parte di Ippolita
l’appellativo di «fuoriclasse del controllo sociale». A tutto ciò il
gruppo Ippolita non risponde invocando azioni di boicottaggio nei
confronti di Google o dei vari social network presenti sulla rete, ma
proponendo percorsi di autoformazione per un uso critico delle fonti e
delle tecnologie imperanti in internet; la consapevolezza come prerequisito utile a sottrarsi dal dominio tecnocratico.
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