L’azione giudiziaria contro Salvini smaschera due motivi di fondo di
questa stagione politica. Il primo riguarda le forze dell’establishment,
e in primo luogo la “sinistra”. Il secondo invece svela alcuni
caratteri del “populismo” che con fatica riescono a cogliersi dietro i
fumogeni giornalistici inadeguati alla comprensione della realtà.
Riguardo al primo punto: secondo un copione ormai strutturato, la
“sinistra” si presenta come braccio politico-ideologico dell’azione
della Magistratura. Non è qui in discussione il merito della scelte di
quest’ultima. Può essere corretto o meno il tentativo di inchiodare
Salvini alle proprie responsabilità, anche penali, sul caso della nave
Diciotti. Il problema è politico, come si sarebbe detto un tempo, e
riguarda la proiezione – e la percezione – della sinistra nella società.
Che è più o meno questa: una parte politica sconfitta alle urne ed
espulsa dai luoghi fisici dove risiedono le principali contraddizioni
sociali del paese, cerca attraverso la via giudiziaria di sbarazzarsi
del nemico politico sostenendo e favorendo l’azione giudiziaria contro
di questo. Ricorda qualcosa? Ovviamente: siamo ancora fermi al 1994.
Non funzionò allora, non funzionerà oggi. Perché è esattamente quello
che cerca Salvini, da questo punto di vista (e in effetti sotto molti
altri punti di vista) molto più scaltro e perspicace del ceto politico
“progressista”. Salvini, insomma, va combattuto politicamente, non
giudiziariamente. Perché non solo la via giudiziaria porta
automaticamente alla moltiplicazione dei voti del “tiranno” di turno, ma
ha l’antipatico effetto collaterale di rafforzare la legittimità della
Magistratura, con tutto quel che ne consegue quando questa rivolge la
propria azione contro le lotte sociali. Veniamo però al secondo punto,
più interessante di questo, tutto sommato semplice da cogliere.
Salvini poteva – e potrebbe – usare la piazza per spazzare via ogni
dubbio di legittimità politico-elettorale alla sua azione. Potrebbe
riprodurre nella realtà quello che le urne hanno stabilito a livello
elettorale. Potrebbe insomma decidere di organizzare una grande
manifestazione di popolo contro l’azione giudiziaria, contro la sinistra
manettara, contro l’Europa dei poteri forti. Una sfida che vincerebbe a
mani basse, se organizzata con un minimo di sapienza (cosa che,
dovrebbero averlo capito anche i sassi, non gli manca). Eppure si guarda
bene dal farlo. Così come si guardano bene dal mobilitare il “popolo” i
Cinque stelle nelle loro battaglie più rilevanti, ad esempio sulla
nazionalizzazione delle autostrade, sull’Ilva o sul reddito di
cittadinanza. Tutti temi che avrebbero l’appoggio materiale di milioni
di persone, se solo gli fosse dato opportuno sfogo in qualche momento di
piazza. E’ d’altronde uno dei caratteri forti del populismo
latinoamericano: affidarsi alla forza dei numeri, alla forza del popolo,
per stabilire un vincolo di legittimità alla propria azione politica
contro le forze della reazione liberale finanziate da Washington. Perché
il “populismo” italiano non chiama alla prova di forza del popolo,
peraltro nel momento di massimo sostegno popolare all’azione di governo?
Certo non per il bon ton istituzionale dei due partiti ormai al
governo: abbiamo capito che a Salvini e Di Maio delle consolidate
pratiche istituzionali gliene frega il giusto. Non le conoscono neanche,
probabilmente. Il problema è allora da ricercarsi altrove. Ma dove?
Il “populismo” italiano agita demoni che non avrebbe mai la forza di
governare se veramente risvegliati. La rabbia sociale che si esprime nel
non voto e nel voto di protesta dato a Lega e M5S è una rabbia
dormiente, capace di manifestarsi nelle urne ma sostanzialmente
pacificata nella società. Nonostante il “populismo”, viviamo in una
società pacificata, in cui le faglie profonde, telluriche, trovano
espressione politica unicamente in forme ultra-mistificate e, al più,
elettorali. Conviene davvero svegliare il demone della protesta sociale,
anche fosse rivolto al sostegno dell’azione politica oggi al governo?
No. Perché la mobilitazione si sa quando inizia, ma mai quando – e dove –
finisce. Il “populismo” è l’unica narrazione politica in grado oggi di
dare alle masse diseredate una visione conflittuale contro i nemici
della società. Ma la lotta agisce anche come forza de-mistificante. La
partecipazione, la mobilitazione e il conflitto producono coscienza di
sé, chiariscono i propri interessi e svelano quelli altrui. Nella lotta
quelle stesse masse potrebbero prendere coscienza della natura
contraddittoria e pacificante del populismo stesso, volgendo lo sguardo
altrove, a forme di autorappresentazione alternative tanto ai partiti
liberali quanto – è qui il problema – alla falsa alternativa populista.
E’ per tali motivi che il “populismo” non chiama la piazza: perché non
saprebbe governarla, perché potrebbe manifestare bisogni altri rispetto
alla minestrina incolore e parolaia espressa oggi dai partiti al
governo. Perché, infine, per il “populismo” oggi è il migliore degli
scenari possibili: opposizione fuori gioco, scontro a bassa intensità e
mai davvero compromettente con Confindustria e Unione europea, sostegno
popolare. Basterebbe solo un po’ più di crescita economica, e ci
ritroveremo il partito unico populista al governo per il prossimo
decennio (come probabilmente accadrà negli Usa di Trump, che a
differenza dell’Italia cresce del 4%).
Il “populismo” italiano è allora un populismo senza popolo. Ha
sostegno popolare, ma questo non si traduce in una vera partecipazione
popolare alle azioni di governo. I partiti che rappresentano oggi la
“ragione populista” sanno di camminare su di un esile filo in cui
l’equilibrio è appunto quello di agitare demoni senza mai risvegliarli
davvero. Meglio il sostegno social, molto più semplice da governare e rivolgere al proprio tornaconto politico.
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