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23/09/2018

Unione Europea, una crisi di egemonia

“L’irrazionale ha buon corso: non c’è forse una trumpizzazione della politica tedesca?” A chiederselo, in un’intervista a Die Zeit (12 luglio 2018), è Wolfgang Schäuble, già potente ministro delle Finanze e attuale presidente del Bundestag. Il termine coniato da Schäuble non sarà elegante, tuttavia pone un quesito relativo alle vicende politiche di molti paesi occidentali, dove indisturbate hanno finora governato élite formate da ceti politici (conservatori, democristiani, socialdemocratici), tecno-burocrazia, e rappresentanze dell’imprenditoria e della finanza (i cosiddetti poteri forti) ‒ un’alleanza consolidatasi nei decenni che vanno dalla ricostruzione postbellica fino ai fasti della globalizzazione e poi alla caduta nella Grande Recessione. Contro di esse sono sorte nuove leadership, e la domanda posta da Schäuble riguarda la loro modalità di praticare la politica e non solo quella di Trump, con il suo unilateralismo per rivendicare, al di là delle alleanze tradizionali, una posizione di esclusivo dominio nelle relazioni internazionali, e con le sue scelte volte a rafforzare le quote di mercato delle industrie USA con accordi bilaterali da imporre con un’aggressiva politica di dazi. Ciò che allarma il presidente del Bundestag è l’irrazionalità della linea politica delle nuove leadership. ‘Irrazionalità’ non sta a significare scelte insensate, sta a significare scelte fondate su ‘parole’ senza riferimenti a ‘cose’, a ‘fatti’, motivate da argomenti privi di contenuto informativo. Le scelte sono sensate, se con ciò si intende capaci di costruire consenso, basate però su discorsi insensati.

1) Parole e fatti

Se si scorrono le testate di diversi paesi, oltre che italiane, non è difficile imbattersi in analoghe preoccupazioni sulla natura ‘irrazionale’ di posizioni ideologiche e di discorsi dei nuovi leader. Sull’austriaca Die Presse del 13 luglio 2018, è apparso un articolo in cui si cercava di smantellare i pregiudizi contro gli immigrati con un ‘esame dei fatti’, fornendo una serie di cifre che smentivano le fake news sull’invasione di ‘alieni’, in base a reali e documentati numeri dei richiedenti asilo nella speranza che ciò aiutasse a ragionare sui ‘fatti veri’ come per esempio la morte, solo quest’anno, di 1408 persone nel Mediterraneo, o sul fatto che 10.000 migranti sono stati riportati nei campi di terrore in Libia grazie ai finanziamenti dell’UE. I discorsi insensati delle leadership emergenti preoccupano talmente il vecchio establishment, il vecchio potere oligarchico, da fargli temere un collasso delle istituzioni che hanno garantito finora l’ordine capitalistico-borghese.

Su Die Zeit del 12 luglio, l’editorialista Bernd Ulrich, in prima pagina, scriveva che gli atti di illegalità e le denunce di trattati internazionali da parte di Trump stanno svuotando lo Stato di diritto e l’ordinamento internazionale, sostituendoli con regimi post-legali.

Sul Financial Times, del 23-24 giugno, Edward Luce evidenzia i rischi per la democrazia liberale e per le alleanze tra i paesi occidentali causati dagli attacchi all’ordine costituzionale, interno e internazionale, sferrati da Trump, Kurz, Salvini e dai paesi di Visegrad. Scrive che negli anni ’30 del Novecento le minoranze, gli ebrei innanzitutto, divennero il capro espiatorio di tutti i mali della società responsabili di delitti che non avevano mai commesso, come oggi Trump mette sul banco degli imputati gli ispanici accusandoli di ogni possibile nefandezza e per di più prendendo di mira i suoi avversari politici perché proteggerebbero l’immigrazione che ‘infesta il nostro paese’. Trump accusa la stampa di mentire quando questa esibisce le prove delle sue bugie, seguendo l’inquietante precedente di Hitler, che, mentre spandeva a piene mani menzogne sugli ebrei e sui comunisti, esprimeva disprezzo per la Lugenpresse, la ‘stampa bugiarda’. Non ho nessuna intenzione di equiparare i due figuri, quanto detto è per rilevare il cinico uso della manipolazione, che crea un abisso tra parole e realtà, entro cui erompono le correnti di pensiero e di azione reazionari.

Roberto Saviano, su Le Monde del 22 giugno, ha descritto il caso paradigmatico dell’Italia dove si vive una permanente campagna elettorale cosicché tutto è ‘comunicazione politica’ cioè ‘parole’, che sono qualcosa di ben diverso dalla politica. Per dimostrarlo porta ad esempio il numero dei furti, che, in diminuzione secondo le statistiche ufficiali, sono il pretesto per varare misure contro i poveri (i decreti Minniti), o per introdurre norme volte a legittimare l’uso delle armi contro i ladri introdottisi ‘nelle dimore private’ (proposta di legge della Lega di Salvini), ciò che il codice penale prevede di punire con una detenzione da uno a sei anni (non certo con la morte). Non ci si basa sui ‘fatti’ o sulle informazioni statistiche, per definire nuovi provvedimenti si fa appello ai sentimenti di paura, peraltro amplificati, quando non costruiti dai nuovi leader proprio mediante ‘discorsi insensati’. Un altro esempio ancor più eclatante di quest’uso della comunicazione, per sostituire le ‘parole’ ai ‘fatti’, è la campagna di Salvini contro i migranti e le ONG. Su Die Zeit, del 28 giugno, Saviano denuncia lo slogan ‘Prima gli italiani’, per diffondere odio un tempo da parte della Lega di Bossi contro i meridionali dato che per ‘italiani’ si intendevano solo quelli del Nord, ora da parte della Lega di Salvini contro i migranti per suscitare sentimenti di appartenenza etnica e alimentare il razzismo. I migranti sono indicati da Salvini come la causa di tutti i mali che affliggono la società italiana.

Quando poi si citano numeri o statistiche, allora si giunge ad affermazioni paradossali. Prendendo i numeri del ‘cruscotto statistico’ del Ministero dell’Interno (dunque dati ufficiali), si scopre che i migranti giunti in Italia dal 1° gennaio al 24 agosto 2018 sono 19.526, di cui 12.174 dalla Libia, mentre nel 2017 ne giunsero 98.076, di cui 93.285 dalla Libia, e nel 2016 105.344. Nel ‘cruscotto statistico’ del Ministero dell’Interno non ho trovato i numeri di morti causati dalla politica di chiusura dei porti e di divieto degli interventi delle navi ONG, minacciate ripetutamente da Salvini, legittimato peraltro nelle sue posizioni dal Consiglio Europeo del 28-29 giugno. I numeri sono su Avvenire, del 4 luglio, che riporta quelli in possesso dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, che ha fornito la cifra di 1405 morti dall’inizio del 2018 (tre in meno di quanto riportato dalla Die Presse), con un aumento del 40%. Stiamo parlando di persone: il numero dei migranti è diminuito, mentre quello delle vittime in mare è drasticamente aumentato. Come usa Salvini questi dati, questi fatti? Di morti non parla, se non per sostenere che il modo migliore per evitarli è impedire le partenze, senza però fare un bilancio della sua politica che ha causato un numero maggiore di morti rispetto al numero di migranti, che è invece diminuito. Questa la prima manipolazione. Seconda manipolazione: per un verso attribuisce a sé stesso il successo per la riduzione dei migranti, disconoscendo quanto ottenuto da Minniti che ha inaugurato la chiusura del Mediterraneo e dato il via agli accordi con le fazioni libiche per fermare le partenze; per l’altro, si parla di pericolo dei migranti, dovuta alla loro invasione. Salvini non parte dai fatti, li inventa, diffonde ‘parole’, che diventano ‘fatti di propaganda’, o come dice Saviano, ‘comunicazione politica’. Quanto le ‘notizie’ e le affermazioni di Salvini, grazie alla sua posizione di Ministro dell’Interno, siano produttive di effetti reali sulle persone persuadendole dei pericoli dei migranti è documentato da una ricerca pubblicata il 27 agosto. Dalla ricerca, condotta da Marco Valbruzzi dell’Istituto Cattaneo, emerge che la maggioranza degli italiani crede davvero nell’invasione degli stranieri ritenendo che essi rappresentino circa il 25% della popolazione mentre sono circa il 7%.

Scrive Valbruzzi che “esiste una relazione positiva tra l’errata percezione del fenomeno migratorio e l’atteggiamento verso l’immigrazione [...] è chiaro che la questione dello ‘errore percettivo’ in riferimento al fenomeno migratorio non deriva soltanto da un problema di poca o scarsa informazione, bensì da diverse ‘visioni’ del mondo che inevitabilmente ne condizionano l’osservazione”. Se i rappresentanti di istituzioni, quale il Ministro dell’Interno, forniscono informazioni distorte ed esprimono giudizi calunniosi tali da alimentare paure e ostilità verso i migranti si produce un effetto di percezione distorto: i discorsi insensati producono un effetto di realtà, ma di una realtà inesistente.

Anche le relazioni tra Stati sono state trumpizzate. Nell’ultimo vertice della NATO, Trump ha denunciato la Germania per essere prigioniera, per le forniture di gas, della Russia quando le statistiche dicono che certo il gas russo ammonta al 40% del fabbisogno tedesco, tuttavia l’altro 60% è fornito da Norvegia, Olanda e da fonti interne. Naturalmente se a trattare con Putin è direttamente Trump, ciò viene esibito come abile mossa strategica per ricondurre la Russia a una politica di collaborazione con gli USA.

Potrei continuare ad elencare i casi in cui i messaggi delle destre reazionarie cozzano con i fatti. Voglio solo, a mo’ di sintesi, riferire di un articolo di Alexander Dobrindt, ex-ministro dei Trasporti della Germania e attuale capogruppo della CSU al Bundestag. In Die Welt, del 4 gennaio 2018, ha scritto che fin dall’origine la CSU è stato un partito interclassista e ideologicamente aperto a cattolici, a protestanti e a non-credenti, a nazionalisti e a cosmopoliti, dunque un partito popolare, una Volkspartei, capace di rappresentare ampi settori di popolo. La CSU, argomenta Dobrindt, si è sempre opposta allo statalismo della sinistra, riferendosi alla socialdemocrazia, e al verbalismo dei Verdi, e ora fa da argine all’islamismo, il quale attacca l’idea stessa di libertà e l’identità dell’Europa. Contro queste forze si erge ora una ‘nuova cittadinanza’, che sta promuovendo una rivoluzione conservatrice che fa seguito a una rivoluzione delle élite (quella che si snoderebbe dal ’68 alla globalizzazione). La CSU sostiene questa rivoluzione conservatrice, anzi ne è la sua voce a livello politico per affermare la salvaguardia del creato, la difesa della vita, la sicurezza fisica delle persone, la dignità dell’uomo, tutti cardini della cultura cristiana e occidentale.

Il discorso di Dobrindt è illuminante dell’ideologia delle destre reazionarie, le quali hanno fatto parte dell’establishment, e spesso, come nel caso della CSU, sono state al governo – la CSU per esempio è ininterrottamente al potere in Baviera dalla nascita della RFT, ed è stata membro di tutti i governi a guida CDU ‒ e, ciononostante, alimentano una rivolta contro le vecchie élite in nome della rivoluzione conservatrice. Questa rivoluzione conservatrice sta mettendo in discussione l’egemonia del vecchio establishment, delle vecchia oligarchia, consolidatasi nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale. La parole di Dobrindt, a segno che la sua ideologia è piuttosto diffusa, risuonano nella propaganda di Orbàn e del suo ministro degli Esteri, Péter Szijjártó, il quale, su Il Corriere della Sera del 28 giugno, esaltava i popoli dell’Europa centrale quali ‘autentici combattenti per la libertà’, sostenendo che in "Ungheria stiamo edificando una democrazia autenticamente cristiana sulla base della volontà popolare".

Come ha riconosciuto lo stesso Macron, nel suo discorso del 27 agosto alla Conférence des Ambassadeurs, la lotta per l’egemonia tra oligarchia neoliberale e destre reazionarie avviene su un terreno squisitamente politico ‒ egli ha detto che non c’è una ‘crisi migratoria’, c’è “una crisi politica europea” che riguarda la costruzione del ‘senso comune’ nelle società occidentali. L’ideologia dei partiti reazionari è quella delineata da Dobrindt. È essa a guidarli nella rivolta contro l’establishment, contro le élite che hanno gestito i paesi capitalistici nella fase della globalizzazione, e prima della ricostruzione post-bellica. È un movimento dall’alto che coinvolge però larghe fasce di popolo, conquistate al nuovo ‘senso comune’, che consisterebbe nell’identità cristiana contro la contaminazione culturale con le religioni e con i valori antioccidentali dei migranti, nella domanda di correzioni nella distribuzione della ricchezza per garantire protezione sociale, nella ricerca di forti leader di governo in grado di realizzare politiche di sicurezza.

2) Le destre reazionarie

Nell’UE si è aperta, come prima ho sottolineato, una crisi specificamente politica, che tocca anche problemi di strategia economico-sociale, ma che prevalentemente riguarda le questioni di senso, dell’esistenza individuale e della convivenza sociale. La crisi politica è una crisi di egemonia delle forze liberal-conservatrici e cristiane del PPE, e di quelle neoliberali della socialdemocrazia modellata dalla ideologia modernizzatrice di Blair e Schröder, colonne ambedue del vecchio establishment dell’UE, messo ora in discussione da un variegato schieramento di destre diffusamente chiamate populiste, e che io definisco ‘destre reazionarie di massa’ (per mutuare un’espressione di Togliatti). I discorsi di queste destre sono fondati sull’alterazione, quando non vera e propria negazione, dei fatti e dell’informazione accertabile e verificabile. Le loro affermazioni non sono suffragate dai fatti, dalla ‘verità delle cose’, e le loro proposte non sono orientate da criteri né di ragione né di ragionevolezza. Affermazioni e proposte sono espressioni della loro volontà di potenza, della volontà di giungere al e di gestire il potere, innanzitutto il governo.

Sia chiaro: sono ben consapevole che i ‘fatti’ sono teoria-dipendenti, sono theory-laden, poiché un ‘fatto’ è individuato in virtù di uno schema concettuale. Inoltre, nell’interpretazione dei fatti sociali va inclusa l’intenzionalità; quindi le motivazioni, i fini e mezzi degli agenti devono svolgere un ruolo di rilievo nella analisi politico-sociale, anche quando si tratta di conseguenze inintenzionali di atti intenzionali. Infine occorre tenere in accurata considerazione la performatività, per cui in contesti istituzionali il ‘dire’ è un ‘fare’, le parole sono fatti (secondo l’impostazione che da J. L. Austin va a J. R. Searle).

Nella conferenza stampa della BCE del 26 luglio, a Mario Draghi è stato ricordato da un giornalista che nello stesso giorno di sei anni prima, a Londra, pronunciò le famose parole: “all’interno del suo mandato, la BCE è pronta a fare qualunque cosa pur di salvare l’euro. E credetemi, sarà sufficiente”. A commento di queste sue affermazioni, Draghi, sei anni dopo, sostiene che l’euro è molto più forte di quanto non lo fosse allora, certo non solo in virtù del potere delle sue parole ma anche per le ‘riforme’ introdotte dai governi in tema di governance economica, di stabilizzazione delle banche, di riduzione del debito pubblico e di liberalizzazione dei mercati dei capitali, delle merci e del lavoro. Il richiamo a ‘whatever it takes’, può aiutarci a comprendere la relazione bidirezionale di ‘fatti’ e ‘parole’ negli eventi politico-sociali, e a cogliere il suo sovvertimento operato dalle destre reazionarie.

Le parole di Draghi ebbero l’effetto di placare i mercati, furono performative in quanto il suo dire fu un agire sulle cose, in quanto modificò il sentiment degli operatori finanziari relativo al fatto euro, stabilendo nelle dinamiche dei mercati la sua irreversibilità, che venne per questo assunta a presupposto delle decisioni dei centri finanziari. Ebbe un effetto perlocutorio, per continuare ad usare le categorie del linguista Austin, in quanto convinse gli operatori finanziari che effettivamente la BCE aveva i mezzi per salvare l’euro. Ebbe, infine, un effetto più ampio sui cittadini perché li persuase che le istituzioni erano in grado di raggiungere i risultati che si prefiggevano, cioè di salvare l’UE, suscitando fiducia nei meccanismi di mercato in quanto capaci di produrre crescita economica. Sarebbe questa a contare in una moderna democrazia, caratterizzata non dagli input dei cittadini attraverso le elezioni, bensì dagli output, dai risultati economici in termini di PIL.

Questa rapide, spero non approssimate, considerazioni metodologiche e la loro esemplificazione attraverso la descrizione di un evento, come quello del discorso di Draghi a Londra nel 2012, sono sufficienti per mettere a fuoco situazioni, fasi storiche in cui al contrario le ‘parole’ perdono qualsiasi riferimento ai fatti reali, perché i ‘fatti’ si producono esclusivamente in un mondo mito-poietico, in cui le parole producono ‘fatti’ solo al fine di suscitare consenso a politiche reazionarie. Si creano convinzioni che si espandono in ampie fasce di popolazione, si suscitano sentimenti intorno a eventi non accaduti, intorno a fatti artificiosamente costruiti, creati ad arte. Ci sono già stati periodi storici in cui il consenso è stato indirizzato attraverso e verso un mondo solo ed esclusivamente ideologico, che non aveva alcuna relazione con il mondo reale. Si pensi ai sentimenti e alle mobilitazioni provocati dal mito della ‘vittoria mutilata’ in Italia dopo la Grande Guerra (inventato da Gabriele D’Annunzio per la sua marcia su Fiume nel settembre del 1919), e del Dolchstoß, ‘la pugnalata alla schiena’ inventata dal comando militare tedesco per non rispondere delle proprie colpe per la disastrosa condotta delle operazioni belliche che portarono alla sconfitta e alla disgregazione della Germania guglielmina. Anche grazie a questi miti si sono costruiti i successi politici delle forze reazionarie dopo la I Guerra mondiale, come spiega diffusamente Robert Gerwarth nel volume La rabbia dei vinti (Roma-Bari 2017, pp. XVII, 115, 198, 217).

Voglio anche ricordare come non basti l’appello al popolo o l’esaltazione della sovranità popolare a caratterizzare una politica realmente democratica e di trasformazione sociale perché nella storia contemporanea abbiamo già avuto movimenti che, richiamandosi alla sovranità popolare, hanno distrutto le istituzioni rappresentative, sia pure esse liberali come quelle dell’Italia degli anni Venti del secolo scorso. Il fascista Roberto Farinacci pubblicò La voce del popolo sovrano per propagandare ideologie illiberali e antidemocratiche, e il nazionalsocialismo conquistò il voto dei disoccupati con un piano straordinario del lavoro, umiliando i sindacati tedeschi e annientando il partito socialdemocratico e quello comunista.

Non sostengo che il mondo stia conoscendo di nuovo il fascismo; non è fascismo, perché non si ricorre alla violenza e al carcere per gli oppositori, anche se violenza e carcere vengono usati contro i migranti, e per il momento l’attacco alle istituzioni rappresentative è condotto in nome della democrazia identitaria, che si serve della Rete per manifestare il proprio consenso al capo politico. Voglio solo sostenere che il fenomeno, definito per lo più populista, rivela una divaricazione tra discorso del nuovo establishment e realtà sociale, tra le sue parole e il mondo, ‘il mondo là fuori’ come in gergo lo chiamano i filosofi, e che in questa divaricazione si sviluppa l’autoritarismo politico. Mutuando la formula di Hobbes ‒ ‘il re è il popolo’ a significare che quel che lui sente, afferma e fa è espressione diretta del popolo ‒ oggi possiamo dire che il ‘leader è il popolo’. Se le parole del leader sono diffusamente ritenute essere ‘la verità delle cose’, ed espressive del senso comune, siamo già in un regime illiberale, antidemocratico e autoritario, in quanto la realtà è quella espressa dalle parole del capo, e l’evoluzione politica dipende solo da lui, dalle sue decisioni.

Ripeto per estrema chiarezza: non metto sullo stesso piano la xenofobia delle destre reazionarie e il fascismo, non è questo il punto. Il punto è che esistono fasi storiche in cui le parole perdono qualsiasi riferimento alle cose, non denotano più nulla, se non sé stesse. Per rendere ancora più chiaro quanto sostengo, si prenda il Trattato teologico-politico di Spinoza, dove al capitolo XVI ‘Dei fondamenti dello Stato’ si rinviene questa prima argomentazione: “in un reggimento democratico, poco è da temersi l’eventualità di assurde deliberazioni, perché è impossibile che la maggioranza di un’assemblea, se è veramente una maggioranza, si trovi d’accordo in una questione assurda”. Nella seconda Spinoza sostiene che il fondamento e il fine della democrazia consistono “nell’evitare gli assurdi dell’appetito e nel contenere gli uomini, il più che è possibile, nei limiti della ragione, affinché vivano in pace e in concordia; ché, se questo fondamento e questo fine venissero meno, facilmente tutto l’edificio cadrebbe” (ed. it., Firenze 1971, p. 277).

La prima argomentazione è stata inficiata, disgraziatamente per noi, dalle vicende del XX secolo, quando i parlamenti, in Italia e Germania, votarono leggi liberticide approvate da maggioranze formatesi in seguito a legale mandato elettorale da parte del popolo: le maggioranze popolari possono distruggere gli istituti liberali e democratici, se non vengono limitate dai vincoli dei diritti universali delle persone. Questa smentita, tuttavia, dà maggior valore alla seconda argomentazione di Spinoza per cui se viene meno la ‘ragione’ crolla l’edificio sociale, se in esso devono vigere pace e armonia, non paura e odio che possono spingersi fino a vedere nell’altro un nemico personale da espellere dalla società o da annientare con la forza.

La cancellazione della ‘ragione’ rende impossibile una società democratica, dato che la frattura tra le parole e le cose, tra i discorsi e la realtà, produce ‘deliberazioni irragionevoli’, e credere che adattandosi ai sentimenti popolari li si possa dirottare verso approdi democratici è un’illusione, perché essi sono forgiati dall’alto e al servizio di una volontà di potenza, di progetti di conquista e gestione del potere: quei ‘sentimenti popolari’ sono il portato di un mondo ideologico reazionario artatamente costruito pur sempre da élite.

3) Senso comune e buon senso

Si sente spesso ripetere che la ‘sinistra’ ‒ termine ormai che non denota più nulla ‒ sarebbe stata cancellata perché avrebbe perso la ‘connessione sentimentale’ con il popolo, facendo così il gioco delle destre che si sarebbero fatta interpreti dei sentimenti popolari dominati dalla paura dei migranti e dalla perdita di identità. Si deforma Gramsci, a cui risale quell’espressione, in un populista, in un reazionario, mentre egli, come ben documentato da Guido Liguori in una Relazione del maggio 2005 per la IGS, distingue tra ‘senso comune popolare’, usato per lo più in accezione negativa, e ‘buon senso’, espressione con valenza per lo più positiva. Infatti Gramsci riporta un passo, di fine ironia, del capitolo XXXII de I Promessi Sposi dove Manzoni, a commento della diceria sugli untori, ritenuti dal popolo apportatori di peste, scrive: “il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”. Tra ‘senso comune’ e ‘buon senso’ corre un abisso che non si può e non si deve saltare.

Oggi va emergendo una ‘mentalità collettiva’ che è la base di una diversa forma di egemonia, quella delle destre reazionarie e xenofobe, e che mette a dura prova la vecchia egemonia dell’oligarchia transnazionale, finora detentrice del potere nel l’UE e nei suoi Stati membri. Questa vecchia oligarchia è stata guidata dall’idea della ‘market democracy’, della democrazia mercatista, perché convinta che la costruzione del mercato interno a livello europeo avrebbe innescato processi d’integrazione sociale. È stata l’ideologia funzionalista, praticata da Monnet, a suggerire la strategia di costruzione del mercato senza preoccuparsi di politiche redistributive e di interventi sociali perché l’integrazione del popolo nelle istituzioni europee sarebbe avvenuta grazie allo sviluppo economico dovuto all’allargarsi dei mercati nazionali, unificati a livello continentale. Questo processo d’integrazione non si è realizzato all’epoca dell’istituzione del mercato comune, infatti tutti hanno dovuto riconoscere il deficit di democrazia della CEE, e non si è realizzato con la costruzione del mercato interno e della moneta unica che hanno accentrato le politiche pubbliche degli Stati membri dell’UE a Bruxelles e a Francoforte. Si è formata un’oligarchia sovranazionale che ha supposto di acquisire legittimazione nell’esercizio del potere grazie alla crescita economica, e per questo è stato teorizzato un tipo speciale di regime politico denominato output democracy, per cui i detentori del potere sarebbero legittimati non tanto dal voto dei cittadini, quanto dal benessere economico scaturente dal mercato unico europeo.

Questi risultati in termini di benessere economico e di sicurezza non sono arrivati, anzi la Grande Recessione ha accentuato le disuguaglianze e resa precaria l’occupazione, e la vita, di milioni di persone. L’ossimoro di ‘crescita nell’austerità’ ha mostrato la sua fallacia concettuale e i suoi effetti devastanti sulla società: precarietà, bassi redditi, distruzione dei servizi pubblici e degrado del welfare. Tutto ciò si è accompagnato con la retorica dell’innovazione dei processi produttivi grazie alle tecnologie informatiche che richiederebbero una formazione permanente della forza-lavoro, su cui ricadrebbe la colpa se disoccupata. Si è diffusa l’idea che non esiste ‘disoccupazione involontaria’, essendo questa sempre volontaria causata dal mancato adeguamento alle nuove mansioni e professioni. Questa ‘narrazione’ dell’oligarchia UE è crollata perché le persone hanno verificato sulla propria pelle che le politiche di austerità hanno provocato un generale peggioramento dei livelli salariali e di esistenza, mentre hanno favorito il salvataggio delle banche e l’innalzamento della produttività e della competitività delle imprese sui mercati mondiali. A farsi carico della ‘rabbia’ sociale sono forze reazionarie che in nome della lotta del ‘basso contro l’alto’ hanno intercettato istanze popolari che devono però far coesistere con il funzionamento del mercato unico, e dunque con gli interessi dei settori imprenditoriali legati alle catene di valore sovranazionali.

Si è nel mezzo di una lotta per l’egemonia tra un’oligarchia legata al capitalismo globalizzato e forze reazionarie che tentano di saldare istanze popolari e interessi capitalistici sotto le bandiere della xenofobia, creando un nemico su cui dirottare la rabbia sociale: i migranti.

La ‘rivoluzione di mercato’, radicalizzatasi con la globalizzazione, ha sconquassato la società, che Angela Merkel pensa di risanare con le politiche di ‘crescita nell’austerità’ nel quadro delle istituzioni esistenti, ed Emmanuel Macron con il progetto di un ‘umanesimo progressista’ e con la diffusione della cultura tecnologica (come ha ripetuto nel suo discorso del 27 agosto). Il duo Salvini-Di Maio, invece, vuole ricomporre l’unità sociale contro un nemico, i migranti, e con provvedimenti di natura interclassista che mettono insieme pensioni e flat tax, freno alla precarietà e abbassamento del costo del lavoro per le imprese – politiche che rispettano i vincoli allocativi posti dal mercato allentando, nei limiti del possibile, quelli redistributivi.

Le destre reazionarie hanno un compito non facile davanti a sé perché, per esempio, indicare nei migranti il nemico per garantire il benessere degli italiani si scontra con la presenza diffusa, nell’industria nei servizi nell’agricoltura, di manodopera ‘migrante’ a basso costo e senza alcuna protezione sociale e sicurezza personale (come le stragi in Puglia purtroppo testimoniano); il respingimento dei migranti nel Mediterraneo richiede che i confini dell’UE si estendano venendo meno la sovranità nazionale sul proprio territorio, che invece è una bandiera delle destre. Ancora un esempio di contraddizione nelle posizioni delle destre xenofobe, è quello dell’Ungheria e dei paesi di Visegrad, che, mentre minacciano chiusure nazionalistiche per non sottostare alle decisioni di Bruxelles, devono ricorrere ai fondi strutturali disposti dall’UE e accettare la delocalizzazione (divenendo anelli della catena delle subforniture), per incrementare il loro PIL e partecipare alla distribuzione dei profitti delle imprese-madri, in primo luogo tedesche. Tenere insieme retorica anti-UE e richieste di sostegno a Bruxelles per gestire i flussi migratori, attacco alla Germania e preservazione dei legami produttivi con le sue imprese, non sarà un compito facile.

Un ascoltato opinion maker quale Martin Wolf, in un articolo sul Financial Times (21-22 luglio), ben consapevole di questa crisi politica, di questa crisi di egemonia, ritiene che la questione delle questioni è se la democrazia liberale potrà sopravvivere all’era di Trump, del Brexit, di Putin e di Xi Jinping. Wolf individua la frattura tra il vecchio establishment e le destre reazionarie nel fatto che il primo segue una linea che, identificando mercato e democrazia, fa risalire le cause della crisi economica alle sregolatezze delle politiche fiscali (invece di quelle del settore finanziario), da qui la scelta dell’austerità; le destre reazionarie colgono i pericoli di disgregazione sociale dovuti all’insicurezza del lavoro e alle disuguaglianze e vogliono per questo azionare la leva fiscale per attenuarle, mentre agitano i pericoli dell’immigrazione per cementare il consenso popolare.

L’UE oltre alla conseguenze della Grande Recessione deve affrontare una crisi eminentemente politica, in cui si contendono l’egemonia due ceti dirigenti: l’uno formato da gruppi politici legati alla tecno-burocrazia, alla finanza e alle grandi industrie; l’altro espressione di classi medie impoverite e del mondo della piccola-media imprenditoria, capace al tempo stesso di fomentare la rabbia sociale di settori popolari colpiti duramente dalla crisi economica. Queste destre reazionarie riescono al momento a tenere insieme strati con interessi sociali differenti grazie al ‘capro espiatorio’ dei migranti e alla retorica anti-élite. Sono però evidenti le loro contraddizioni: devono difendere la piccola-media industria agitando la difesa dell’imprenditoria nazionale contro gli egoismi tedeschi, mentre quella stessa imprenditoria è legata alle catene di valore sovranazionale che hanno i terminali proprio in Germania; devono difendere i confini nazionali dalle invasioni dei migranti chiedendo che questi stessi confini diventino confini europei; devono chiudere i porti nazionali, chiedendo che altri paesi UE aprano i loro; devono difendere il ‘patrio suolo’ chiedendo la solidarietà degli altri governi nazionalisti che non vogliono aprire i propri confini; vogliono sostenere Putin senza poter venir meno ai vincoli della NATO; vorrebbero riconquistare la sovranità monetaria, senza potersi svincolare dai Trattati UE. La retorica anti-élite può coprire molte contraddizioni, ma alla lunga non può sanarle.

4) Lotta di potere

Sarebbe solo cecità intellettuale negare una profonda crisi delle classi dirigenti ai livelli nazionali e di conseguenza a quello dell’UE, e infatti i suoi esponenti non la negano né la sottovalutano, solo che, forti della vecchia convinzione espressa da Monnet nelle sue Mémoires (Parigi 1976, p. 488), ritengono che l’UE sia proprio il risultato delle risposte alle crisi, perché il loro superamento richiede sempre più ampie cessioni di sovranità. Infatti, Schäuble si dichiara ottimista anche in questa situazione di acuti conflitti relativi alla gestione politica dell’UE, anzi sostiene che “nelle crisi si avanza” se si assumono delle responsabilità comuni (Corriere della Sera, 24 giugno). Questa volta, però, non è come nel 2008-10 quando governi, Commissione e tecnocrazia non trovarono nessuna opposizione nel varare misure di austerità e di accentramento delle decisioni di bilancio, a cui seguirono gli interventi della BCE sotto la guida di Draghi. Oggi l’opposizione alle scelte dell’establishment di Bruxelles viene dal loro stesso campo, da parte delle destre che guidano governi di paesi membri dell’UE – dei paesi di Visegrad, dell’Austria, dell’Italia. Sulle questioni specifiche della governance economico-finanziario, poi, i governi di Belgio, Olanda, Lussemburgo, Finlandia, Malta, Svezia Lituania, Estonia, e Irlanda si oppongono alle scelte contenute nella Dichiarazione di Meseberg, come documenta il Financial Times del 23-24 giugno, che riporta una loro lettera polemica inviata a Macron e alla Merkel, oltre che alle istituzioni dell’UE.

Merkel e Macron hanno provato, con la Dichiarazione del 19 giugno, a preparare il terreno del successivo Consiglio Europeo perché questi assumesse decisioni sulle questioni del rafforzamento degli strumenti di governance della finanza e delle banche, della trasformazione del MES in un Fondo Monetario Europeo, del sostegno ai processi di digitalizzazione, della sicurezza e della difesa. Nelle prime righe si parla di ‘sfide esistenziali’ di fronte a cui si trova l’UE, tuttavia la Dichiarazione, nell’elencare le misure ritenute necessarie per gestire l’economia e il mercato unico, non affronta la questione delle questioni: quali forze politiche saranno chiamate a gestire quelle misure, e, soprattutto quale l’ordine di priorità nelle decisioni del Consiglio Europeo del 28-29 giugno? Nella Dichiarazione si procede business as usual, pensando al rafforzamento dell’Eurozona mediante l’istituzione di un bilancio comune, al backstop per la risoluzione delle crisi bancarie, alla trasformazione del MES. Si parla quasi en passant della politica migratoria credendo che sarebbero stati sufficienti il potenziamento di Frontex e gli accordi sui cd movimenti secondari. Tutto ciò, puntualizza la Dichiarazione, deve svolgersi nel quadro di "un’Europa, sovrana e unita, un’Europa competitiva, un’Europa che sia un’ancora per la prosperità e che difenda il suo modello economico e sociale e la sua diversità culturale, un’Europa che sostiene una società aperta basata su valori comuni di pluralismo, di solidarietà e di giustizia [...] un’Europa pronta ad affermare il suo ruolo internazionale a favore della pace, della sicurezza e dello sviluppo sostenibile”.

Proprio questa Europa è oggetto della sfida delle destre reazionarie, che si stanno organizzando per costruire la ‘nuova Europa’, come dichiarato da Orbàn dopo l’incontro con Salvini a Milano il 28 agosto. A questa sfida Merkel e Macron non danno risposta, se non con generici richiami ideologici e con compromessi che spostano a destra l’asse della gestione politica dell’UE.

Per averne una prova basta leggere i due discorsi che la Cancelliera Merkel ha tenuto al Bundestag il 28 giugno, prima di partecipare al Consiglio Europeo, e il 4 luglio in sede di replica sulla legge di bilancio della RFT. Nel primo Merkel, affrontando la crisi delle relazioni con gli USA, ribadisce la centralità della NATO per la sicurezza della Germania e dell’Europa, conferma l’obiettivo di portare le spese militari al 2% del PIL, quindi, per quanto riguarda l’UE, ricorda i punti della Dichiarazione di Meseberg e soprattutto afferma che mai più si apriranno le frontiere tedesche ai richiedenti asilo come nel 2015. Anzi, per venire incontro al suo ministro dell’Interno Seehofer, si impegna a ricercare una soluzione per quei richiedenti asilo in Germania che hanno fatto domanda in altro paese, dando vita ai cd movimenti secondari.

Dunque Angela Merkel è andata al Consiglio Europeo del 28 giugno con un’agenda che vedeva sì la questione dei migranti come cruciale per il destino del suo governo, con l’intenzione però di inquadrarla in un contesto in cui gli altri temi, di governance economica e di natura geopolitica, avessero un loro rilievo.

A Bruxelles, nel Consiglio Europeo del 28-29 giugno, l’agenda di Merkel (e di Macron) è stata scardinata: la ‘questione migranti’ ha preso il sopravvento con l’affermazione di scelte che trasformano il Mediterraneo in frontiera esterna dell’UE, da proteggere con nuovi distaccamenti di polizia e con una chiusura verso le attività delle ONG. Merkel, grazie a generici impegni assunti dall’Italia e da accordi con Grecia e Spagna per il ritorno dei richiedenti asilo, ha evitato sì la crisi del suo governo, minacciata dalla CSU, essendo costretta ad accettare una politica migratoria di chiusura e soprattutto a prendere atto del rinvio a successivi appuntamenti del Consiglio Europeo delle decisioni relative alle misure messe a punto a Meseberg.

Il rovesciamento dell’agenda si riflette in pieno nel discorso al Bundestag del 4 luglio, quando, invece di trattare i temi del bilancio e dei risultati del governo di grande coalizione, ha dovuto render conto della politica migratoria, sposando in pieno l’ideologia securitaria per rispondere alle paure della popolazione. La Merkel, inneggiata nel 2015 dai profughi siriani che camminavano con la sua foto verso la Germania, è un ormai un ricordo sbiadito. Questo è il segno che le destre reazionarie e xenofobe hanno già spostato il piano del confronto e delle decisioni politiche. Le élite, che almeno a parole professano i valori di democrazia e tolleranza (come nella Dichiarazione di Meseberg), hanno ceduto sulle questioni dei migranti e della sicurezza interna, forse con la speranza che sul terreno della governance economica nelle prossime riunioni del Consiglio Europeo si possa trovare un‘intesa con le destre reazionarie.

Non sarà facile, perché Angela Merkel ha di mira un accentramento ulteriore delle decisioni delle politiche fiscali il cui controllo dovrebbe essere spostato verso il progettato Fondo Monetario Europeo. Ciò comporta consistenti cessioni di sovranità, su cui l’Austria, alla presidenza del Consiglio per il secondo Semestre del 2018, ha messo nel suo Programma dei precisi paletti.

Il motto del Programma austriaco è rivelatore, suonando: Ein Europa, das schützt – ‘un’Europa che protegge’, che si può anche rendere con ‘un’Europa che difende’. In ogni caso il tema della sicurezza contro i migranti è centrale nel Semestre austriaco; inoltre tra i primi punti, relativi al programma del Consiglio affari generali, si colloca un tema, il cui solo titolo dovrebbe suonare da avvertimento alla Merkel e a Schäuble, che propugnano nuove cessioni di sovranità nazionale da parte degli Stati membri. Infatti, si vuole istituire una Task force su Sussidiarietà e Proporzionalità al fine di ridimensionare il ruolo delle istituzioni pubbliche all’insegna dello Stato minimo, che trasposto a livello dell’UE significa ‘fare meno più efficientemente’, implicando un maggior ricorso alle iniziative degli Stati membri. Anche questi però devono fare meno e più efficientemente, cosicché tutte le istituzioni pubbliche, a qualsiasi livello, devono limitare il proprio raggio d’azione a ciò che è necessario (a ciò che i privati proprio non riescono a fare), sempre perseguendo l’efficienza. Stato minimo a livello nazionale, intervento minimo a livello europeo. Lo scontro con chi vuole più ampie cessioni di sovranità sarà duro. La gestione politica dell’UE oscillerà tra più mercato e più sicurezza, tra un’élite legata ai mercati e alla tecnocrazia e destre reazionarie che, comunque, non potranno fare a meno dei mercati. Si continuerà ad assistere a una lotta per il potere, in cui diritti universali e uguaglianza, democrazia e libertà non troveranno posto.

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