Durissimo con i poveri e i migranti, il governo striscia come una biscia davanti alle imprese e all’Unione Europea. Ma i problemi da risolvere si moltiplicano e comincia a farsi strada anche a palazzo Chigi la consapevolezza che il consenso non può essere mantenuto soltanto con i decreti a costo zero, come quello su sicurezza e immigrazione, perché alla fin fine la popolazione si fa i conti in tasca.
Intorno alla “correzione al Def”, momento fondamentale della prossima legge di stabilità da inviare all’esame della Commissione europea, si va consumando uno scontro niente affatto nascondibile tra i “tre governi in uno”. Scontro durissimo, se addirittura un neo-democristiano come Luigi Di Maio si sente in dovere di minacciare un voto negativo dei Cinque Stelle nel caso non ci sia nulla da poter spacciare come “reddito di cittadinanza”. Come in tutte le commedie che si rispettino, subito dopo ha cercato di sminuire la portata della dichiarazione: “La mia non è una minaccia, ma va da sé che il Movimento vota una manovra che sia coraggiosa”.
La legge di stabilità, però, non è una legge qualsiasi, su cui un governo può dividersi senza grandi conseguenze. E’ la principale legge dello Stato, quella che stabilisce per il prossimo anno quali spese vanno ridotte, quali aumentate, da dove si prendono i soldi e come si tiene il tutto in un quadro che “tranquillizzi i mercati” e dunque anche la Commissione europea. Una maggioranza di governo che si divide su questo, insomma, manda il governo a casa...
Il “coraggio” che si chiede al ministro dell’economia – garante nei confronti della Ue – è quello di alzare le percentuali del deficit rispetto al Pil. Ma identica richiesta arriva dalla Lega, con obiettivo del tutto diversi (flat tax e “quota 100” per le pensioni degli operai del Nord, gli unici ad avere – in piccola parte – una possibilità di utilizzarla davvero).
Anche su questo secondo fronte, però, tenere i conti in ordine rischia di deludere le attese. In questi giorni sono circolate diverse ipotesi di ritocco della legge Fornero, ma tutte molto riduttive e penalizzanti per i lavoratori. Si va dal ricalcolo col metodo contributivo anche dei periodi di lavoro fino al 1995 (quando era in vigore il metodo retributivo), fino a una riduzione dell’assegno pensionistico dell’1,5% per ogni anno di anticipo sui 67 anni “forneriani”.
Gli unici a godere certamente delle attenzioni del ministro Tria sono le imprese. Stamattina, nella consueta cornice della Confcommercio, il ministro ha garantito che “Si parte ora dalle imprese, negli anni successivi affronteremo il problema Irpef”. Come Macron in Francia, come olandese Mark Rutte (via le tasse sui dividendi!), proprio negli stessi giorni. Un classico sempreverde, quello della “politica dei due tempi” (prima le imprese, poi i lavoratori). Va avanti dal 1976 – dalla “politica dei sacrifici” del governo Andreotti-Pci – e non si è mai interrotta. Con i risultati che ogni lavoratore dipendente può vedere dalle sue tasche...
Tutte le garanzie vere, però, sono per i soliti e mitici “mercati”. “Sarà una manovra di crescita, non di austerity, ma che non crea dubbi sulla sostenibilità del nostro debito, bisogna continuare nel percorso di riduzione del rapporto debito PIL”. Perché “dobbiamo dare un segno ai mercati finanziari, a coloro che ci prestano i soldi. Stiamo attenti, perché a volte se uno chiede troppo poi deve pagare interessi maggiori e quello che si guadagna si perde in interessi”.
Fino al definitivo: “Ho giurato nell’esclusivo interesse della Nazione e non di altri e non ho giurato solo io. Ovviamente ognuno può avere la sua visione, ma in scienza e coscienza, come si dice, bisogna cercare di interpretare bene questo mandato”, che mette gli interessi elettorali di partito nel sottoscala.
La traduzione è semplice: “mi dispiace per chi ha promesso l’impossibile, ma qui non c’è trippa per gatti”.
La scommessa diventa quindi: Di Maio, cosa farai quando dovrai votare una manovra che non è quella che prometti? Farai cascare il “tuo” governo o racconterai qualche altra storia?
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