Sul Meridione aleggia lo spettro delle ZES, le Zone Economiche Speciali. Le ZES sono aree geografiche circoscritte nelle quali viene applicata una legislazione economica diversa e più vantaggiosa per le imprese rispetto a quella applicata nel resto del Paese. In queste aree sono previsti incentivi a beneficio delle aziende, che si traducono in agevolazioni fiscali/finanziarie, condizioni salariali diversificate e semplificazioni amministrative. In pratica delle maquiladoras (1).
In Italia, le prime sperimentazioni verso questo modello sono state effettuate dalla Regione Campania e Calabria dove sono stati approvati i primi decreti riguardanti l’istituzione delle ZES.
Sul nostro giornale abbiamo già suonato da tempo l’allarme per quella che appare come la reintroduzione delle gabbie salariali e che prevede, a parità di lavoro, salari differenziati tra il Meridione e il nord del paese. Le ZES sono la testa d’ariete di questo progetto, teso ad acutizzare la crescente – e pesante – asimmetria economico/sociale che sta riportando l’Italia ad una visione “sabauda” (dunque ottocentesca) della coesione e delle disuguaglianze sociali/territoriali. Oggi le ZES sono parte integrante del programma dell’attuale governo sul Mezzogiorno, ma sarebbe disonesto ritenere che sia una ingannevole furbata solo di questo esecutivo.
Il 4 Maggio scorso, all’Università Aldo Moro di Bari, si è svolto il convegno “Le Zone Economiche Speciali, aspetti applicativi”. Il presidente dell’Autorità Portuale di Bari, Ugo Patroni Griffi, ha ammesso che “Le ZES sono dei laboratori, sono nate come laboratori e in queste zone testeremo nuove formule economiche”. Non solo, ha anche precisato: “Per l’Adriatico meridionale ci sono duemilaquattrocento ettari sapientemente distribuiti favorendo gli investimenti nella logistica, nella retroportualità e per attirare gli investimenti stranieri. Mancano solo due provvedimenti amministrativi, quello della Regione Puglia che suggelli con una delibera il lavoro fatto e poi il Ministero riconosca con un decreto la ZES dell’Adriatico meridionale. Siamo alla soglia di una rivoluzione culturale, gli investitori vanno dove c’è immediatezza, coerenza e tempi certi, tante qualità che noi non siamo in grado di offrire”.
Due giorni fa invece il direttore dello Svimez, Luca Bianchi, sull’Huffington Post, ha riportato alla memoria l’evocazione di fare del Meridione una “nuova Florida”. Bianchi liquida giustamente le proposte della Lega che ipotizza il Sud come l’area di ricovero per l’inverno di pensionati mitteleuropei (facendo così concorrenza al Portogallo, ndr),“Una sorta di nuova Florida Mediterranea che non considera l’inadeguatezza dei servizi assistenziali e sanitari che proprio nelle Regioni Meridionali rendono più difficile la vita degli anziani”.
Questa visione del Meridione come nuova Florida, non è però un parto dell’attuale governo. E’ un inganno che ha le origini proprio negli albori del centro-sinistra.
Quando il primo governo dell’Ulivo vinse le elezioni (1996), Prodi e Veltroni promisero di fare del Meridione una “nuova Florida”. I fatti si sono incaricati di dirci che ne è venuta fuori una sorta di territorio/maquiladoras, ovvero un’area per insediamenti industriali a bassi salari, funzionali alla competizione sul mercato internazionale del lavoro e all’attrazione di investimenti esteri.
Si ha ormai la netta impressione che nella sfida della ipercompetizione sul mercato mondiale, si punti alla costituzione del Meridione italiano come una sorta di “periferia interna” in cui concentrare investimenti esteri e nazionali creando le condizioni idonee per la “competitività” giocata sui bassi salari, la defiscalizzazione e la decontribuzione per le imprese.
Questa intuizione era già stata espressa anni addietro in un seminario tenutosi a Bologna e dedicato al rapporto tra capitalismo italiano e delocalizzazione. Nella relazione si indicava chiaramente il progetto di “convertire il Meridione in un’area a bassi salari non solo per fare pressione sui lavoratori del Nord e del Centro che già oggi hanno un costo del lavoro superiore, ma anche per competere con l’Europa dell’Est o il Maghreb, scambiando un costo del lavoro un po' più alto con i vantaggi derivanti dalla qualificazione della forza lavoro, dalla vicinanza dei mercati ricchi e dalle agevolazioni fiscali”.
Nello stesso periodo in cui Prodi e Veltroni parlavano del Meridione come “nuova Florida”, il prof. Viesti (università di Bari, area Pd, ex collaboratore di Bassolino al Ministero del Lavoro) insieme al dott. Bodo (dirigente della formazione Fiat), scrissero apertamente che occorreva rendere il costo del lavoro e la sua flessibilità nel Meridione “competitivi con gli altri paesi a basso salario per attirare investimenti nell’area”. Si tratta dello stesso prof. Viesti, oggi prima firma di una petizione che denuncia la sottrazione dei fondi regionali al Sud verso le regioni del Nord. Petizione rispettabile ma ci permettiamo di dissentire dall’approccio con cui anche i settori piddini guardano al Meridione.
Due studiosi della Banca d’Italia, L.Federico Signorini e Ignazio Visco (oggi governatore della Banca d’Italia), sostennero questa tesi come soluzione ai problemi storici del Mezzogiorno italiano, invocando la fine della contrattazione nazionale e l’introduzione della “contrattazione locale in considerazione delle circostanze speciali” del Sud. Succo di questa elaborazione nel Meridione ”si dovrebbe essere preparati ad accettare divari salariali inizialmente anche ampi”.
Il laboratorio di questa maquiladorizzazione del Meridione d’Italia per tutto un periodo è stata la Puglia. Del resto, era stato proprio il comprensorio a cavallo tra Puglia e Basilicata ad essere stato scelto dalla Fiat nei primi anni `90 per avviare la sperimentazione della fabbrica a “qualità totale” ossia Melfi, uno stabilimento in cui le differenziazioni salariali con gli operai degli stabilimenti del Nord, sono state superate solo nel 2004.
Nel 1994, la Fiat affidò infatti al Censis una ricerca sul comprensorio di Melfi, un bacino di forze da lavoro per lo stabilimento SATA che comprendeva le province di Avellino, Foggia, Bari e Potenza, per testare l’atteggiamento rispetto alla “innovazione” e al lavoro (ritenendo se stessa portatrice sana di entrambi). I risultati – nonostante registrassero nelle due province pugliesi le resistenze più forti al modello di innovazione fatto proprio dalla Fiat, vennero ritenuti soddisfacenti ma insufficienti se oltre alla Fiat non ci fosse stato “altro”, in modo particolare gli incentivi pubblici, l’imposizione di una cultura “innovativa” sul lavoro alle comunità locali, la creazione di un ambiente idoneo alle attività imprenditoriali. La “chiamata” della Fiat alle autorità statali – come sappiamo – non è rimasta inevasa. Anzi, è diventato sempre più necessario inserire forti dosi di “altro”, perchè l’illusione della fabbrica a qualità totale a Melfi si è esaurita ben presto.
Ed ecco che vecchi e nuovi governi, di centro-sinistra, di centro-destra o “a due colori”, non riescono a pensare al Meridione se non come un serbatoio di forza lavoro a basso prezzo e un territorio da “colonizzare” con infrastrutture devastanti (che altro sono il Tap o le trivellazioni selvagge in Basilicata?). Una condizione “coloniale” per rendere attraenti investimenti vantaggiosi ai soliti prenditori privati, italiani o multinazionali che siano.
Note:
(1) Le maquiladoras sono stabilimenti industriali posseduti o controllati da soggetti stranieri, in cui avvengono trasformazioni o assemblaggi di componenti temporaneamente esportati da paesi maggiormente industrializzati in un regime di regole specifiche, bassi salari, scarsissima agibilità sindacale ed esenzione fiscale. Sono dilagate in Messico e America Centrale in funzione delle industrie multinazionali, statunitensi ma non solo.
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