di Gioacchino Toni
«Le
immagini sono parte integrante del modo di conduzione dei conflitti e
non possono essere semplicemente liquidate come vaghe apparenze o come
simulacri del reale» (Maurizio Guerri)
Nel volume curato da Maurizio Guerri, Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018),
diversi studiosi si confrontano con alcuni importanti interrogativi a
proposito del rapporto tra immagini e conflitti bellici. «Qual è il
nostro sguardo sulle guerre nell’epoca della manipolazione domestica
delle immagini, della produzione e della condivisione “democratica” dei
video via YouTube, della diffusione “virale” delle notizie (o delle
fake-news) sui social network? In che modo la modificazione quantitativa
e qualitativa dei media ha mutato il nostro modo di guardare gli eventi
bellici, rispetto anche solo ad alcuni decenni fa? Che cosa vediamo e
che cosa non siamo più in grado di vedere delle guerre contemporanee?»
(p. 9).
Il libro analizza il rapporto immagine/guerra nella contemporaneità
tenendo ben presente che se quest’epoca da un lato offre inedite
modalità comunicative e di produzione diffusa e decentrata delle
immagini, dall’altro si caratterizza per una concentrazione
monopolistica senza precedenti dei flussi di informazione sia nel web
che nelle modalità più tradizionali.
Il
corposo volume risulta suddiviso in tre parti: nella prima si ragiona
sull’utilità delle immagini dei conflitti mondiali nella comprensione
delle attuali guerre; nella seconda si indagano le modalità con cui le
arti possono oggi testimoniare gli eventi bellici; nell’ultima parte si
analizzano i conflitti contemporanei che si danno grazie alle immagini. Facendo riferimento proprio a quest’ultima sezione del libro intitolata Pensare le guerre con gli occhi (e con le loro protesi),
in questo scritto ci soffermeremo sui contributi di Mauro Carbone e
Ruggero Eugeni che si occupano rispettivamente della paradossale piega
iconoclasta che sembra attraversare una contemporaneità che si vuole
votata al visivo come non mai, il primo, e delle relazioni tra usi
bellici e usi mediali dei dispositivi di visione notturna, il secondo.
Mauro Carbone, nel suo “L’uomo che cade. L’inizio di una controtendenza iconoclastica nella svolta iconica?”, torna, dopo essersene occupato nel libro Essere morti insieme. L’evento dell’11 settembre 2001
(Bollati Boringhieri, 2007), a riflettere su come le immagini
televisive dell’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001, in
particolare quelle relative alle persone lanciatesi nel vuoto per
sfuggire alle fiamme, dopo essersi impresse nella memoria collettiva a
livello planetario grazie ai media, siano immediatamente divenute
oggetto di una vera e propria strategia di rimozione. Ad essere
in gioco, sostiene lo studioso, sono la memoria e l’oblio collettivi di
un evento che ha aperto il nuovo millennio nonché inaugurato quella che
W.J.T. Mitchell (Cloning Terror. La guerra delle immagini dall’11 settembre a oggi, La casa Usher, 2012) ha definito l’attuale “guerra delle immagini”.
Alle immagini è spettato un ruolo fondamentale nella percezione
collettiva della tragedia dell’11 settembre: non fosse stato per esse,
quella delle Twin Towers sarebbe stata una tragedia simile a tante altre e
ciò, sostiene Carbone, dovrebbe «aiutarci a considerare sino in fondo
l’intrinseca portata politica del nostro rapporto estetico-sensibile col mondo, con cui quello con le immagini fa evidentemente tutt’uno» (p. 305). Secondo l’autore il sistema mediatico si è preoccupato di an-estetizzare il trauma dell’11 settembre 2001 attraverso l’incessante ripetizione
dello stesso, ricorrendo alla riproduzione della medesima sequenza
televisiva che mostra un aereo che attraversa lo schermo fino a
schiantarsi contro una delle due torri provocando un’esplosione spettacolare.
Lo studioso riprende a tal proposito ciò che ha scritto Allen Feldman
nel suo “Ground Zero Point One: on the Cinematics of History” (2002):
“Era come se al pubblico fosse stata data una terapia temporale
facendolo testimone, più e più volte, di una sequenza meccanica di
eventi che restaurava la linearità del tempo sospesa con gli attentati”.
Carbone individua in tale an-estetizzante ripetizione ossessiva della medesima sequenza una certa convergenza e complementarietà con la strategia di rimozione
delle immagini degli individui lanciatisi nel vuoto ed è proprio
proprio sul rilievo assunto da tali immagini «nel progetto di
costruzione di una certa memoria collettiva dell’11 settembre» (p. 306)
che riflette in questo scritto.
La strategia di rimozione delle immagini dei cosiddetti jumpers
lanciati nel vuoto prende il via sin dal giorno successivo ai fatti,
quando un’ondata di proteste, in particolare negli Stati Uniti, colpisce
i quotidiani accusati di sciacallaggio per aver pubblicato soprattutto
la fotografia che mostra un uomo, divenuto noto come Falling Man,
in una caduta verticale incredibilmente composta con la testa in giù,
le braccia lungo i fianchi e una gamba piegata in linea con le geometrie
del palazzo. Da allora questa fotografia, ben riuscita dal punto di
vista formale, non è più stata pubblicata negli Stati Uniti nonostante
possieda una carica attrattiva che l’accomuna all’immagine dell’aereo
che impatta con una delle due torri. La straniante perfezione
dell’immagine del Falling Man «riesce tanto a
sospendere il tempo – proprio come abbiamo sentito Feldman dire che gli
attentati hanno fatto – quanto a capovolgere lo spazio. Al punto da
spingere a chiedersi se la foto sia stata bandita malgrado le
sue qualità formali oppure proprio per queste. Dubbio legittimo, che
rivela come la bellezza, anziché mitigare, possa acuire l’atrocità di
un’immagine. Dubbio che comunque non deve far dimenticare una ben più
generale verità: la documentazione visiva sui cosiddetti jumpers, nel suo complesso, ha avuto una sorte analoga a quella della foto di Falling Man, specie negli Stati Uniti» (p. 307).
Secondo Carbone anche se la strategia di rimozione sembrerebbe derivare da una questione di privacy
da rispettare, in realtà già nel corso del primo anniversario della
strage sono state soggette ad aspre critiche, dunque rimosse, alcune
opere d’arte evocanti i tragici eventi pur senza fare alcun riferimento a
individui specifici violandone la privacy. Il risultato è che
negli Stati Uniti si è smesso di mostrare e di parlare di quegli
individui gettatisi nel vuoto. «Ecco allora che la memoria del “giorno
più fotografato e più videoregistrato della storia mondiale” si confessa
abitata da una paradossale volontà iconoclastica, che segnerà
ambiguamente anche molti altri combattimenti della “guerra delle
immagini” esplosa quel giorno» (pp. 308-310).
Volontà iconoclastica che, secondo lo studioso, ritroviamo anche
nell’attentato del 2015 alla sede del giornale satirico francese
«Charlie Hebdo», definito da «Le Monde» “L’11 settembre francese”. Nel
presentarsi come una rappresaglia per la pubblicazione di alcune
caricature di Maometto, il gesto palesa la volontà iconoclastica degli
attentatori. «Né questa volontà risulta di per sé contraddetta
dall’enorme impatto, non solo emotivo ma anche politico, esercitato nel
settembre dello stesso anno dalla fotografia del corpo annegato del
piccolo migrante siriano Aylan Kurdi sulla spiaggia turca di Bodrum: un
impatto che, proprio per la valenza politica assunta, da più parti si
cercò di contrastare bollando quella foto come manipolata. E gli esempi
di tale volontà iconoclastica – rintracciabile, pur con ovvie e
significative differenze, in schieramenti culturali, ideologici e
mediatici dichiaratamente opposti – potrebbero continuare» (p. 310).
Nella parte finale dell’intervento, l’autore prende in considerazione la conclusione del romanzo di Jonathan Safran Foer Molto forte, incredibilmente vicino (Guanda, 2005) in cui un bambino decide di invertire la sequenza delle immagini di un altro falling man
e con essa degli eventi, immaginando il padre che dal suolo, salendo
con l’ascensore, finisce col raggiungerlo nell’appartamento. «In questo
testo e nella sequenza rovesciata d’immagini che l’accompagna sembra
agire appunto una precessione reciproca del tragico reale e
dell’immaginario infantile, i quali non cessano di rinviare l’uno
all’altro pur rimanendo disperatamente divergenti come solo possono
esserlo il trauma e l’inconsolabile desiderio di cancellarlo. Emozione
contrastata. Emozione dalla cui violenza è impossibile difendersi.
Diversamente dal sublime kantiano, lo spettatore non riesce più a
distinguersi dal naufrago. Così, se Kant può immaginare il sublime come
“l’immenso oceano sconvolto dalla tempesta”, un testimone dell’11
settembre non ha potuto fare a meno di modificare implicitamente
quell’immagine scrivendo: “il dolore che avvolge queste colonne è
inimmaginabile e continuiamo a fissarlo come travolti da un mare in
tempesta”. Non c’è possibile “distanza di sicurezza” dal naufragio. E
tanto peggio per noi se speriamo di poterla creare alzando muri. Perché
tale naufragio non si limita a essere “incredibilmente vicino”, come
annunciava il titolo del romanzo di Foer, ma è piuttosto il nostro
stesso naufragio. Per questo si rivela abitato da quella che prima
chiamavo “strategia di rimozione”. Anche per questo una guerra alle
immagini percorre l’attuale guerra delle immagini» (p. 317).
Ruggero Eugeni, nello scritto “Le negoziazioni del visibile. Visioni aumentate tra guerra, media e tecnologia”,
prende in esame alcune tecnologie di assistenza-potenziamento della
visione umana in condizioni di scarsa visibilità, riflettendo
soprattutto sulle relazioni tra usi bellici e usi mediali dei
dispositivi di visione notturna. Dopo aver tratteggiato lo sviluppo di
alcune tecnologie visive – image intensification, active illumination, thermal imaging – dapprima in ambito militare e, successivamente, civile, lo studioso analizza alcuni combat video sottolineando come le modalità con cui sono stati montati e la diffusione in internet tendano a trasformarli da materiale di documentazione in propaganda. In molti di questi video esiste un «legame metonimico fortemente esibito tra appropriazione visiva e appropriazione fisica del territorio»
(p. 326). Non a caso, continua Eugeni, la conquista dei differenti
spazi, nel corso delle operazioni belliche riprese, viene da un lato
esaltata dalla natura “embedded” della videocamera (al contempo
testimone impersonale e parte integrante del movimento di conquista) e
dall’altro resa possibile e visibile dal ricorso a dispositivi di
visione notturna, «atto di vittoria preventiva sulle “tenebre” del male
che circondano i corpi dei soldati e minaccerebbero altrimenti di
inghiottirli» (p. 326). I combat video sono spesso girati in
prima persona secondo modalità stilistiche molto simili a quelle che si
ritrovano nei videogiochi del genere first person shooters di guerra; è evidente come videogiochi e combat video si rimandino a vicenda.
Nei videogiochi di ambientazione bellica più avanzati si ha una
«sovrapposizione metonimica tra superiorità visiva garantita dalle
tecnologie di visione notturna, e superiorità tattica espressa in atti
di conquista e di “bonifica” del territorio mediante un sistematico
sterminio dei nemici impossibilitati ad agire nel buio» (p. 328). Vi
sono però altri due elementi importanti messi in luce dall’autore: «la
struttura del videogioco in prima persona non solo esprime la conquista
visuale, sensomotoria e militare di un territorio, ma permette al
giocatore di viverlo direttamente grazie a una esperienza di simulazione
incorporata. In secondo luogo, nei paratesti che hanno accompagnato il
lancio del gioco la superiorità tecnologica e militare della visione
notturna viene fatta rimare metaforicamente con la superiorità
tecnologica del videogioco stesso (e quindi, ancora metonimicamente, con
la fluidità dell’esperienza di gioco e il relativo piacere), la cui
costruzione assume tutti i connotati di una delle operazioni belliche
che vengono epicamente narrate» (p. 328).
In questi casi di combattimento al buio registrati attraverso sensori
notturni (gli stessi videogiochi simulano tale modalità), lo spettatore
viene calato nella medesima situazione di “vantaggio scopico” di cui si
avvalgono i combattenti “armati di visori”. «La rilevanza di questo
fatto per quanto concerne l’esperienza spettatoriale emerge chiaramente
se analizziamo al contrario casi in cui allo spettatore viene negata,
almeno a tratti, questa condizione» (p. 329). A tal proposito il saggio
porta come esempio la sequenza finale del film Zero Dark Thirty
(2012) di Kathryn Bigelow in cui si mostra l’assalto notturno al
rifugio in cui è nascosto Osama Bin Laden realizzata montando in
alternanza immagini a luce naturale scarsamente visibili e immagini
realizzate con visori notturni. Tale alternanza risponderebbe «a una
precisa strategia espressiva ed emotiva: nel momento di massima
tensione, lo spettatore viene calato in una situazione alternativamente
di sollecitazione e deprivazione visuale e sensomotoria. Per un verso la
presenza intermittente delle immagini girate coi sensori stimolano il
suo coinvolgimento nell’azione secondo un modello di simulazione
incorporata [...] per altro verso l’irrompere e il prorompere
dell’oscurità lo risospingono in una condizione di spaesamento e
deprivazione: essi innescano dunque un disperato bisogno di informazione
percettiva indispensabile per portare a temine i processi di
simulazione incorporata dell’azione precedentemente innescati» (pp.
332-333).
Un effetto visivo analogo lo si ritrova in Flames of War. Fighting Just Begun
(settembre 2014), un video di propaganda realizzato e diffuso
dall’Isis. «Anche qui le immagini, girate da una helmet cam, sono spesso
quasi indistinguibili o completamente buie. Di tanto in tanto tuttavia
alcune riprese con sensori notturni mostrano immagini di soldati siriani
morti, abbattimento di porte, scene di combattimento, ecc. con
assolvenze e dissolvenze al nero a far sì che la piena visibilità della
scena sia costantemente compromessa» (p. 333). Non è difficile, continua
Eugeni, cogliere la volontà da parte dell’Isis di fare il verso alle
sequenze finali del film della Bigelow: «la conquista della base di
Raqqa diviene nella retorica del video l'eroica “risposta” dei
mujahidin di Daesh alla uccisione del leader di Al Quaeda – o per meglio
dire: il racconto visuale dell’una diviene la risposta al racconto
visuale dell’altra» (p 334).
Nella parte finale del saggio vengono ricostruite le analisi relative
alle relazioni tra guerra, media e tecnologie del visibile prodotte da
autori come Paul Virilio, Friedrich Kittler e Jean Baudrillard, mettendo
però in luce come tale dibattito necessiti di essere aggiornato alla
luce dell’uso e degli effetti della visione aumentata dai dispositivi
visivi contemporanei.
Se Paul Virilio tende, sin dalla metà degli anni Ottanta, a porre
l’accento sull’assorbimento di tecnologie mediali da parte
dell’industria militare, indicando in particolare il ricorso nelle
guerre novecentesche a tecniche cinematografiche, lo studioso tedesco
Friedrich Kittler sostituisce alla “logistica della percezione” di cui
parla il francese, una “logistica dell’informazione” e sostiene invece
che sono le esigenze belliche a determinare lo sviluppo e la logica dei
media.
La questione posta da Virilio circa la progressiva
“smaterializzazione” della guerra, la si ritrova per certi versi anche
in Jean Baudrillard che da parte sua «sviluppa una teoria dei media
basata sull’idea di una loro autoreferenzialità e della cancellazione
del loro referente “reale”. Il motto mcluhaniano “il medium è il
messaggio” va reinterpretato secondo Baudrillard: i media hanno prodotto
una implosione del sistema di distinzione tra la realtà e la sua
rappresentazione mediata, e hanno dato luogo a un sistema di simulazione
e di iperrealtà diffuse» (pp. 337-338). Mettendo a confronto i due
studiosi Eugeni nota che se Virilio «prende in esame tecnologie di
svolgimento del combattimento e sottolinea l’importanza crescente del
momento scopico di sorveglianza rispetto a quello pratico del
combattimento, Baudrillard dal suo canto si focalizza sulle strategie di
rappresentazione mediale (soprattutto televisiva) della guerra e
sottolinea la sua derealizzazione» (p. 338). Entrambi insistono comunque
sul processo di smaterializzazione subito dalla guerra nel momento che
questa ha iniziato la sua «interazione con tecnologie visuali sia
panottiche che rappresentative: le tecnologie visuali per i due studiosi
sottraggono il soggetto da un confronto diretto e pratico con il mondo
isolandolo in una dimensione di sguardo distante, simulacrale o
impersonale che sia» (pp. 338-339).
Secondo Eugeni, se a proposito delle modalità di relazione tra i
media e gli apparati bellici, Virilio e Kittler hanno il merito di aver
posto in evidenza una presenza “extramediale” dei media stessi, «il limite del
dibattito su media e guerra risiede [nel fatto] di opporre semplicemente
tecnologie del visibile mediali e belliche per studiare le forme di
scambio e di influenza delle une sulle altre e/o viceversa» mentre,
continua lo studioso, in una condizione postmediale pienamente intesa
occorrerebbe «radicalizzare questo modello e pensare piuttosto i
differenti dispositivi di visual data setting come capaci di lavorare contemporaneamente all’interno di differenti e numerose cornici e pratiche sociali:
non solo l’ambito dei media in senso stretto e non solo la ricerca e le
applicazioni belliche, dunque, ma anche la sorveglianza, l’astronomia, i
trasporti, la produzione industriale, la meteorologia e così via» (p.
340).
Per quanto riguarda invece la questione della smaterializzazione e
della virtualizzazione della guerra derivate dall’utilizzo di tecnologie
visuali, nonostante il merito di aver sottolineato il ruolo dei media
«in una condizione postmediale all’interno dei fenomeni geopolitici
contemporanei», le analisi di Virilio e Baudrillard, sostiene Eugeni,
non possono essere condivise in quanto «il caso dei sistemi di visione
notturna e aumentata dimostrano chiaramente che le tecnologie visuali si
pongono al servizio di una relazione situata e incarnata del
soggetto con il mondo: esse sono finalizzate ad accrescere la sua
“consapevolezza situazionale” al fine di una gestione ottimale del suo
agire. Non si assiste dunque ad una assolutizzazione autoreferenziale del
visibile, quanto piuttosto a una negoziazione dei suoi limiti rispetto all’invisibile» (p. 341).
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