Sulla chiusura della vertenza Ilva ed il definitivo subentro di Arcelormittal alla gestione commissariale si sono scaricate, come era ovvio attendersi, tutte le aspettative infrante della città di Taranto. Il larghissimo consenso dei lavoratori all’intesa non può e non deve trarre in inganno. La città è giustamente stanca dei veleni dell’acciaieria e degli altri ecomostri del territorio ed ha visto palesarsi nell’accordo sindacale la realtà di una convivenza ancora lunga. È noto a tutti che non è responsabilità dell’accordo se si continuerà a produrre acciaio a Taranto per la semplice ragione che la vendita alla multinazionale è stata una scelta tutta politica del governo precedente e confermata da quello attuale. Arcelormittal sarebbe subentrata comunque, anche senza accordo sindacale. USB, in totale isolamento, ha posto la questione della nazionalizzazione sin dall’inizio della amministrazione straordinaria. Un passaggio obbligato per qualsivoglia ipotesi di riconversione, chiusura o reale ambientalizzazione. Il movimento ambientalista ha infatti sempre osteggiato questa possibilità perché vissuta come negazione della chiusura del sito. Ed ha delegato, purtroppo, alla politica ed in particolare ai 5S, questa aspirazione.
Il passaggio del gruppo Ilva ad una multinazionale sancisce pertanto una sconfitta, sebbene temporanea, rispetto alla battaglia di USB per un nuovo intervento pubblico in un settore strategico dell’economia nazionale. Un altro pezzo del patrimonio industriale viene ceduto ad un’impresa straniera, ad una multinazionale che governa le sue produzioni e i suoi investimenti in una logica globale che poco si sposa con la centralità della questione ambientale e sociale di Taranto. Abbiamo perso una battaglia ma certo la partita è più aperta che mai. Il tema delle nazionalizzazioni non è più un tabù, una rivendicazione che induce al sorriso, sebbene il processo di privatizzazione prosegua sul terreno sociale indisturbato ed anzi alimentato dal cosiddetto welfare contrattuale praticato da Cgil Cisl Uil (sanità, pensioni, ammortizzatori sociali, formazione). Dopo più di 20 anni di ubriacatura neoliberista gli effetti concreti della ritirata dello Stato in economia hanno riaperto il dibattito nella politica e tra le classi dominanti. “Privato è bello” è ormai uno slogan desueto e soprattutto non ha più consenso popolare. La manifestazione nazionale del prossimo 20 ottobre mette esattamente al centro della giornata il tema delle nazionalizzazioni con la consapevolezza che proprio la supremazia del privato ha reso possibile la progressiva liquidazione del sistema di protezione del lavoro e lo stesso modello sociale del nostro paese.
Ilva ci parla tuttavia anche di una battaglia vinta. Occorre andare molto indietro nel tempo per ritrovare un accordo sindacale sulla cessione di un gruppo in stato fallimentare nel quale ai lavoratori non è tolto un centesimo, un diritto acquisito, non si crea alcun doppio regime salariale e non vi è alcun licenziamento se non volontario. Sarebbe sufficiente confrontare la sequela di accordi sindacali Alitalia o quello della cessione della ex Lucchini di Piombino ad un imprenditore algerino per comprendere appieno il valore di questa intesa. USB non ha sottoscritto l’accordo Cgil Cisl Uil ma è stata protagonista indiscussa dell’accordo e di una trattativa durata oltre un anno nel corso del quale con determinazione ha sistematicamente detto no ad ogni ipotesi di mediazione al ribasso o scambi su salario occupazione, pratica contrattuale tristemente diffusa. In una fase come questa segnata da un processo di spoliazione di diritti e salario fondato sul modello derogatorio del Teso Unico del 10 gennaio 2014 che sembra non trovare, e non ha, un punto di fine, l’accordo Ilva è un indiscutibile fatto positivo. I tanti detrattori dell’accordo, spesso poco informati e poco istruiti o semplicemente strumentali, anziché valutarne la portata nella storia delle relazioni sindacali e sullo stesso sistema contrattuale, preferiscono minimizzarne il valore o addirittura archiviarlo tra gli accordi truffa. Ilva, sul terreno strettamente sindacale, ha rappresentato una vertenza esemplare che andrebbe presa a riferimento per due ragioni di fondo.
La prima è che la vertenza non è stata sostenuta e alimentata da una lotta adeguata dei lavoratori dei diversi stabilimenti. Gli scioperi (pochi purtroppo), che pure ci sono stati, sono stati un fatto episodico, più che il segno di un conflitto reale a sostegno della vertenza. Ciò significa che la determinazione e la soggettività della delegazione sindacale sono stati elementi decisivi per la conquista dell’accordo.
La firma di una accordo senza cedimenti testimonia che spesso è sufficiente dire No e rifiutare il ricatto che sempre viene posto davanti a miliardi di euro di investimenti di un’impresa. Siamo sempre stati consapevoli che il nostro no ad un accordo al ribasso poteva risolversi in un tragico epilogo dal punto di vista industriale, sociale ed economico. Abbiamo scommesso sul valore strategico di Ilva per Arcelor Mittal e sull’impossibilità per qualsivoglia governo di spegnere la più grande acciaieria d’Europa senza un piano straordinario di bonifiche e riconversione sostenuto da enormi risorse economiche pubbliche. Ed abbiamo vinto la scommessa.
In secondo luogo occorre considerare che in questo lungo anno di trattative abbiamo dovuto lottare con l’intransigenza di Arcelor Mittal ma soprattutto con un contratto di vendita firmato dall’ex ministro Calenda e dalla multinazionale dell’acciaio che definiva dettagliatamente le condizioni economiche, ambientali, contrattuali ed occupazionali della cessione. L’accordo riscrive quel contratto sul terreno ambientale, contrattuale e occupazionale. Chiunque può cercare sul sito del ministero dello sviluppo economico la famosa proposta ultimativa di Calenda ed apprezzarne le differenze con l’intesa raggiunta. Un risultato per nulla scontato quindi.
Due battaglie, una persa ed una vinta quindi, ma la battaglia più grande deve ancora giocarsi. Non siamo chiamati solo a vigilare tenacemente sull’effettivo rispetto degli accordi sul terreno ambientale e contrattuale. Siamo chiamati al difficile tentativo di costruire un asse con il movimento ambientalista Tarantino nell’obbiettivo di verificare tempi, bontà ed effettiva riuscita dell’ambientalizzazione dello stabilimento. O si coniuga acciaieria e salute oppure insieme lavoreremo alla chiusura di ogni fonte inquinante che uccide la città e i suoi abitanti.
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