di Carlo Clericetti
Dei suoi effetti sull’economia si è già molto discusso, e se ne può fare un breve ricapitolo. Poco si è parlato, invece – almeno fuori dalle accademie – di un’altra conseguenza, di importanza anche maggiore, perché da essa dovrebbe derivare un rovesciamento delle politiche economiche europee. Che non sta avvenendo e non avverrà, cosa per cui ci sono motivi che si possono individuare.
Lo scopo dichiarato del QE
era quello di ripristinare una corretta trasmissione della politica
monetaria, evitare i pericoli di deflazione stimolando l’economia e
riportare l’inflazione “sotto, ma vicina, al 2%”: quest’ultimo era forse
quello considerato più importante, vista la missione affidata alla Bce
dal suo statuto. Oggi, dopo tre anni e mezzo (il QE è iniziato nel marzo
2015), l’inflazione è intorno a quel livello in vari paesi
dell’eurozona e nella media era proprio al 2% secondo gli ultimi dati
(luglio), anche se quella cosiddetta “core”, cioè depurata dalle
componenti più volatili (energia, cibi freschi, alcool e tabacchi)
segnava solo + 0,9%.
Difficile collegare il QE con i prezzi al consumo. Quello che
certamente ha ottenuto è stato di ridurre i rendimenti dei titoli di
Stato, con beneficio dei bilanci pubblici, che hanno speso meno per
pagare gli interessi sul debito. E di quelli delle banche, che da una
parte hanno alleggerito il carico di titoli pubblici in portafoglio, e
dall’altra hanno registrato l’aumento di prezzo di quelli che vi
rimanevano. E però i tassi azzerati hanno ridotto all’insignificanza i
profitti derivanti dalla gestione del denaro. E’ andata benissimo,
invece, a chi doveva comprar casa, perché anche i tassi dei mutui sono
scesi a livelli mai visti: nonostante questo, non si sono ripetute le
“bolle” immobiliari che c’erano in vari paesi prima della crisi. In
Italia, anzi, il settore dell’edilizia è stato quello che ha sofferto di
più e ancora non si è del tutto ripreso.
La bolla, invece, si è prodotta sui prezzi delle azioni, con le
Borse ai massimi storici. Il ribasso dei tassi sui titoli pubblici si è
riflesso anche su quelli delle obbligazioni societarie. La grande
liquidità in circolazione è andata in cerca di rendimenti migliori di
quelli del reddito fisso; per di più le grandi conglomerate (soprattutto
quelle americane) hanno usato il risparmio ottenuto sui prestiti per i
famosi “buy back”, gli acquisti di azioni proprie, cosa che fa
migliorare gli indicatori finanziari, ma, dettaglio forse non
secondario, facendo salire le quotazioni manda alle stelle i bonus dei
manager, di norma collegati alla performance borsistica. La riforma
fiscale di Trump darà un’altra spinta a questo processo, perché
probabilmente anche una buona parte dei maggiori profitti derivanti dai
risparmi fiscali finirà in buy back.
Un altro effetto positivo è stato l’indebolimento dell’euro, che ha
favorito le esportazioni, anche se ci si poteva aspettare un movimento
ancora più deciso, dal momento che i tassi Usa hanno ripreso a salire
mentre Draghi dichiarava che i nostri sarebbero stati fermi ancora a
lungo.
Ma veniamo ora alla conseguenza più importante del QE: che è stata
quella di demolire alcuni pilastri fondamentale delle teorie economiche
dominanti, quelle utilizzate da chi detta le politiche economiche. Il
primo pilastro raso al suolo è il legame tra quantità di moneta e
inflazione. Quando la Federal Reserve Usa iniziò il suo QE (ben prima
della Bce) non pochi economisti lanciarono l’allarme-inflazione: entro
tre-sei mesi l’aumento dei prezzi si sarebbe scatenato. Ora, dopo un
decennio che tutte le banche centrali più importanti (americana,
europea, giapponese, inglese) inondano il mondo di liquidità, di
impennate dei prezzi non si è vista l’ombra, e anzi abbiamo rischiato la
deflazione.
Il secondo pilastro è quello secondo cui la politica fiscale,
quella che si fa manovrando il bilancio pubblico, sarebbe inutile e
dannosa, non servirebbe a superare le crisi e provocherebbe distorsioni
dannose per l’economia. Questa veramente è un’ossessione essenzialmente
europea, perché Usa, Giappone e Regno Unito, per citare i paesi più
importanti, politiche fiscali espansive ne hanno fatte e come. Noi no:
il “verbo” tedesco, imposto a tutta l’unione, afferma che l’equilibrio
di bilancio viene prima di tutto. E poi se aumenta il deficit,
suggerisce questa brillante teoria, famiglie e imprese si aspetteranno
un prossimo aumento delle tasse per finanziarlo, dunque le famiglie
risparmieranno per pagare questa tasse future, non alimentando i
consumi, e le imprese non investiranno.
E allora come si fa ripartire l’economia? Da una parte con le
mitiche “riforme strutturali”, il che significa soprattutto ridurre le
protezioni sul lavoro, precarizzare – pardon, “flessibilizzare” –
abbassare il più possibile i salari. Dall’altra stimolando il sistema
economico. Il QE, acquistando titoli dalle banche, ha fatto aumentare le
loro riserve liquide, e in più si è arrivati a stabilire su queste
riserve un tasso negativo, cioè le banche pagano se le tengono ferme (a
parte la riserva obbligatoria). Questo avrebbe dovuto spingerle a
prestare e le imprese avrebbero dovuto usare quei soldi per investire,
facendo ripartire il ciclo. Teoricamente perfetto: peccato che non sia
successo.
Come mai? Magari perché le imprese investono se pensano che
riusciranno a vendere quello che producono. Ma le famiglie, con salari
fermi o in calo e alta disoccupazione, il tutto condito con tagli al
welfare, hanno poco da spendere. E nessun aiuto viene dal bilancio
pubblico, con gli investimenti che in Italia sono calati a un terzo del
periodo pre-crisi. Investire e produrre per riempire i magazzini? No,
grazie.
Non solo. Anche la regolamentazione bancaria internazionale ci ha
messo del suo, considerando rischiosi i prestiti all’economia assai più
degli impieghi finanziari. Così, le banche che vogliono farli devono
raccogliere più capitale di quelle che i soldi li giocano alla roulette.
E bravi regolatori!
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