di Michele Giorgio – il Manifesto
Sono tiepide le
reazioni delle petromonarchie alle esternazioni di Donald Trump alle
Nazioni unite. La stampa ufficiale tace ma l’attacco a sorpresa lanciato dal presidente americano all’Opec e agli alleati nel Golfo, che non farebbero abbastanza per favorire il calo del prezzo del petrolio, ha generato stupore e qualche disappunto.
La soddisfazione per la conferma del cosiddetto «metodo Trump» – il
pugno di ferro – nei rapporti tra Usa e Iran è stata mitigata da
critiche che monarchi e principi arabi non si attendevano. Il presidente
americano è stato chiaro.
Con il barile di greggio che ha toccato gli 82 dollari, si sta
rivelando contraria agli interessi americani la decisione saudita di non
aumentare la produzione, un passo necessario, secondo gli Usa, per
coprire la quota che l’Iran non potrà esportare a causa delle ulteriori
sanzioni americane che scatteranno a novembre.
«Difendiamo molte di queste nazioni per nulla. E poi si approfittano
di noi dandoci prezzi alti del petrolio. Vogliamo che smettano di
aumentare i prezzi e che inizino a ridurre i prezzi. E d’ora in poi
dovranno contribuire sostanzialmente alla loro protezione militare».
«Trump non è uno che la manda a dire – dice al manifesto l’analista
arabo Mouin Rabbani – Se i paesi del Consiglio di cooperazione del
Golfo vogliono la protezione americana dall’Iran e altri avversari
allora devono sapere che questo costo è destinato ad aumentare».
«Il punto – aggiunge Rabbani – è che le casse saudite e di
altri paesi del Golfo non sono piene come un tempo visti i costi per
decine di miliardi di dollari nell’acquisto di armi. La guerra
in Yemen si è rivelata particolarmente dispendiosa per Riyadh. Perciò
l’aumento del prezzo del greggio serve a compensare le tante uscite.
Solo che ciò si scontra con quanto desidera Trump che non vuole arrivare
alle elezioni di fine autunno con l’economia americana penalizzata dal
costo delle materie prime».
Non è solo. Il Congresso Usa sta valutando l’approvazione di una
legge volta a favorire azioni legali contro i membri dell’Opec per
«manipolazione dei prezzi di mercato». Una minaccia molto seria: Riyadh
ha ingaggiato un noto avvocato repubblicano ed ex procuratore generale,
Ted Olson, per cercare di fermare il disegno di legge bipartisan.
Monarchi e principi arabi sperano che Trump interrompa la sua offensiva sui prezzi del petrolio
e, rispetto al Golfo, torni a concentrarsi esclusivamente sulle
pressioni contro Tehran, dando seguito in maniera ancora più compiuta
all’uscita degli Usa dall’accordo internazionale sul nucleare iraniano.
Non solo, si aspettano che l’amministrazione Usa raffreddi i rapporti con il Qatar,
da oltre un anno al centro di una campagna di sanzioni da parte della
cosiddetta Nato araba (Arabia Saudita, Emirati, Bahrain ed Egitto)
perché sponsor del movimento dei Fratelli musulmani, nemico di Riyadh, e
non abbastanza duro con l’Iran.
Anwar Gargash, astro nascente della politica estera del Consiglio di cooperazione del Golfo, in un’intervista di inizio settimana al National, è stato netto nell’indicare che il prossimo passo da muovere è lo stop al programma missilistico dell’Iran. A farlo, ha lasciato intendere, dovranno essere gli Stati Uniti.
«La questione ha assunto un’ulteriore urgenza a causa dei (ribelli
sciiti) Houthi che usano missili iraniani per colpire l’Arabia Saudita»,
ha detto Gargash aggiungendo che in qualsiasi accordo futuro con l’Iran
sul nucleare e altre questioni centrali i paesi arabi (del Golfo)
dovranno essere chiamati a dare l’approvazione.
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