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30/09/2018

Alternanza scuola-lavoro e cultura d’impresa

Il problema non è che gli studenti del Classico vadano a fare i gommisti e quelli del Tecnico si ritrovino a fare fotocopie. L’alternanza scuola-lavoro, resa obbligatoria per tutti gli istituti Superiori dalla legge 107, meglio nota come Buona Scuola, è il dispositivo centrale di un’operazione propagandistica: la disoccupazione giovanile nascerebbe da un disallineamento tra le competenze dei diplomati e le richieste del mondo del lavoro. Spariti d’incanto decenni di ristrutturazione selvaggia dei processi produttivi e dell’organizzazione del lavoro su scala internazionale, la responsabilità delle difficoltà occupazionali delle giovani generazioni viene attribuita ad una presunta inadeguatezza della scuola. Agli studenti e alle loro famiglie si fornisce da un lato l’illusione che qualche settimana in azienda faciliterà, poi, l’inserimento lavorativo, dall’altro la percezione che le materie oggetto di studio sono lontane dalla realtà e non sono realmente importanti per la vita. Intanto, la scuola pubblica, divenuta fornitrice di mano d’opera a costo zero, è sottoposta ad una vera invasione di campo da ditte, terzo settore, banche, assicurazioni, studi professionistici, che propongono agli studenti “pacchetti formativi”, talora persino a pagamento. Sfatiamo un luogo comune: non esiste una buona alternanza, perché non è emendabile un dispositivo strategico di adattamento sociale e di stravolgimento delle finalità educative. E’ necessario chiedere alle forze politiche una moratoria nell’applicazione dell’alternanza, dispositivo che compromette gravemente la dignità e lo spessore culturale del percorso educativo, la libertà di insegnamento, la necessaria indipendenza della scuola dalle pressioni del mercato.

Nell’ambito del processo di aziendalizzazione che, da almeno due decenni, investe il sistema della pubblica istruzione l’alternanza scuola-lavoro, resa obbligatoria per tutti gli istituti Superiori dalla legge 107, meglio nota come buona scuola, rappresenta uno snodo cruciale, sia per le sue implicazioni -pratiche e teoriche- sia per il suo carattere strategico.

L’alternanza è esemplare di come la quantità possa trasformarsi in qualità, fino a caratterizzare una nuova impostazione scolastica. La riforma renziana, infatti, non ha inventato gli stages in azienda, già da tempo praticati in totale autonomia da molti istituti tecnici e professionali, ma ne ha sancito l’obbligatorietà, li ha estesi ad ogni tipo di scuola di secondo grado ed ha aumentato massicciamente il numero di ore (200 per il triennio dei Licei, 400 per quello dei Tecnici).

Già il nome attribuito al progetto è significativo: istituendo una relazione dicotomica tra i due ambiti, si nega che lo studio sia un lavoro che, come tale, necessita di un tirocinio psico-fisico, oltre che intellettuale e si esprime una concezione piuttosto primitiva, per la quale il lavoro è solo quello manuale o, comunque, quello espletato in azienda. Dietro tanta approssimazione e semplificazione si cela, in realtà, una profonda svalorizzazione dei contenuti culturali ed etici che dovrebbero trovare nella scuola il loro terreno privilegiato.

L’alternanza è paradigmatica di una scuola progettata per il mercato: da un lato tende a spostare il baricentro della formazione dalla scuola - ritenuta obsoleta, perché nel nostro Paese è ancora legata alla trasmissione e rielaborazione di un patrimonio culturale - all’impresa, dall’altro svolge un ruolo di adattamento sociale non trascurabile, considerate le dinamiche lavorative del nuovo millennio.

Il suo presupposto si basa su una colossale mistificazione che una martellante campagna mediatica ha cercato di trasformare in evidenza: la disoccupazione giovanile nascerebbe da un disallineamento tra le competenze dei diplomati e le richieste del mondo del lavoro. Spariti d’incanto decenni di ristrutturazione selvaggia dei processi produttivi e dell’organizzazione del lavoro su scala internazionale, taciuta vergognosamente la complicità di una classe politica attenta solo a recepire le richieste dei mercati ed incapace di progettare politiche economiche di ampio respiro, la responsabilità delle difficoltà occupazionali delle giovani generazioni viene attribuita ad una presunta inadeguatezza della scuola, chiamata, quindi, a colmare questo ritardo attraverso la didattica delle competenze e la collaborazione con le imprese. Dovendo dare, naturalmente, a questo assioma una parvenza di scientifica oggettività, il testo della “buona scuola“ porta a sostegno i dati emersi da un’inchiesta McKynsey 2014, secondo cui il 40% della disoccupazione giovanile avrebbe carattere non congiunturale, ma strutturale e nascerebbe dallo scarto”  tra la domanda di competenze che il mondo esterno chiede alla scuola di sviluppare e ciò che la nostra scuola effettivamente offre”. (http://labuonascuola.gov.it/documenti,p.106) Tutta la costruzione regge, insomma, su una sola fonte e sul metodo della decontestualizzazione dei dati rilevati, assunti come significativi in sé ed inappellabili e non ricondotti ad uno scenario economico ed occupazionale di ben diversa complessità e rispondente ad una ben precisa ratio.

Riduzionismo informativo e demagogia si mescolano per mettere a segno due obiettivi: assolvere le classi dirigenti dalle gravissime responsabilità nel campo delle politiche del lavoro e sociali e, contemporaneamente, attaccare la scuola pubblica e portarne avanti la progressiva destrutturazione.

L’alternanza diventa il dispositivo centrale di un’operazione demagogica e propagandistica indirizzata agli studenti e alle loro famiglie, ai quali si fornisce da un lato l’illusione che qualche settimana in azienda faciliterà, poi, l’inserimento lavorativo, dall’altro la percezione che le materie oggetto di studio sono lontane dalla realtà e non sono realmente importanti per la vita. Non solo: si dà corpo ad una concezione della scuola come luogo di formazione della futura manodopera che contrasta radicalmente con il portato di una lunga ed elaborata tradizione pedagogica per la quale la scuola è, innanzitutto, luogo di formazione della personalità umana, della coscienza civile, dell’educazione della ragione e dei sentimenti, attraverso la trasmissione (che è anche rielaborazione) delle conoscenze.

Operazione demagogica, perché gli ideatori della buona scuola sono i primi a sbandierare con compiacimento la rapidità dei mutamenti dell’assetto produttivo e lavorativo della cosiddetta “società della conoscenza” e, quindi, sono perfettamente consapevoli dell’inutilità pratica dell’alternanza ai fini dello sviluppo di competenze immediatamente spendibili sul mercato del lavoro e che, nel giro di poco tempo, rischiano di divenire obsolete. La finalità perseguita è un’altra: l’elaborazione di uno strumento efficace per aprire la scuola pubblica ad una vera invasione di campo da parte di enti esterni: ditte, terzo settore, banche, assicurazioni, studi professionistici, compagnie navali che propongono agli studenti “pacchetti formativi”, talora persino a pagamento. La scuola è stata trasformata in un mercato appetibile che fornisce mano d’opera a costo zero e consente l’attivazione di convenzioni di tipo privatistico.

L’alternanza diventa, pertanto, il fulcro del processo di aziendalizzazione che sta snaturando in profondità la scuola, così come ogni ambito della vita pubblica, a partire dalla politica. Ben lontano dall’essere un parto naturale dei riformatori nostrani, trova il suo humus nelle “raccomandazioni” espresse in sede europea sul finire del secolo precedente. In particolare, il Libro bianco del 1995 del Commissario europeo con delega alla formazione e cultura Edith Cresson invita a stabilire nuovi ponti tra scuola e impresa, cui si conferiscono le credenziali di luogo formativo con correlate agevolazioni fiscali. Non solo: questo documento prospetta la possibilità di sostituire in futuro il titolo di studio, troppo rigido, con “una tessera personale delle competenze” sulla quale verrebbero registrate di volta in volta le acquisizioni del titolare, in modo da consentire al datore di lavoro una rapida valutazione delle qualifiche dell’aspirante lavoratore in ogni momento della sua vita. (www.mydf.it/DOC_IRASE/librobianco_Cresson.pdf, pp.10,11).

La certificazione delle competenze sarebbe demandata in buona parte alle imprese; in questo contesto la scuola sembra avviarsi a divenire un’agenzia formativa tra le altre, conformemente al nuovo scenario dell’apprendimento permanente funzionale alla mobilità dei lavoratori in base alle esigenze dell’economia. Non è possibile, salvo fraintenderne funzione e fini, estrapolare l’alternanza dal quadro più vasto delle politiche del lavoro programmate dai centri economico-politici decisionali sul breve-medio termine: il suo perfetto equivalente in ambito lavorativo è il jobs act, al quale essa prepara disinvoltamente i giovani, sin dall’età scolare. Non solo: fornisce alibi a mobilità, flessibilità, sottoccupazione, facilità di licenziamento, mettendo a disposizione delle imprese lavoratori non pagati da usarsi in sostituzione di quelli ancora abituati a percepire un salario, per quanto irrisorio. Ciò, naturalmente, è reso possibile da un quadro occupazionale caratterizzato ormai da contratti a tempo determinato o “atipici”.

Che, poi, la scuola sia chiamata ad attuare queste stesse politiche, così estranee al suo ambito d’intervento e alle sue finalità, prelude ad un capovolgimento radicale della sua struttura e del suo ruolo, di cui stiamo vedendo solo le prime avvisaglie. L’alternanza, insomma, funziona da efficace cavallo di Troia di una destrutturazione del sistema dell’istruzione, già delineata nelle sue linee essenziali attorno agli anni ’90 del Novecento, a cominciare dalla presenza di esperti esterni che garantiscono flessibilità quanto a reclutamento e fedeltà ideologica ai valori dell’impresa e del mercato, rispetto ai quali si sottolinea il persistere di una certa tiepidezza da parte dei docenti italiani. (La rimostranza viene espressa nei quaderni dell’Associazione TreeLLLe, think tank di ambito confindustriale che si propone di studiare le proposte per migliorare la qualità dell education e alla quale si sono largamente ispirati gli autori della buona scuola; cfr., in particolare, http//wwwtreellle.org/files/III/quaderno-8,p.21.)

L’alternanza come primo passo verso una progressiva esternalizzazione della docenza, con significativo cambiamento del profilo giuridico (libero da vincoli contrattuali ritenuti troppo rigidi) e professionale (da insegnanti alle prese con un sapere disciplinare a formatori chiamati ad addestrare a specifiche competenze richieste dal mondo esterno) va di pari passo con la sua funzione di dispositivo ideologico rivolto ai ragazzi per indirizzarli alla “cultura d’impresa” e all’autoimprenditorialità.

Se, infatti, con Harry Braverman, riteniamo che nella scuola non ha capitale importanza solo ciò che si impara, ma anche ciò a cui ci si abitua (cfr. Lavoro e capitale monopolistico. La degradazione del lavoro nel xx secolo,Einaudi, Torino,1978,p.287), non è di poco conto considerare che l’alternanza scuola-lavoro abitua gli studenti a lavorare gratuitamente dietro il presunto apprendimento di qualche abilità utile dopo il diploma. Se a ciò si aggiunge l’insistenza sulla necessità di una formazione permanente per rimanere sempre aggiornati rispetto alle esigenze del mercato del lavoro, si profila uno scenario futuro molto allettante per i profitti delle imprese, estremamente preoccupante per quanto riguarda la dignità del lavoro, già ampiamente devastata dalla deregolamentazione introdotta dalle “riforme” neoliberiste. L’alternanza proietta direttamente l’adolescente nella condizione lavorativa già predisposta per la gran maggioranza dei diplomati di lavoratore flessibile, sottopagato, docile, disposto ad accettare come normali demansionamenti, mobilità e precariato, incline a sentirsi personalmente responsabile in caso di disoccupazione o sottoccupazione, poiché privo di adeguate competenze o di soddisfacenti capacità imprenditoriali.

E’ doveroso sfatare un luogo comune che, criticando l’applicazione concreta dell’alternanza quale si è registrata in questi tre anni, non ne mette per nulla in discussione la sostanza che, peraltro, gli sfugge. Non esiste una buona alternanza, perché non è emendabile un dispositivo strategico di adattamento sociale e di stravolgimento delle finalità educative, rimosse a vantaggio di un economicismo che svilisce la scuola a luogo di formazione e addirittura di diretto collocamento di forza lavoro in possesso di qualche abilità settoriale di tipo tecnico. Il problema di fondo non consiste nello scarto tra la mancata corrispondenza fra le attività svolte dagli studenti durante lo stage in azienda e il loro piano di studio. Che gli studenti del Classico vadano a fare i gommisti e quelli del Tecnico si ritrovino a fare fotocopie in qualche ufficio, rappresenta solo un lato marginale e folkloristico del problema. E il problema è l’ingresso massiccio dell’impresa e della logica del mercato nella scuola, sia come concreta invadenza in termini di tempi, di spazi e di contenuti, sia come modello organizzativo, nonché culturale. Avrebbe dovuto sollevare l’indignazione del mondo intellettuale la perdita di un numero consistente di ore di lezione, di tempo sottratto alla trasmissione e rielaborazione delle conoscenze, alla riflessione critica, all’approfondimento disciplinare, tempo prezioso per la crescita umana e culturale che, per la maggior parte dei ragazzi, qualunque sia l’indirizzo frequentato, solo la scuola può offrire. L’alternanza comporta, inevitabilmente, un impoverimento dei contenuti, una compressione dei programmi e, in questo senso, è perfettamente organica alla “didattica delle competenze”. Che tale levata di scudi non ci sia stata, salvo qualche lodevole eccezione, rappresenta un’ulteriore riprova di un declino culturale complessivo, di un’attenzione alle sirene mercantilistiche che autorizza previsioni poco rosee relativamente alla tenuta di un pensiero critico e della stessa democrazia.

L’alternanza, in quanto meccanismo predisposto per un connubio contro natura scuola-impresa che sottrae specificità culturale ed educativa alla prima, nonché spazi istituzionali, costringendola sul terreno socialmente vincente della seconda, ipoteca gravemente il futuro della pubblica istruzione. Essa non ha nulla a che vedere con il riconoscimento della dimensione del lavoro e dell’esperienza pratica nella vita dei ragazzi, come viene suggerito da chi cerca di correggerne le storture più evidenti, con il fine di legittimarne la presenza, seppur in forme riviste. Le scuole, già da tempo, possono organizzare progetti estivi con gli enti locali per l’inserimento lavorativo, peraltro pagato, dei ragazzi che desiderino dedicare una parte delle loro vacanze allo svolgimento di un’attività professionale. L’ alternanza non promuove il lavoro che, anzi, svilisce in una nuova forma di apprendistato non riconosciuto socialmente ed economicamente, ma l’ideologia aziendalistica, non a caso, si avvale dell’educazione “all’autoimprenditorialità” consigliata già dalla scuola materna, mentre, nella concretezza della prassi scolastica, disputa il terreno ai saperi disciplinari, avvertiti come estranei alla ragione calcolante e strumentale.

E’ necessario chiedere alle forze politiche una moratoria nell’applicazione dell’alternanza, sulla scia di un appello, forte di migliaia di adesioni, lanciato nel dicembre 2017 da alcuni docenti. (cfr. Appello per la scuola pubblica. Un documento sulla scuola e sull’Istruzione: da leggere,pensare e sottoscrivere) L’obbligatorietà, il consistente monte-ore, la presenza di consulenti esterni, il suo essere requisito vincolante per l’ammissione alla Maturità compromettono gravemente la dignità e lo spessore culturale del percorso educativo, la libertà di insegnamento, la necessaria indipendenza della scuola dalle pressioni del mercato.

Fernanda Mazzoli

Fonte

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