“Sulla mia pelle” non è un film ideologico nel quale è mostrata e messa in grande evidenza (come in precedenti film tipo Diaz e altri) la violenza e la ferocia delle forze dell’ordine – carabinieri o poliziotti che siano – nelle loro azioni repressive e di mantenimento “dell’ordine”.
Piuttosto questo film narra e mostra una persona, un soggetto, apparentemente del tutto innocuo e piuttosto ingenuo, con l’unico difetto – se così si può chiamare – di essere nato e cresciuto in una periferia romana, e di esprimersi con la tipica “calata” romanesca dalla quale traspare tutta la diffidenza, la strafottenza e un parlare strascicato. Il soggetto umano in questione – avendo vissuto esperienze di natura repressiva e punitiva da parte delle “guardie” (così definite nel lessico comune nelle periferie) – non ha nessuna fiducia o “empatia” per queste forze dell’ordine o di rappresentanti istituzionali siano essi dottori, infermieri o funzionari di qualsiasi natura e tipo.
Più che un film sembra un docu-film, cioè una specie di documentario girato dal “vivo”, grazie soprattutto all’interpretazione del protagonista, al suo particolare accento, struttura somatica e comportamentale.
Struttura e comportamento tipico di una persona che nascendo in una periferia metropolitana ne subisce – inconsapevolmente (?) – tutte le contraddizioni che lo porteranno poi a mettere in atto comportamenti e scelte al limite della legalità, con scelte e azioni considerate illegali e dunque oggetto di sorveglianza e punizione da parte delle forze dell’ordine.
Tant’è che Stefano Cucchi (sulla sua storia c’è poco da commentare essendo stato scritto e mostrato fin troppo), incappa del tutto casualmente in un “controllo dei carabinieri” dal quale scaturiranno poi tutte le sue tragedie e il suo percorso da considerare come un tragico “calvario” (quel pellegrinaggio di ben tre caserme dei carabinieri: una per l’identificazione, una per le botte, una per il successivo trasferimento al tribunale).
Una cosa mi ha sorpreso e ha reso la visione del film come un’opera interessante sulla quale è d’obbligo una riflessione concreta sia sociale sia politica.
La scelta dei personaggi (a parte il ruolo di Stefano Cucchi la cui interpretazione ha qualcosa di magistrale e sorprendente soprattutto per la vero somiglianza che emerge nell’interpretazione di Alessandro Borghi), non è stata fatta, forse casualmente o inconsapevolmente, selezionando per la struttura fisica (le forze dell’ordine sono spesso mostrate come soggetti “palestrati" feroci e dall’aspetto sadico e cattivo), in questo film, infatti esse sono persone apparentemente “normali”. Ciò che accade a Stefano avviene in una spirale di brutalità e burocrazia spesso più angosciante della ferocia di un pestaggio mai mostrato (non vola neanche un schiaffo in tutto il film) ma intuito dai segni violenti presenti nel suo corpo.
Quindi si può supporre anche che la colpevolezza dell’accaduto risieda principalmente sulla approssimazione; il pressapochismo e la sottovalutazione (la mancata valutazione sugli esami clinici dei danni fisici presenti nel corpo di Stefano Cucchi), danni fisici che traspaiono anche da tracce ben visibili ma producono una sottovalutazione che parte di un personale sia sanitario che giudiziario, i quali – seguendo passivamente un percorso fatto di astrazioni e dichiarazioni del tutto improbabili. Fino al punto di considerare veritiera una dichiarazione di Stefano Cucchi il quale alla domanda: “che ti è successo?” risponde con il consueto: “sono caduto dalle scale!”
Chi è nato, cresciuto e vissuto nelle periferie purtroppo conosce molto bene il significato vero delle parole contenute in quella frase. Un doloroso doppio senso su cui pochi hanno il coraggio di denunciare e di indagare.
In essa sono contenuti tutte le diffidenze e i rifiuti nei confronti di un potere giudicato come sempre contrario, pericoloso e nocivo sulle persone “marginali, border line” (come si definiscono oggi in linguaggio postmoderno) che rischiano di incappare nella rete di un sistema che ha caratteristiche repressive notevoli e molteplici.
La morte di Stefano Cucchi (come tra l’altro messo in forte evidenza dal processo al quale sarà sottoposto l’intero procedimento del suo arresto, detenzione e ricovero ospedaliero), sarà denunciata come una morte da parte dello Stato, rappresentato dalle forze dell’ordine. Morte, o omicidio che sarà certificato dopo una notevole, defatigante e ostacolata azione che la sorella Ilaria Cucchi ha saputo condurre per tantissimi anni (dal 2009) come una morte dovuta a: percosse; mancata assistenza e colpevolezza del sistema sanitario carcerario incapace di assistere o curare i malati a loro consegnati.
Il film ha quindi una sua “potenza evocativa” in quanto, più che mostrare crudelmente il comportamento feroce, manesco e selvaggio da parte di chi dovrebbe essere preposto al mantenimento dell’ordine sociale o alle tutele sanitarie, ne mostra il volto burocratico e banale, oggettivamente complice.
Potenza evocativa che ne fa ben intuire e percepire scelte e comportamenti che appaiono apparentemente comuni ma invece contrassegnate da scelte superficiali nelle quali la “vita” di un essere umano appare come un’astrazione insignificante e, in alcuni casi, anche fastidiosa e perciò da scartare prima possibile.
Si potrebbe parlare di banalità del male (riprendendo il bel libro di Hanna Arendt) ma tant’è.
Questo film va visto, vissuto e preso in dosi massicce, non piccole, perché secondo me è un’opera che permette una riflessione tramite una sua lettura di “classe”.
Di classe perché è capace di mostrare visivamente tutta l’inconsistenza, la superficialità di un sistema e di un potere che si regge esclusivamente sull’arroganza, la prepotenza, l’impunità e la superficialità di una parte della società, la quale arriva persino a considerare la vita, l’esistenza di soggetti ed esseri umani come un errore della storia, una fastidiosa seccatura, dalla quale miglio è sbarazzarsi il prima possibile.
E’ un’opera, credo che si possa definire post ideologica e postmoderna la quale però se, attentamente osservata con le dovute e necessarie lenti “critiche”, è capace di mostrare la sua lettura di “classe”, cioè una lettura nella quale gli “ultimi” (sappiamo chi sono e di cosa parliamo) saranno sempre gli “ultimi”. A meno che non siano capaci di rovesciare collettivamente il tavolo sul quale si poggia e si mantiene l’arroganza del potere, del profitto a qualsiasi prezzo (vita umana compresa) e dei privilegi economici, sociali ed estetici che caratterizzano questa fase storica e sociale. Buona visione a tutti.
PS: suggerirei di modificare il titolo del film da: “sulla mia pelle” in: “sulla pelle di quasi tutti”.
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