Il Parlamento europeo ha approvato la “direttiva sul diritto d’autore” che ne cambia la disciplina soprattutto per quanto riguarda la diffusione di contenuti su Internet, sulle piattaforme social ecc.
Una materia complicata, che coinvolge interessi enormi, e mette in discussione posizioni che garantiscono profitti in proporzione, spesso con il minimo sforzo. Ma che soprattutto comprende soggetti assai diversi tra loro – editori, gestori di piattaforme, giornalisti, artisti, semplici utenti dei social, ecc. – e quindi cambia i rapporti reciproci (“di classe”, si può ben dire) tra loro.
Il principio sbandierato dai proponenti – la Commissione europea, sostenuta dai due principali schieramenti, il Ppe e i “socialisti” – è “difendere la cultura e la creatività europea, mettendo fine al far-west digitale”. Nello specifico, viene individuato il “nemico” nei grandi aggregatori di notizie, come Google News, che tramite algoritmo raccolgono ogni giorno i link a milioni di contenuti (articoli, musica, video, foto, ecc.), guadagnando tramite la pubblicità che accompagna tutte le loro pagine.
Messa così, tutto sembra molto logico e giusto. Anche a noi, in fondo, dispiace vedere il nostro lavoro “piratato” da qualcuno che non autorizziamo a ripubblicare quanto prodotto, oppure a non vedere un centesimo di entrate nonostante gli oltre 3 milioni di visitatori annui...
I problemi sorgono quando si comincia a distinguere tra grandi editori, piccoli editori, singoli produttori di contenuti che si ritrovano aggregati tutti insieme dentro mega-contenitori. Se gli utenti cliccano sul link e vanno dunque a visitare il sito “produttore”, ecco che l’aggregatore svolge una funzione utile, perché rende rintracciabile quel singolo contenuto altrimenti destinato a essere solo un messaggio nella bottiglia in pieno oceano. Se questo non accade – l’utente medio si accontenta spesso di leggere il solo titolo – il produttore di contenuti non ci guadagna nulla, mentre l’aggregatore sì. Comunque.
Una “tassa” sugli aggregatori potrebbe dunque teoricamente portare parte di quei profitti nelle tasche dei “produttori” (soprattutto in quelle degli editori, che hanno già remunerato i loro giornalisti-artisti-ecc, molto meno in quelle dei creatori “spontanei”). Qualcosa del genere è già stato fatto in Spagna e Germania, quattro anni fa, con l’unico risultato – ampiamente imprevisto – di vedere Google chiudere le proprie pagine News per quei paesi.
Dunque la principale motivazione di questa normativa è già invalidata dai precedenti concreti. Anzi, il danno maggiore è stato subito dai piccoli editori, che si sono visti contemporaneamente privati della pubblicità online (il cui prezzo varia in proporzione ai click) e di buona parte della visibilità.
In attesa di vedere il testo definitivo – la votazione di ieri dovrà essere replicata a gennaio, dopo i negoziati con il Consiglio e la Commissione, per cercare un’intesa sulla versione definitiva della riforma; quindi toccherà agli stati membri mettere in atto la direttiva in una forma “nazionale” – sono stati due gli articoli più controversi.
Il numero 11 è per l’appunto quello dedicato alla disciplina dei diritti economici, nell’intento di ri-bilanciare gli squilibri tra editori e piattaforme online, introducendo una “compensazione” per ora non quantificata a beneficio degli editori.
Il 13, invece, è quello che introduce – senza dirlo – una censura selettiva che spinge le piattaforme a diventare “controllori-schedatori” degli utenti ancora più di quanto già non lo siano.
Prevede infatti che le piattaforme online – per esempio Facebook – controllino ciò che viene caricato dagli utenti, escludendo i contenuti protetti dal diritto d’autore. L’esempio pratico è utile: una foto trovata online non potrà più essere postata e condivisa se protetta da copyright (già ora il motore di ricerca Google permette di sapere se un singola foto è utilizzabile oppure no). E così per articoli di giornale, brani di letteratura o poesia, canzoni, ecc.
L’idea di fondo di questo articolo 13 è di spingere piattaforme ed editori (comprese le major di Hollywood o le case discografiche) ad accordarsi per dar forma a una “licenza” che permetta di ospitare contenuti coperti da copyright. Una volta per tutte, in modo da fissare un prezzo stabile e definire un flusso di incassi prevedibile.
Già Youtube utilizza un “Content ID” per evitare che singoli utenti carichino video protetti da copyright. Ma la formula usata dal Parlamento è parecchio ambigua: “utilizzare le tecnologie di riconoscimento dei contenuti per individuare video, musica, foto, testi e codici protetti dal copyright”. Lascia spazio a interpretazioni “nazionali” particolarmente invasive, tanto da traferire la responsabilità dei contenuti pubblicati dai singoli utenti alle piattaforme (già Facebook è particolarmente invasivo, da questo punto di vista).
In una lettera firmata da 70 esperti (tra cui il mitico Tim Berners Lee, considerato il creatore del world wide web, e Jimmy Wales, fondatore di Wikipedia), si sostiene che questa misura potrebbe trasformare internet “in uno strumento per la sorveglianza automatizzata e per il controllo degli utenti”.
L’esperto in crittografia e sicurezza Bruce Schneier, uno dei firmatari, specifica che “L’articolo 13 trasforma i social media e le altre compagnie di internet in una specie di polizia del copyright, costringendoli a implementare un sistema di sorveglianza altamente invasivo”.
Il diavolo si nasconde nei dettagli, recita un saggio proverbio inglese... Ed ecco che, di dettaglio in dettaglio, “la difesa della cultura e della creatività europea” partorisce un sistema di sorveglianza individualizzato, come nemmeno nel Big Brother orwelliano.
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