di Guido Salerno Aletta
I processi di cambiamento sono sempre caratterizzati da fenomeni di euforia collettiva: dalle prospettive di guadagni mirabolanti investendo nello sfruttamento delle Colonie dei Mari del Sud, per via del monopolio commerciale che era stato concesso ad una Compagnia britannica nei primi del '700, alla frenesia ferroviaria di fine '800 quando si costruirono strade ferrate un po' dappertutto, collegando città e paesi che non portavano traffico; alla moltiplicazione delle reti di accesso per la telefonia mobile che si è verificata negli anni '90 del secolo scorso.
Nel primo caso, gli investitori hanno perso tutti i loro averi; nel secondo caso, gli Stati sono subentrati nelle attività dei Concessionari, nazionalizzando le tratte ferroviarie; nel terzo caso, gli operatori stessi hanno cominciato a mettere a fattor comune una serie di infrastrutture, essendosi resi conto che avere ognuno una propria rete comportava oneri eccessivi, senza nessun vantaggio in termini di competitività né di migliore qualità del servizio.
In tutti i casi, c'è stato un iniziale impulso netto positivo sull'economia reale: con la realizzazione di centinaia di navi e decine di porti; costruendo locomotive, vagoni, binari, stazioni, ponti e gallerie; sistemi radio ed apparati elettronici montati su altrettanti tralicci posti tutti vicini, gli uni accanto agli altri, uno per ogni gestore.
Non c'è dubbio, però, che sono rimasti i debiti da pagare: nel primo caso, chi aveva costruito vascelli e porti si trovò con crediti inesigibili nei confronti della committenza; nel secondo, fu lo Stato ad accollarsi gli impegni assunti dai privati creando debito pubblico; nel terzo, sono gli operatori di telecomunicazione che hanno operato un drastico abbattimento delle immobilizzazioni tecniche ancora non ammortizzate, rimanendo col debito derivante dalla loro fornitura ma risparmiando sui costi operativi di gestione e manutenzione.
L'euforia iniziale è costata cara, sempre.
Ci troviamo ora di fronte ad un nuovo processo, quello della decarbonizzazione dell'economia, per ridurre a zero le emissioni nette di CO2 entro la metà del secolo.
È un processo ciclopico, che richiede immensi investimenti nel rinnovo di sistemi di generazione di energia, di reti, di apparati: se non tutto, molto va rifatto da capo.
In America si predica proprio questo: "Build Back Better".
Nell'Ue, le auto a combustione interna, pur con qualche perplessità emersa solo di recente, non dovrebbero più essere messe in vendita a partire dal 2035: è sicuramente una scadenza molto ravvicinata, che viene stabilita proprio per forzare la mano alle industrie ed ai cittadini, anche se la tecnologia è ancora non completamente matura e manca completamente un sistema di ricariche efficiente.
Si rischia di mettere troppa carne al fuoco: il rallentamento del mercato dell'auto è evidente a tutti. Nonostante gli incentivi fiscali, c'è grande incertezza da parte dei consumatori che tirano avanti prima di impegnarsi con l'auto completamente elettrica.
Le case costruttrici ne sono ben consapevoli, e non fanno più la pubblicità indicando il prezzo di vendita delle auto: propongono l'affitto mensile, neppure più il leasing. E sono molto caute ad annunciare i chilometri di autonomia per quelle completamente elettriche. Ci sono troppe incertezze anche sulla tecnologia, e così cercano di non bruciarsi l'immagine con prodotti che devono ancora essere testati sul medio periodo. Insomma, le vecchie auto diesel tedesche amatissime dai tassisti, quelle che macinavano anche mezzo milione di chilometri senza richiedere grossi interventi di manutenzione, rimangono ancora lontanissime: di certo, il numero di cicli di ricarica delle batterie attuali non è in grado di reggere il paragone.
Il rischio è di trovarsi con una crisi a mezza strada: quando tutti stanno investendo, e con il mercato che non tira adeguatamente.
Già si vedono le pressioni sui sindaci, che mettono divieti a tutto spiano, per forzare i cittadini ad usare auto elettriche: è un tema delicato, quello della mobilità urbana e periurbana, che sta incidendo sulla capacità di reazione positiva: si rischia il rifiuto, il rigetto.
Tutti hanno sempre sognato l'automobile, come mezzo che assicurava libertà e comodità: ora sta diventando un assillo.
Ogni rallentamento, ogni dubbio, ogni incertezza vengono stigmatizzati: bisogna andare avanti a tutti i costi, perché la temperatura terrestre si sta continuando ad alzare, ed il punto di non ritorno nella alterazione degli equilibri climatici è troppo vicino per permettersi rallentamenti.
Ma questo atteggiamento non fa altro che alzare la posta finanziaria ed il rischio di un collasso: è già successo nel 2001, con le società che si quotavano sul Nasdaq, creando una bolla di valori basata su aspettative irrealistiche: più che un Eldorado, divenne un precipizio di perdite.
Ci sono troppi interessi in gioco, soprattutto da parte di chi ha visto le sue fortune finanziare andare alle stelle: il caso di Tesla ha fatto clamore, ma si fonda solo su aspettative.
Lo stesso sta succedendo con le piattaforme di social media: da Facebook a Twitter, è tutto un ripensamento, perché il modello di business dei social media non regge.
Se scoppiasse la "bolla green", ci troveremmo di fronte ad un paradosso: insieme al sistema finanziario che la pompa, verrebbe giù una larga parte dell'economia reale, procurando una crisi dei consumi che da sola ridurrebbe le emissioni di CO2 più di ogni altra innovazione tecnologica.
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