Da malapena un mese è stata annunciata la cancellazione del programma China Initiative, avviato da Trump nel novembre 2018. Sotto questo nome si è intesa una lotta sistematica dell’amministrazione statunitense contro il rischio di spionaggio industriale e nell’ambito della ricerca accademica da parte della Cina.
Il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ne ha decretato la fine di fronte alle tante critiche di profilazione razziale a cui il programma avrebbe condotto. Il caso più eclatante è quello di 246 scienziati su cui il National Institute of Health (NIH) ha avviato approfondimenti: l’81% era asiatico e il 91% delle collaborazioni di questi erano con colleghi cinesi.
Di questi, oggi 103 hanno perso il proprio lavoro, ma questo dipende più dalle lunghe pressioni burocratiche e dal fatto che in molti hanno perso i fondi che il NIH forniva loro, rendendo impossibile continuare le proprie ricerche.
Insomma, in diversi hanno preferito andarsene di propria volontà, mentre alcuni hanno addirittura dovuto affrontare lunghi processi.
Il punto finale della China Initiative è coinciso con il recente sgretolarsi delle accuse a Gang Chen, in organico al MIT, dopo due anni di interrogatori, perquisizioni e 13 mesi di detenzione. Era stato lo stesso MIT a difendere il suo ricercatore, per poi espandere il suo aiuto anche ad altre facoltà di cui i membri si trovavano sotto un attacco ingiustificato.
Infatti, non sono stati pochi i casi in cui i risultati ottenuti hanno fatto gridare all’inefficienza e all’arbitrarietà del programma. Un’indagine pubblicata proprio sulla MIT Technology Review ha rilevato come non esistano chiare linee guida su quali casi possono essere posti a verifica, rendendo non trasparenti le azioni promosse.
Il primo caso arrivato a processo della China Initiative è quello di Anming Hu, professore associato dell’Università del Tennessee.
Il procedimento è stato annullato perché costruito consapevolmente dall’FBI su prove false, con l’agenzia governativa che voleva addirittura costringere il docente a spiare la Cina per conto dello Zio Sam. Un secondo processo si è comunque concluso con la sua assoluzione.
Alla fine del 2022 Bloomberg News ha sottolineato come, delle 50 accuse visibili sulla relativa pagina web, la maggior parte riguardasse occasioni di avanzamento di carriera o di profitto individuale. Solo un quinto aveva a che fare con lo spionaggio, e la maggior parte rimane un vicolo cieco.
Il quadro tracciato fa capire perché questo programma fosse mal visto da più parti. Tra le sole otto condanne o ammissioni di colpa c’è stato certo il caso di un furto di know-how dalla Duke University, ma sostanzialmente l’unica vittoria della China Initiative è stata aver perseguito qualche entrata non segnalata, a volte per errori plausibili tra le carte della burocrazia.
A dispetto dell’enorme impegno profuso, l’unico traguardo raggiunto è stato creare un clima di «caccia alle streghe», con grosse ripercussioni sul progresso scientifico, che si basa sulla collaborazione. In Cina lo sanno bene, e anche per sviluppare le proprie capacità nazionali da decenni perseguono una politica di scambio accademico e culturale di grande importanza.
Prima del Covid, erano 360 mila gli studenti cinesi negli USA, ma dopo l’avvio dell’iniziativa del Dipartimento di Giustizia è cominciata una stretta sui visti, con preoccupazione di Pechino. Ma gli effetti benefici per la sovranità tecnologica del Dragone si osservano nel suo essere all’avanguardia in 37 dei 44 settori chiave per il futuro.
I timori cinesi sono tuttora alimentati dalle parole di Matthew Olsen, che lavora presso la sicurezza nazionale e che ci ha tenuto a chiarire che la fine della China Initiative significa solo che i suoi obiettivi saranno perseguiti in modo diverso. Anzi, lo sforzo verrà ampliato e nessuno dei 2 mila casi oggi aperti verrà chiuso.
Da tempo procede, a passi sempre più grandi, la guerra dall’Occidente in crisi al profilarsi di un mondo multipolare. Anche l’istruzione e la ricerca sono colpiti da questo intensificarsi del conflitto internazionale, e a rimetterci è sempre la maggioranza della popolazione, che perde i benefici che la collaborazione paritaria tra paesi potrebbe portare al miglioramento delle condizioni di vita di tutte e tutti.
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