di Luca Cangianti
Filippo Kalomenìdis, Collettivo Eutopia, Per tutte, per ciascuna, per tutti, per ciascuno. Canti contro la guerra dell’Italia agli ultimi, D.E.A., 2022, pp. 212, € 20,00.
Nel giugno del 1945, a un paio di mesi dalla Liberazione, comparve un opuscolo intitolato I nostri martiri. Si trattava di una pubblicazione del Movimento comunista d’Italia, una formazione partigiana eretica, esterna al Comitato di liberazione nazionale, nota anche con il nome di Bandiera Rossa, la testata del proprio giornale. Nonostante questi partigiani costituissero il gruppo armato più numeroso della Resistenza romana, il Partito comunista li definiva «delinquenti», «trotskisti» e addirittura «oggettivamente» collusi con il nazifascismo. Il motivo? Bandiera Rossa utilizzava la pratica dell’esproprio ai danni dei fascisti e dei borsari neri, e si batteva per instaurare un comunismo dai tratti consiliari, piuttosto che una democrazia borghese rispettosa delle sfere d’influenza alleate e sovietiche. I suoi militanti inoltre non erano intellettuali crociani come molti esponenti del Pci, ma semplici proletari di borgata, cui era spesso capitato di salire i famosi gradini del carcere di Regina Coeli.
Nell’introduzione a quelle pagine si affermava che la pubblicazione non voleva “essere né un necrologio né un banchetto funebre” e che il martirio dei compagni nei mesi di lotta al nazifascismo “non è il principio di una fine ma assume per noi l’inizio di una realtà avvenire”. Insomma, la memoria era al servizio della speranza e della lotta per un mondo migliore.
Leggendo Per tutte, per ciascuna, per tutti, per ciascuno di Filippo Kalomenìdis e del Collettivo Eutopia, mi è tornato in mente quell’umile e folgorante libretto partigiano, pieno di sangue e di sofferenza, ma scevro da ogni vittimismo. Gli autori e le autrici di Per tutte, per ciascuna, per tutti, per ciascuno, infatti, danno voce a cinquanta “devianti”: militanti rivoluzionari, combattenti armati, migranti, omosessuali, transessuali, reclusi di carceri, lager psichiatrici e per stranieri. Si inizia nel 1969 con il “malore attivo” del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, accusato della strage del 12 dicembre cui risulterà assolutamente estraneo. Si continua con gli immigrati uccisi da sicari ingaggiati da imprenditori agricoli, abbattuti dalle forze dell’ordine, trucidati da “normali” cittadini italiani o da un macchinario industriale. Viene poi il turno dei militanti politici, armati o meno che fossero, anarchici, comunisti o semplicemente presenti a una manifestazione: «Sono morta a diciott’anni / ma sono viva, / la festa deve ancora cominciare», recitano i versi dedicati a Giorgiana Masi. Sfilano a seguire le vittime del patriarcato: donne incendiate dai propri compagni, sparate dai propri padri. E infine transessuali, tossicodipendenti, matti e suicidi. È un’umanità che soffre, che ha subito violenze indicibili, ma che non viene mai privata della propria soggettività, vittimizzata. Gli autori e le autrici del testo restituiscono dignità a queste vite, senza abiure e dichiarazioni d’innocenza. Gli strumenti utilizzati sono quelli della poesia, della prosa poetica e del racconto. Perfino le note biografiche sono pienamente interne al progetto artistico brillando di spunti epifanici e lirici.
Émile Durkheim affermava che la devianza è un’anticipazione della morale dell’avvenire. Nel caso delle cinquanta vite che Kalomenìdis e il Collettivo Eutopia offrono alla nostra lettura, si tratta di un estratto della storia oscura e rimossa di questo paese. Si tratta di una guerra agli ultimi, fatta di massacri, di tortura e di repressione. Solo assorbendo empaticamente tutto questo dolore – aprendo cuori e menti – potremo aspirare a un avvenire di riscatto e di giustizia. In fondo, come notò anche Marx, “È, il lato cattivo a produrre il movimento che fa la storia”.
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