di Gianfranco Marelli
Marco Rovelli, Soffro dunque siamo. Il disagio psichiatrico nella società degli individui, Castelvecchi 2023, pp. 261.
Parto dalla fine. Dopo aver letto l’ultimo libro di Marco Rovelli, un viaggio-inchiesta che l’autore, musicista-filosofo, ha compiuto in questi tre anni di pandemia, trascrivendo il disagio, l’ansia, la paura delle persone e di coloro che – dagli infermieri ai medici, dagli psicologi agli psicoanalisti e finanche agli psichiatri – hanno provato a comprendere il perché di tali sofferenze, mi è tornato in mente lo spettacolo che Giorgio Gaber tenne al lirico di Milano nel 1974 e al quale, come tanti, ebbi la fortuna di assistere.
In particolare la canzone che chiudeva lo spettacolo scritto con Sandro Luperini, “C’è solo la strada”, rispecchiava quel determinato momento, quando la speranza di poter cambiare la realtà, uscendo dall’isolamento delle proprie confortevoli case, si coniugava con il desiderio nell’essere protagonisti di un’onda collettiva capace di innaffiare la vita quotidiana con gocce di speranza creativa. Ricordate?
C’è solo la strada su cui puoi contare
La strada è l’unica salvezza
C’è solo la voglia e il bisogno di uscire
Di esporsi nella strada, nella piazza.
Perché il giudizio universale
Non passa per le case
In casa non si sentono le trombe
In casa ti allontani dalla vita
Dalla lotta, dal dolore, dalle bombe (qui)
Da allora qualcosa è cambiato. Cosa, quando, ma soprattutto perché? Immediatamente ho ripreso la lettura del libro fin dal primo capitolo, individuo vs condindividuo, in cui l’autore descrive il tempo della pandemia come una pandemia del tempo, percepito improvvisamente come un tempo sospeso fra l’eccesso di averne troppo e la penuria di non averne abbastanza, al punto che la realtà stessa, finora considerata “normale”, è stata posta in questione.
Ma quando si pone in questione qualcosa, occorre avere le risorse per dare delle risposte. E se queste risorse non si hanno, si sta male. E il malessere, il disagio, la sofferenza psichica in questo tempo sospeso sono cresciuti enormemente. Ma questa esplosione del disagio – sintomi depressivi o ansiosi generalizzati – non è un’irruzione improvvisa, una comparsa di alieni dallo spazio. Essa è da intendersi proprio alla luce della nostra mancanza di risorse per far fronte a una crisi già in atto. Il tempo della pandemia è un’accelerazione di processi di lunga durata. Che riguardano il nostro modo di abitare il mondo.[p.10]
Molti e infiniti sono gli spunti che conducono a leggere un libro, e questo si presta ai più svariati: da guida accompagnatrice nel mondo misterioso e affascinante della mente umana, a prontuario medico farmacologico più usato, e non poche volte abusato, in questi lunghi anni di pandemia; da stimolante lettura dell’intreccio fra filosofia e psicanalisi – coinvolgente i principali personaggi della cultura occidentale dai tempi di Spinoza sino ai Lacan, Deleuze, Foucault – all’impressionante aumento della violenza su se stessi [anoressia, autolesionismo] e sull’Altro [bullismo, revenge porn] da parte dei giovani, soprattutto delle giovani, al punto da non riuscire a sostenere lo sguardo degli altri e rifugiarsi nella propria cameretta, perché lo sguardo degli altri è come il basilisco: ti incenerisce, in quanto può svergognarti in ogni momento.
Diverse, infatti, sono le piste seguite dall’autore in questo viaggio-inchiesta che è facile rimanere imbottigliati nel traffico di informazioni, tutte preziose, registrate dalle voci dei diretti protagonisti di questo tempo improvvisamente vuoto che ha posto il problema di come riempirlo per non sentirsi vuoti. Fra queste abbiamo prediletto la pista che Rovelli ha seguito per evidenziare lo iato che separa non solo il prima e il dopo della pandemia, ma il prima dell’affermazione ideologica racchiusa nella celebre frase di Margaret Thatcher – «Non esiste nulla che possa definirsi società. Esistono gli individui, i singoli uomini e le singole donne, ed esistono le famiglie» – e il prossimo futuro, segnato sempre più da emergenze indotte e pilotate da interessi economici nei vari settori produttivi [dall’industria agro-alimentare all’industria militare, dall’industria estrattiva di minerali e risorse energetiche, alle ripercussioni negative sull’assistenza sanitaria, l’istruzione, i servizi sociali di tutti i popoli del mondo] nel loro insieme votati ad avere un impatto sulla natura e su chi vi abita dagli esiti nefasti.
Eppure “vivere senza tempo morto, gioire senza ostacoli” – una fra le tante gocce di speranza creativa dello tsunami sessantottino – invocava la libertà di essere i protagonisti della propria vita combattendo i pregiudizi culturali, i sensi di colpa religiosi, i rimorsi per non aver fatto il proprio dovere imposto da una società patriarcale, maschilista, ma soprattutto finalizzata al dominio della merce attraverso il consumismo e il suo illimitato sviluppo, sbandierato come progresso della modernità. Altri tempi.
Adesso senza tempo morto si è obbligati a vivere, come obbligati si deve gioire per qualsiasi genere di merce sentiamo il desiderio di comprare, senza più ostacoli ai nostri bisogni indotti da una società permissiva. Permissiva in che cosa? Certo, se tu vuoi tutto è possibile, ma devi saperlo realizzare autonomamente poiché tu sei il responsabile, il creatore e l’imprenditore di te stesso. Dopotutto, scrive Rovelli, «Il punto è chiaro: la nostra società non si regge più sulla contrapposizione tra permesso/vietato, ma tra possibile/impossibile. Tutto è possibile: Just do it. E se ti è impossibile, se non ce la fai, la responsabilità è solo tua» [p.32]; insomma, non è più il senso di colpa legata alla legge che vieta, ma di vergogna legata al fallimento per non esser stato capace di diventare imprenditore di te stesso. Perché volere è potere, e se non possiedi il potere dentro di te per divenire ciò che gli altri si aspettano da te – e tu non vuoi deluderli, vero? – cosa ti resta se non la vergogna del tuo fallimento?
Cosicché, il “tu puoi” diventa il “tu devi” – l’imperativo categorico della società dello spettacolo – immediatamente tramutato in “tu non puoi”, perché non ti impegni abbastanza, non segui i tempi, non ti sai promuovere e tanto meno vendere. Allora corri [letteralmente] ai ripari: ti inventi l’immagine più accattivante in grado di catturare l’attenzione su di te, trascinando la tua esistenza sotto un continuo stress, un’ansia egocentrica, accompagnata dall’esaltazione per i piccoli successi ottenuti eliminando i tuoi diretti avversari più deboli, inesperti, bamboccioni. Risultato: ti ammali perché la società è ammalata di bipolarità.
Sì, la bipolarità tra mania e depressione è quella che meglio si presta a descrivere un modello sociale che si muove tra imperativo continuo della prestazione, della necessità imprescrittibile e inderogabile del conseguimento di un oggetto, di un obiettivo (che in questo contesto identifichiamo, in base all’etimologia stessa di ob-jectum, con ciò che ci sta davanti, e su cui proiettiamo il desiderio), e la conseguente tonalità depressiva quando non si raggiunge l’oggetto (e l’oggetto, propriamente, non lo si raggiunge mai), quando si è costretti a mollare la presa, quando per un evento qualsiasi affiora il vuoto – poiché l’iperattività è una forma di difesa dal vuoto che ci abita, un moto perpetuo di difesa contro la depressione.[pp. 41-42]
Ecco, viaggiando a capofitto in questo “vuoto che ci abita”, Marco Rovelli ci conduce passo dopo passo ad esplorare e a interrogarci sulle cause patologiche del disagio, non più soltanto genetiche e strettamente organicistiche, risolvibili con una pastiglia, un TSO, un ricovero di sollievo; perché il vuoto dentro di noi rispecchia il vuoto fuori di noi causato dalle illusioni generate dall’iperedonismo neoliberale per un godimento senza limiti smentito dalla realtà, soprattutto da quando l’epidemia ha dissipato e fatto implodere la retorica sociale del merito e delle infinite possibilità che ciascuno di noi ha nel mettersi in gioco al fine di primeggiare sugli altri concorrenti. Infatti, questa è «l’epoca del godimento come nuovo imperativo sociale, un godimento in cui non ha più parte il desiderio come desiderio dell’altro, ma che si pone come un’affermazione narcisistica dell’io ideale, che ha reciso ogni legame con l’altro» [p.145]; di modo che:
la pulsione securitaria che appare oggi esorbitante, ed è sotto gli occhi di tutti nell’età di sovranismi, identitarismi e razzismi, è inscritta immediatamente nel pensiero di una società che esiste solo successivamente agli individui. Questo dato di fatto balza agli occhi in maniera più evidente ora che il desiderio di sicurezza, e la tendenza a costruire l’altro come nemico, si fa più pressante e presente perché la propria condizione di godimento viene percepita come a rischio.[p. 149]
Come uscirne, se non insieme? Ma cosa vuol dire “insieme” nella società degli individui? Comprendere innanzitutto che il non sentirsi a proprio agio – una sorta di spaesamento in casa [oikos] e nel mondo [phisis] – è una condizione condivisa e generalizzata in grado di mostrare l’unica possibilità che la società dello spettacolo vieta: perdersi! Perdersi come i bambini quando giocano; come gli innamorati quando si amano; come chi immagina la realtà per trasformarla e liberarla dalla sua addomesticata follia. Quando, se non ora?
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