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21/03/2023

Israele evocata la guerra civile. Sullo sfondo rimane il “politicidio” contro i palestinesi

Tre cose colpiscono su quanto sta avvenendo in Israele:

a) la continuità delle manifestazioni contro il governo di destra di Netanyahu. Possiamo dire che, insieme alla Francia di oggi e l’Iran nei mesi scorsi, Israele è il paese in cui la contestazione dei rispettivi esecutivi appare più lunga nel tempo;

b) L’innalzamento dei toni dello scontro politico interno ad Israele che vede sempre più frequenti evocazioni della guerra civile e attacchi da parte della compagine di governo contro le altre istituzioni israeliane (presidente della repubblica e servizi di sicurezza);

c) la totale assenza nel dibattito politico israeliano della insanabile contraddizione tra “modello democratico” e oppressione coloniale e apartheid contro i palestinesi.

Il figlio di Netanyahu, Yair, in un programma radiofonico, ha paragonato i movimenti e le proteste contro l’esecutivo e la sua riforma della giustizia con quanto avvenuto in Germania negli anni Trenta, accusando i manifestanti di essere come le “camicie brune” tedesche. Il rampollo di Netanyahu però non è nuovo a discorsi incendiari. In dicembre aveva dichiarato che i procuratori che avevano incriminato il padre – sotto processo con vari capi di imputazione tra cui abuso d’ufficio e corruzione – dovessero essere messi a morte.

Ma anche il padre “Bibi” non va tanto per il sottile. Netanyahu ha infatti affermato in una conversazione privata – citata però dal quotidiano Times of Israel – che se ci sarà una guerra civile a causa della riforma giudiziaria imposta dal governo israeliano in carica, sarà colpa del presidente Isaac Herzog.

Quest’ultimo ha avanzato una proposta di mediazione ma giovedì ha avvertito che il Paese sta affrontando un reale pericolo di guerra civile. Il suo piano è stato rapidamente respinto dal governo in quanto ritenuto troppo inclinato verso le posizioni dei critici alla riforma del governo.

Anche sabato intanto, per l’undicesima settimana di fila, decine di migliaia di israeliani – 250mila secondo le stime – sono scesi in piazza contro il governo in numerose località del paese.

Secondo un conteggio della società Crowd Solution citato da Channel 13 News oltre 260.000 persone hanno manifestato in tutto il paese, di cui 175.000 a Tel Aviv, 20.000 ad Haifa, 4.000 a Netanya, 11.500 a Herzliya, 18.000 a Kfar Saba e 6.000 a Beersheba.

Obiettivo dei cortei, convincere l’esecutivo a ritirare la controversa proposta di riforma della giustizia, il cui iter parlamentare procede a tappe spedite. “La prossima settimana il governo israeliano intende approvare la legge sulla dittatura e la coercizione religiosa“, hanno detto sabato gli organizzatori della protesta in una dichiarazione.

Netanyahu, secondo il quotidiano Jerusalem Post, starebbe facendo pressioni sul capo del servizio di sicurezza interno (Shin Bet) Ronen Bar, per intervenire con la repressione per “incitamento alla violenza contro il primo ministro e altri ministri”. Ma ha anche criticato il capo della polizia perché sarebbe troppo morbido contro “gli anarchici” (pure lì?! Ndr) che starebbero bloccando le strade con le loro proteste contro il governo.

I palestinesi guardano alla crisi politica e allo scontro interno ad Israele con un atteggiamento duplice: “Si può apprezzare la necessità di usare strategicamente lo sconvolgimento contro il governo di estrema destra di Netanyahu per smascherare la pretesa fraudolenta di Israele di una vera democrazia, presumibilmente ‘l’unica democrazia in Medio Oriente‘” – scrive il giornale Palestine Chronicle – “Tuttavia, bisogna stare altrettanto attenti a non convalidare le istituzioni intrinsecamente razziste di Israele che sono esistite per decenni prima che Netanyahu arrivasse al potere”.

Il giornalista palestinese Ramzi Baroud ricorda che “Le proteste in Israele hanno ben poco a che fare con l’occupazione israeliana e l’apartheid, e si preoccupano poco dei diritti dei palestinesi. Sono guidati da molti ex leader israeliani, come l’ex primo ministro Ehud Barak, l’ex ministro Tzipi Livni e l’ex primo ministro e leader dell’opposizione, Yair Lapid. Durante il periodo al potere di Naftali Bennett-Yair Lapid, tra giugno 2021 e dicembre 2022, centinaia di palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania (...).
Israele dovrebbe essere sanzionato, non a causa del tentativo di Netanyahu di cooptare la magistratura, ma perché il sistema di apartheid e il regime di occupazione militare costituiscono un completo disprezzo e una totale violazione del diritto internazionale. Che piaccia o no agli israeliani, il diritto internazionale è l’unica legge che conta per una nazione occupata e oppressa”.

Nel nuovo governo israeliano, del resto, abbondano i sostenitori del politicidio verso i palestinesi. Il ministro delle Finanze israeliano, Bezalel Smotrich, leader del partito di destra Sionismo Religioso, ha affermato in un discorso durante una visita a Parigi che “i palestinesi non esistono“, sono “un’invenzione di meno di 100 anni fa“. “Non esistono i palestinesi perché non esiste un popolo palestinese“.

Commentando le parole di Smotrich, il premier palestinese Mohammad Shtayyeh ha affermato che: “Le dichiarazioni provocatorie sono coerenti con i primi detti sionisti di ‘una terra senza popolo per un popolo senza terra’“, indicandole come “prove conclusive dell’ideologia sionista estremista e razzista dell’attuale governo israeliano“.

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