Gerusalemme. «I coloni israeliani vogliono queste colline, questi terreni per i pascoli, questa luce, questi tramonti, perché sono meravigliosi. Susiya è isolata, siamo lontani dai centri abitati più grandi, eppure per me resta il posto più bello del mondo», ci dice Mohammad mentre, nella sua abitazione fatta di legno e lamiere, ci offre un caffè.
Aspettiamo di intervistare Hamdan Ballal, vincitore di un premio Oscar assieme agli altri tre registi (il palestinese Basel Adra e gli israeliani Yuval Abraham e Rachel Szor) del documentario No Other Land.
Lo scorso 25 marzo, Ballal è stato aggredito e ferito da coloni israeliani entrati nella sua abitazione a Susiya, poi è stato arrestato senza motivo dai soldati e liberato solo il giorno dopo. Mohammad, intanto, ci racconta di Susiya, della sua storia antica e dell’aumento delle scorribande dei coloni che da anni tentano di mettere fine all’esistenza del villaggio.
Vicende che riguardano tutta quell’area, Masafer Yatta, e le colline a sud di Hebron che Israele ha proclamato «zona di addestramento militare, 918».
La popolazione palestinese è a rischio di espulsione. Intorno regna il silenzio, rotto solo da un cane che abbaia e dal vento che soffia tra i teli stesi sopra le abitazioni per proteggerle dalla pioggia e dal freddo.
Nel frattempo, arriva Hamdan Ballal. Appare un po’ stanco, ma dopo tre settimane non mostra più sul viso e sulla testa i segni dell’attacco subito. «Sto meglio, mi sono ripreso e sono tornato al lavoro», dice. «Purtroppo, non è così per i miei bambini», aggiunge, «quel momento è stato durissimo per loro. Hanno visto il padre aggredito e poi arrestato senza alcun motivo dai soldati. Voglio che dimentichino, o almeno che sentano che le cose possono andare meglio».
Le cose però non vanno meglio, ogni giorno apprendiamo di nuovi raid a Um al Kheir, Jinba e altri villaggi di Masafer Yatta. Poche ore fa è stato ferito un altro palestinese.
Sì, è vero. Dopo che mi hanno attaccato, la situazione è addirittura peggiorata. I coloni sono entrati nel villaggio di Jinba e cinque abitanti sono stati feriti. Non basta. L’esercito è tornato di notte e ha distrutto tutto: la scuola, le case, le cucine, tutto. Qui a Susiya la violenza dei coloni non si limita ad attacchi alle persone o alle case. Va oltre. Da un po’ di tempo usano come arma persino le loro pecore: le portano a pascolare qui per distruggere le nostre coltivazioni.
Perché tanta pressione dei coloni sul tuo villaggio?
Dicono che è un luogo storico, biblico. E per questo vogliono cacciarci via. E usano varie strategie. Mentre ero in ospedale, ad esempio, mio nipote mi ha chiamato per dirmi che i coloni stavano facendo pascolare le loro pecore proprio fuori casa mia. Non importa se sei ferito o stai morendo, loro vanno avanti.
Pensi che l’aggressione che hai subito fosse collegata al premio Oscar?
Non ho una risposta certa, ad averla sono solo i miei aggressori. Tendo però a credere al collegamento con l’Oscar, perché mi colpivano alla testa, intenzionalmente. Come se volessero dirmi che pensare, ragionare, produrre informazioni, cultura e film non serviranno a mutare la mia condizione di occupato.
Qui comandiamo noi, hanno creduto di affermare. Non ne sono sicuro, però è questa la sensazione.
Allo stesso tempo, quanto mi è accaduto rientra nella strategia complessiva volta a cacciare tutti i palestinesi dalle colline a sud di Hebron. Il loro piano ha subito un’accelerazione. Prima, ad esempio, i coloni provenivano solo dalle zone vicine, ora sempre più spesso arrivano anche da altre parti della Cisgiordania.
C’è un crescente coordinamento tra quelli nel nord e quelli del sud. Si organizzano per attaccare insieme. Ci sono persone mai viste prima che partecipano agli attacchi.
A tuo avviso, il piano di espulsione generale della gente di Susiya e di tutta Masafer Yatta è sul punto di scattare?
Susiya ha ricevuto 43 ordini di demolizione. Oltre a questo, cosa possiamo aspettarci se non un atto di forza ampio e definitivo? I segnali sono evidenti e inquietanti. Ogni momento c’è un nuovo attacco. A Masafer Yatta tutti hanno paura. Quando mandano i bambini a scuola, hanno paura che i coloni facciano loro del male. I pastori, quando escono con le pecore, hanno paura per le loro famiglie a casa.
Conosciamo l’obiettivo di Israele, ma non possiamo immaginare quale sarà il prossimo metodo che userà contro di noi. Siamo indifesi, anche se gli attivisti internazionali e locali fanno del loro meglio per aiutarci.
A questo proposito, dopo che hai vinto il premio, alcuni palestinesi ti hanno criticato per aver realizzato No Other Land con degli israeliani, attuando una “normalizzazione tra occupato e occupante”.
Rispondo che sono cresciuto vedendo attivisti israeliani venire qui da più di vent’anni per sostenere i palestinesi. Molti di loro sono stati attaccati, imprigionati, alcuni sono stati feriti. Queste persone non sono dei normalizzatori, e con il tempo si è creato con loro un rapporto di fiducia.
Susiya è stato demolito tante volte, e chi c’era a ricostruirlo per permetterci di rimanere nella nostra terra? Gli attivisti israeliani più sinceri, quelli che credono che ciò che stiamo affrontando sia una pulizia etnica, l’apartheid. Sono pochissimi, è vero, ma lottano assieme a noi per la sopravvivenza di Susiya e di tutta Masafer Yatta.
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