Nel giugno del 1941, quando la Germania nazista decise di lanciarsi nell’invasione dell’Unione Sovietica, anche la Svizzera — ufficialmente neutrale — si schierò, in modo tutt’altro che marginale, nella crociata antibolscevica.
In un gesto clamoroso, il governo elvetico offrì al Reich non un prestito, ma un vero e proprio regalo di duecento milioni di franchi svizzeri. Non solo: mise a disposizione la propria industria per produrre armi e munizioni destinate all’esercito di Hitler. Una violazione della neutralità che rimase avvolta nel silenzio fino agli anni Novanta, quando una commissione parlamentare d’inchiesta ammise — pur cercando di ridimensionare — la collaborazione.
Secondo quella stessa commissione, il contributo svizzero rappresentò solo lo 0,5% della produzione bellica tedesca e dunque non influenzò significativamente la durata del conflitto. Ma si trattò comunque di 1500 cannoni, relative munizioni e dei fondamentali cuscinetti a sfera, prodotti in Svizzera e in Svezia, al riparo dai bombardamenti alleati.
Questi dettagli storici non sono citati per pedanteria. Servono a comprendere meglio le condizioni in cui Hitler decise di attaccare l’URSS: convinto che il “baraccone sovietico” sarebbe crollato in due mesi, e che l’Occidente avrebbe approvato o tollerato. Su questa base, oltre a scatenare l’Operazione Barbarossa, mise in moto anche il genocidio degli ebrei.
L’attacco, tuttavia, non fu soltanto un’iniziativa tedesca. Fu un’offensiva europea, appoggiata da numerosi alleati, alcuni dei quali antinazisti. Per ragioni ideologiche o geopolitiche, diversi governi e movimenti collaborarono con il Reich. I socialdemocratici del Nord Europa, il Vaticano, i conservatori francesi di Vichy: tutti vedevano nell’URSS il nemico principale.
Sul campo, Hitler poteva contare su un esercito composito e imponente:
– 400.000 finlandesi
– 230.000 italiani
– 280.000 ungheresi
– 530.000 romeni
– 5.400 croati
– 50.000 spagnoli
– 35.000 slovacchi
– 5.000 francesi
– 1.000 portoghesi
– 2.000 svedesi
– 7.000 norvegesi, danesi, belgi e olandesi
In tutto, circa 1.600.000 uomini su 70 divisioni dislocate sul fronte orientale. Tra questi, anche i nazionalisti ucraini, che si resero protagonisti dei primi pogrom contro gli ebrei.
Questo aspetto della guerra – l’attacco europeo all’URSS – è ancora oggi taciuto o minimizzato. Spesso proprio da chi, paradossalmente, sostiene che gli alpini abbiano difeso la nostra libertà “a oriente”, fingendo di ignorare o conoscere benissimo il contesto.
Già nell’agosto del 1941, appena due mesi dopo l’attacco, il nervosismo serpeggiava tra gli alleati del Reich. Hitler, riferendosi alla situazione, disse di sentirsi come il cavaliere che, attraversato il ghiaccio sottile, muore di paura solo dopo, rendendosi conto del rischio corso. Si lamentava del fatto che i suoi servizi segreti avevano gravemente sottovalutato l’Armata Rossa, ma affermava con sicurezza che il suo genio avrebbe rimediato all’imprevisto.
Anche sul piano diplomatico qualcosa scricchiolava. Lo Shah di Persia si infuriò con l’ambasciatore tedesco: dov’era finita quella vittoria tanto annunciata? In Giappone, durante una conferenza imperiale a Tokyo, si prese atto che sconfiggere l’URSS non sarebbe stato né semplice né rapido. L’alternativa per l’espansione giapponese? Puntare a sud, verso le colonie britanniche, a condizione di neutralizzare la flotta americana di stanza a Pearl Harbor.
A Berlino, l’ambasciatore giapponese Oshima entrò in crisi: aveva promesso a Ribbentrop l’imminente intervento nipponico, ma doveva ora confessargli che la resistenza sovietica aveva sconvolto i piani. Intanto Wilhelm Canaris, capo dell’Abwehr, i servizi segreti tedeschi, metteva in guardia: «Il bolscevismo, che doveva uscire distrutto da questa guerra, potrebbe invece uscirne rafforzato, se non stiamo attenti».
E mentre tutto questo accadeva, nel 1938 Albert Speer – architetto di Hitler – aveva aperto un conto speciale per finanziare la ricostruzione di Berlino in versione monumentale, “imperiale”, da realizzare dopo la vittoria. Nel 1943, senza dir nulla al Führer, chiuse silenziosamente quel conto. Una premonizione? O semplicemente, la fine di un’illusione.
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