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28/04/2025

Franceschini: l’archetipo dell’infame

È morto Alberto Franceschini. Se n’è andato l’11 Aprile. Da infame, così come ha vissuto la maggior parte della sua vita.

Nell’ombra. Assalito probabilmente dai suoi fantasmi. Circondato dal frastuono delle sue menzogne.

Fu, insieme a Renato Curcio ed altri, tra i cofondatori delle Brigate Rosse. Ovvero della più importante organizzazione armata comunista sorta negli anni ’70 in Italia e nel cuore dell’Occidente Capitalista.

Un’organizzazione di classe, nata dalle grandi fabbriche del Nord e dalla cultura rivoluzionaria del movimento operaio, che per un decennio fece tremare le strutture dello Stato borghese con il suo comitato d’affari.

Quel “comitato” composto allora soprattutto dalla Democrazia Cristiana e dai suoi alleati, di destra e di centrosinistra: Liberali, Repubblicani, Missini, Socialdemocratici.

Una storia di lotta e di insorgenza che Franceschini ha poi radicalmente tradito, diventando uno dei più ignobili fiancheggiatori degli apparati repressivi dello Stato e dei media di regime.

Dai servizi alla magistratura, dagli organi di informazione al corifeo della teoria del complotto – Sergio Flamigni – chiunque volesse gettare discredito sui suoi ex compagni, o ottenere informazioni taroccate per moltiplicare le pagine della più sgangherata pubblicistica dietrologica, non aveva che da rivolgersi a lui.

Narcisista, paranoico, affetto da delirio di onnipotenza, Franceschini in carcere si faceva chiamare il Mega. E megalomane lo fu di certo, soprattutto dopo la dissociazione. Attiva, anzi iperattiva...

Alberto Franceschini, infatti, non fu un semplice dissociato/pentito e collaboratore. Franceschini costituisce, potremmo dire, l’archetipo dell’infame.

Una convinzione che avevamo sempre coltivato ma che ci apparve ancora più chiara all’indomani di un’intervista pubblicata da Repubblica nel luglio del 2020, e dopo la quale scrivemmo un pezzo che qui riporto quasi integralmente.

Un pezzo che in occasione della sua dipartita non sconfessò. Anzi, rilanciò. Perché nel corso di quelle dichiarazioni Franceschini asseriva qualcosa che va al di là della semplice dissociazione/pentimento e della pur ignobile “confessione”.

Qualcosa che coinvolge l’etica rivoluzionaria e dunque esita nell’abiezione morale di un uomo che, incapace di sopportare il peso delle sue azioni, avrebbe preteso di salvare sé stesso addossando la responsabilità della Lotta Armata – e nello specifico delle Brigate Rosse – esclusivamente ai suoi compagni.

Soprattutto a Mario Moretti. Infangadone l’ineccepibile figura politica, di combattente e di uomo. Un uomo che ancora oggi, sebbene in regime di semilibertà, sconta il carcere. Dopo 44 anni.

Barbara Balzerani, una donna, una rivoluzionaria, ma soprattutto un’ amica la cui morte pesa come un macigno, ebbe a definirlo «un arlecchino dai mille servigi». Mai appellativo fu più appropriato.

Di seguito invece, le parole che scrissi nel 2020:
Franceschini è tre volte infame. Una volta perché rinnega la storia delle Brigate Rosse, lavandosi la coscienza con la viscida genuflessione morale al potere che intendeva combattere.

Una volta perché con essa rinnega i suoi compagni che in quella storia hanno creduto e per quella storia hanno sacrificato, con l’onore e la dignità che un vigliacco come lui non potrà mai comprendere, la loro vita. Tra morti e secoli di galera.

Una volta perché, con quel procedere strisciante tipico dei serpenti a sonaglie, afferma di non avere mai ucciso, ma di portare su di sé il peso della violenza che insanguinò l’Italia.

E, immediatamente dopo, accusa apertamente Moretti: «Le responsabilità di Moretti sono totali. Non credo che abbia fatto autocritica di nessun tipo». Praticamente, scarica su Mario Moretti e sulle azioni che le Br compirono, successivamente al suo (di Franceschini) arresto, tutto il peso della Lotta Armata comunista e delle decisioni capitali. Quelle, per intendersi, che dovevano e potevano condurre ad una vittoria finale delle forze rivoluzionarie.

Dimenticando di dire, dal basso gradino della sua ipocrisia, che c’era, almeno fino ad un certo momento (fine anni '70 inizio '80) un accordo quasi totale tra il fronte delle carceri – al quale Franceschini apparteneva e nel quale agiva con responsabilità di dirigente – e le brigate fuori, in merito alle azioni da condurre.

Questo ignobile personaggio, la statura etica del guerrigliero, che apparteneva e ancora appartiene a compagni come Moretti, non ha neanche lontanamente idea di cosa sia. Qualcuno avrebbe dovuto avere con lui la stessa fredda determinazione e la stessa intransigenza che, in quanto dirigente, Franceschinii ha riservato ad alcuni compagni. Altro che “non ho ucciso”. Ma non si può mai sapere. La Rivoluzione ha la memoria lunga.
Ahimè, ci ha pensato la natura. E allora, giunti al termine, mi sia consentito scomodare un gigante.

Scriveva il compagno Mao: «La morte di chi si sacrifica per gli interessi del popolo ha più peso del Monte Tai, ma la morte di chi serve i fascisti, di chi serve gli sfruttatori e gli oppressori, è più leggera di una piuma».

La morte di Alberto Franceschini è per noi più insignificante di una semplice piuma. E presto verrà spazzata dal vento.

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