Le ultime tabelle pubblicate dall’Eurostat dipingono l’immagine di un’Italia in cui la povertà diventa sempre più strutturale, innanzitutto perché colpisce in pratica allo stesso modo anche chi ha un lavoro a tempo pieno. Sembra paradossale, ma è così: l’Italia è un paese che si fonda sul lavoro sottopagato.
Il rischio povertà nel 2024 è rimasto stabile rispetto all’anno precedente (18,9%), ai livelli minimi dal 2009 ma solo per qualche decina di migliaia di persone su un totale di oltre 11 milioni. Allo stesso tempo, le persone che effettivamente sono scivolate in povertà assoluta sono aumentate, raggiungendo nel 2023 il numero di 5,7 milioni di residenti, ovvero circa uno ogni dieci.
I dati dell’Eurostat ci dimostrano che ciò è avvenuto perché le retribuzioni dei lavoratori non danno più la minima assicurazione di una vita dignitosa. Gli occupati con un reddito inferiore al 60% di quello mediano nazionale (parliamo di appena 12.363 euro), al netto dei trasferimenti sociali, sono passati dal 9,9% al 10,2% nel complesso.
La cosa peggiore è che se consideriamo gli impiegati a tempo pieno, questa percentuale è passata dall’8,7% al 9%, valori non molto distanti da quelli generali. A essere più in difficoltà sono innanzitutto i lavoratori indipendenti (17,2% a rischio, in netto aumento rispetto al 2023).
La povertà tra gli occupati è più diffusa nella fascia di età tra i 16 e i 29 anni (11,8%), mentre tra i 55 e i 64 anni si ferma al 9,3%. Anche il titolo di istruzione conta: gli occupati poveri sono maggiori tra chi ha completato unicamente la scuola dell’obbligo rispetto a chi ha ottenuto una laurea (18,2% contro il 4,5%, ma entrambe le percentuali sono in aumento).
Un dato abbastanza significativo è quello della deprivazione materiale. Circa 5 milioni di persone, infatti, non possono permettersi almeno 5 di 13 voci di spesa (beni, servizi o attività sociali specifici) considerate essenziali nel determinare una qualità di vita adeguata. Parliamo di una casa adeguatamente riscaldata, di un pasto con proteine almeno ogni due giorni, di avere almeno due paia di scarpe e così via.
Torna quindi ad aumentare anche il divario tra ricchi e poveri. Il primo decile della popolazione calcolato in base ai redditi conta su una quota del reddito nazionale del 2,5%, in calo tra il 2023 e il 2024. L’ultimo decile, quello più ricco, esprime una quota del reddito nazionale del 24,8%, in aumento sul 24,1% del 2023.
Su questi dati ha ovviamente impattato in maniera significativa l’andamento dei prezzi. Il mancato rinnovo di tanti contratti collettivi ha peggiorato ulteriormente la situazione. Risultano però piuttosto intollerabili le accuse che dal centrosinistra sono state mosse al governo: non perché l’esecutivo Meloni non abbia responsabilità per questi dati, ma perché la condivide con l’opposizione.
Arturo Scotto, capogruppo PD in commissione Lavoro alla Camera, ha affermato che “c’è un tabù che il governo Meloni non vuole rompere: si chiama salario minimo”. È lo stesso tabù che ha accompagnato i precedenti governi, con il centrosinistra che ha depotenziato ogni proposta concreta e che ha anzi assecondato la linea della moderazione salariale quando l’inflazione – da profitti – volava.
Oggi la strumentalizzazione delle retribuzioni di milioni di lavoratori mette ancora più in pericolo la loro capacità di garantirsi una vita per lo meno dignitosa, come i dati dell’Eurostat confermano senza appello.
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