di Carlo Formenti
3. Capitale commerciale e capitale finanziario. Lavoro produttivo e lavoro improduttivo
“[Nella misura in cui la produzione capitalistica si impadronisce della produzione sociale] le altre specie di capitale... non gli vengono solo subordinate e modificate nel meccanismo delle loro funzioni, ma non si muovono più che sulle sue basi... capitale denaro e capitale merce (in quanto esponenti di rami di affari propri) non sono ormai più che modi di esistere... delle diverse forme di funzionamento che il capitale industriale ora riveste e ora depone nella sfera della circolazione” (Libro II, p. 79).
Inauguro la terza tappa del viaggio attraverso i Libri II e III del Capitale con questo passaggio, già citato nella tappa precedente, perché ben chiarisce il punto di vista di Marx sulla posizione che capitale merce e capitale denaro occupano nella gerarchia fra le diverse modalità di esistenza del capitale in generale: nel suo modello teorico, queste due forme svolgono la funzione di “ancelle” del capitale industriale. Si tratta di un punto di vista cruciale ai fini della distinzione fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Al tempo stesso, si tratta di un punto di vista che, nella fase storica caratterizzata dal grande capitale monopolistico, terziarizzato e finanziarizzato, è al centro di critiche anche in campo marxista ma, prima di analizzare tali critiche, è opportuno approfondire il pensiero di Marx sull’argomento.
L’incapacità del capitalista (e degli economisti volgari) di comprendere il “mistero” del plusvalore, cioè del fatto che esso scaturisce dal tempo di lavoro non retribuito, argomenta Marx, fa sì che costoro attribuiscano alla sfera del commercio la capacità di creare ricchezza: “Al capitalista l’eccedenza del valore, o plusvalore, realizzata con la vendita della merce appare come eccedenza del suo prezzo di vendita sul suo valore, anziché come eccedenza del suo valore sul suo prezzo di costo, per cui il plusvalore annidato nella merce non si realizza mediante (sottolineatura mia) la vendita di questa, ma scaturisce dalla (idem) vendita stessa” (Libro III, p. 63).
In un certo senso, è come se l’auto-rappresentazione della propria attività da parte del capitalista fosse rimasta in qualche modo “congelata” all’epoca in cui il capitale commerciale mediava lo scambio di prodotti fra comunità non sviluppate, epoca in cui “il profitto commerciale non solo appare come truffa, ma in gran parte ne deriva” (Libro III, p. 418). Non a caso, finché il capitalista si limita a coordinare il lavoro di una serie di piccoli produttori, raccogliendone e venendone i prodotti sul mercato, sulla sua testa pende il sospetto di arricchirsi allo stesso modo dei vecchi mercanti, i quali lucravano maggiorando il prezzo di vendita. Solo con lo sviluppo del capitale industriale nasce la consapevolezza del fatto che il valore della merce nasce nel processo di produzione. E tuttavia il ruolo del lavoro non retribuito nella sua creazione continua a essere ignorato: “Benché nasca nel processo di produzione immediato, l'eccedenza del valore della merce sul suo prezzo di costo viene realizzata solo nel processo di circolazione, ed è tanto più facile che essa sembri scaturire dal processo di circolazione” (Libro III, p. 69).
Spetta a Marx il merito di avere sottratto la merce alla dimensione trascendente in cui essa sembra aumentare da se stessa il proprio valore e di averla riportata sulla terra: “nel processo di circolazione non si produce nessun valore, quindi anche nessun plusvalore, si modifica soltanto la forma (sottolineatura mia) della stessa massa di valore (…) se nella vendita della merce prodotta viene realizzato un plusvalore è solo perché in essa questo valore esiste già” (Libro III p. 356). Ne consegue che “quanto maggiore è il capitale commerciale in rapporto al capitale industriale, tanto minore è il saggio di profitto industriale e viceversa” (Libro III , 365).
Ciò non implica che la circolazione non contribuisca ad accrescere – ancorché indirettamente – il profitto del capitale industriale: per esempio “più il tempo di circolazione scende più il capitale funziona e più la sua produttività e la sua automatizzazione aumentano” (Libro III, P. 158). Dopodiché resta il fatto che “le dimensioni assunte dallo scambio di merci in mano ai capitalisti non possono trasformare questo lavoro, che non crea valore, ma si limita a mediare un cambiamento di forma del valore, in lavoro che generi valore” (Libro II, p. 164). E poco dopo: “se mediante divisione del lavoro, una funzione in sé e per sé improduttiva, ma che costituisce un elemento necessario alla riproduzione, viene trasformata da occupazione sussidiaria di molti in occupazione esclusiva di pochi (...) non per questo il carattere della stessa occupazione muta” (Libro II, p. 165).
È vero che il capitalista commerciale si appropria di una quota di lavoro non retribuito dei suoi salariati, esattamente come fa il capitalista industriale, ma sfruttandoli il commerciante si limita ad assicurarsi una maggior quota di partecipazione al plusvalore creato dallo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale industriale. Ergo: il lavoro dei salariati dei capitalisti commerciali è improduttivo. Dopodiché Marx puntualizza che certi costi di circolazione “possono derivare da processi di produzione che si limitano a prolungarsi nella circolazione, e il cui carattere produttivo è quindi semplicemente nascosto dalla forma circolatoria” (Libro II, p. 172). In merito, cita l’esempio dell’industria dei trasporti, scrivendo che visto “che il valore d’uso delle cose non si realizza che nel loro consumo, e il loro consumo può renderne necessario il cambiamento di luogo” (Libro II, p. 187), ne deriva che l’industria dei trasporti va considerata come un processo di produzione aggiuntivo (per cui i salariati che vi lavorano vanno considerati produttivi).
3. Capitale commerciale e capitale finanziario. Lavoro produttivo e lavoro improduttivo
“[Nella misura in cui la produzione capitalistica si impadronisce della produzione sociale] le altre specie di capitale... non gli vengono solo subordinate e modificate nel meccanismo delle loro funzioni, ma non si muovono più che sulle sue basi... capitale denaro e capitale merce (in quanto esponenti di rami di affari propri) non sono ormai più che modi di esistere... delle diverse forme di funzionamento che il capitale industriale ora riveste e ora depone nella sfera della circolazione” (Libro II, p. 79).
Inauguro la terza tappa del viaggio attraverso i Libri II e III del Capitale con questo passaggio, già citato nella tappa precedente, perché ben chiarisce il punto di vista di Marx sulla posizione che capitale merce e capitale denaro occupano nella gerarchia fra le diverse modalità di esistenza del capitale in generale: nel suo modello teorico, queste due forme svolgono la funzione di “ancelle” del capitale industriale. Si tratta di un punto di vista cruciale ai fini della distinzione fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Al tempo stesso, si tratta di un punto di vista che, nella fase storica caratterizzata dal grande capitale monopolistico, terziarizzato e finanziarizzato, è al centro di critiche anche in campo marxista ma, prima di analizzare tali critiche, è opportuno approfondire il pensiero di Marx sull’argomento.
L’incapacità del capitalista (e degli economisti volgari) di comprendere il “mistero” del plusvalore, cioè del fatto che esso scaturisce dal tempo di lavoro non retribuito, argomenta Marx, fa sì che costoro attribuiscano alla sfera del commercio la capacità di creare ricchezza: “Al capitalista l’eccedenza del valore, o plusvalore, realizzata con la vendita della merce appare come eccedenza del suo prezzo di vendita sul suo valore, anziché come eccedenza del suo valore sul suo prezzo di costo, per cui il plusvalore annidato nella merce non si realizza mediante (sottolineatura mia) la vendita di questa, ma scaturisce dalla (idem) vendita stessa” (Libro III, p. 63).
In un certo senso, è come se l’auto-rappresentazione della propria attività da parte del capitalista fosse rimasta in qualche modo “congelata” all’epoca in cui il capitale commerciale mediava lo scambio di prodotti fra comunità non sviluppate, epoca in cui “il profitto commerciale non solo appare come truffa, ma in gran parte ne deriva” (Libro III, p. 418). Non a caso, finché il capitalista si limita a coordinare il lavoro di una serie di piccoli produttori, raccogliendone e venendone i prodotti sul mercato, sulla sua testa pende il sospetto di arricchirsi allo stesso modo dei vecchi mercanti, i quali lucravano maggiorando il prezzo di vendita. Solo con lo sviluppo del capitale industriale nasce la consapevolezza del fatto che il valore della merce nasce nel processo di produzione. E tuttavia il ruolo del lavoro non retribuito nella sua creazione continua a essere ignorato: “Benché nasca nel processo di produzione immediato, l'eccedenza del valore della merce sul suo prezzo di costo viene realizzata solo nel processo di circolazione, ed è tanto più facile che essa sembri scaturire dal processo di circolazione” (Libro III, p. 69).
Spetta a Marx il merito di avere sottratto la merce alla dimensione trascendente in cui essa sembra aumentare da se stessa il proprio valore e di averla riportata sulla terra: “nel processo di circolazione non si produce nessun valore, quindi anche nessun plusvalore, si modifica soltanto la forma (sottolineatura mia) della stessa massa di valore (…) se nella vendita della merce prodotta viene realizzato un plusvalore è solo perché in essa questo valore esiste già” (Libro III p. 356). Ne consegue che “quanto maggiore è il capitale commerciale in rapporto al capitale industriale, tanto minore è il saggio di profitto industriale e viceversa” (Libro III , 365).
Ciò non implica che la circolazione non contribuisca ad accrescere – ancorché indirettamente – il profitto del capitale industriale: per esempio “più il tempo di circolazione scende più il capitale funziona e più la sua produttività e la sua automatizzazione aumentano” (Libro III, P. 158). Dopodiché resta il fatto che “le dimensioni assunte dallo scambio di merci in mano ai capitalisti non possono trasformare questo lavoro, che non crea valore, ma si limita a mediare un cambiamento di forma del valore, in lavoro che generi valore” (Libro II, p. 164). E poco dopo: “se mediante divisione del lavoro, una funzione in sé e per sé improduttiva, ma che costituisce un elemento necessario alla riproduzione, viene trasformata da occupazione sussidiaria di molti in occupazione esclusiva di pochi (...) non per questo il carattere della stessa occupazione muta” (Libro II, p. 165).
È vero che il capitalista commerciale si appropria di una quota di lavoro non retribuito dei suoi salariati, esattamente come fa il capitalista industriale, ma sfruttandoli il commerciante si limita ad assicurarsi una maggior quota di partecipazione al plusvalore creato dallo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale industriale. Ergo: il lavoro dei salariati dei capitalisti commerciali è improduttivo. Dopodiché Marx puntualizza che certi costi di circolazione “possono derivare da processi di produzione che si limitano a prolungarsi nella circolazione, e il cui carattere produttivo è quindi semplicemente nascosto dalla forma circolatoria” (Libro II, p. 172). In merito, cita l’esempio dell’industria dei trasporti, scrivendo che visto “che il valore d’uso delle cose non si realizza che nel loro consumo, e il loro consumo può renderne necessario il cambiamento di luogo” (Libro II, p. 187), ne deriva che l’industria dei trasporti va considerata come un processo di produzione aggiuntivo (per cui i salariati che vi lavorano vanno considerati produttivi).
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L’autonomizzazione del capitale denaro in sfera d’affari indipendente (banche, capitale finanziario, assicurazioni, ecc.) è conseguenza del fatto che, per consentire al ciclo riproduttivo del capitale sociale di svolgersi senza intoppi, “una data parte del capitale deve sempre essere presente come tesoro, capitale denaro potenziale... capitale inoperoso [aggettivo da intendere qui nel senso di non investito nella produzione diretta] che attende in forma denaro d’essere fatto operare, e una parte del capitale rifluisce continuamente in questa forma” (Libro III p. 400). In tale veste di capitale possibile, cioè di potenziale mezzo per la produzione di profitto “esso diviene merce sui generis, il capitale come capitale diventa merce” (Libro III, p. 428).
La quota del proprio prodotto che il capitale industriale paga al “mercante di denaro” si chiama interesse e “non è se non il nome per una parte di profitto che il capitale in funzione deve cedere a colui che possiede il capitale possibile” (Ibidem). Qui non si tratta tanto di una fase del processo di riproduzione sociale quanto di un atto giuridico: “La transazione che trasferisce il capitale dalla mano del mutuante a quella del mutuatario è una transazione giuridica [che] non ha nulla a che vedere con il vero e proprio processo di riproduzione del capitale; [essa] non fa che introdurlo. Il rimborso (...) è una seconda transazione giuridica, il completamento della prima” (Libro III p. 439). Infine Marx introduce nell’analisi sulla funzione del denaro come capitale due sorprendenti metafore:
1) “è questo il valore d’uso del denaro come capitale (…) che il capitalista monetario aliena al capitalista industriale per il tempo in cui gli cede la facoltà di disporre del capitale prestato”;
2) “in questi limiti il denaro prestato ha una certa analogia con la forza lavoro nella sua posizione di fronte al capitalista industriale”.
Si tratta di due analogie che consentono di valutare l’importanza della forma logica (eredità hegeliana!) nel metodo analitico marxiano: la categoria di valore d’uso, che a noi pare strettamente associata alla dimensione “materiale-concreta” della merce, viene qui associata a un fenomeno “immateriale-astratto” come il capitale denaro, nella misura in cui quest’ultimo assume la natura di capitale-merce. Quanto alla paradossale analogia fra forza-lavoro e capitale prestato, si giustifica (sia pure con la precisazione “in questi limiti”) in base al fatto che entrambi – sia la forza-lavoro che il capitale prestato – possono produrre plusvalore solo nella misura in cui vengono impiegati nel processo produttivo immediato. Dopodiché è evidente come, nella realtà contemporanea, caratterizzata dai processi di terziarizzazione e finanziarizzazione del capitale, questa attribuzione logica di centralità assoluta al capitale industriale non può che fare problema (allo stesso modo in cui inizia a fare problema la distinzione fra lavoro produttivo e improduttivo). Prima di vedere come si è cercato di affrontare tali sfide, è però il caso di ricordare la straordinaria capacità profetica con cui Marx, anche se non ha previsto le dimensioni che la finanziarizzazione avrebbe assunto in futuro, ha descritto alla perfezione il “demone” che l’avrebbe alimentata.
Partiamo dalle seguenti affermazioni:
1) “Nel capitale produttivo d’interesse il rapporto di capitale giunge alla sua forma più alienata e feticistica D-D’ ” (Libro III p. 493);
2) “adesso il capitale è cosa, ma in quanto cosa è capitale. Ora il denaro ha l’amore in corpo” (Libro III, p. 496).
Quanto appena citato ci obbliga a ripartire dal feticismo della merce descritto nel Libro I: se già la merce in quanto tale è un fenomeno “sensibilmente sovrasensibile”, è un oggetto concreto che possiede un determinato valore d’uso ma è al contempo animato dal “fantasma” del valore di scambio, il capitale-merce (il capitale cosa) non può che essere depositario di un feticismo all’ennesima potenza. Un feticismo che vieta i tentativi di giustificare la produzione capitalistica attraverso la sua “utilità sociale”, nella misura in cui ne svela la vera essenza: “Appunto perché la forma denaro del valore è la sua forma fenomenica indipendente e tangibile, la forma D-D’(…) esprime nel modo più concreto il vero motivo animatore della produzione capitalistica (…) Il processo di produzione appare solo come inevitabile anello intermedio, male necessario allo scopo di far denaro, perciò tutte le nazioni a modo di produzione capitalistico sono prese periodicamente da una vertigine durante la quale pretendono di far denaro senza la mediazione del processo di produzione” (Libro II, p. 80).
Il rovesciamento dialettico non potrebbe essere più radicale: il processo di produzione, che l’analisi aveva posto al centro del processo di riproduzione sociale in quanto unico depositario della creazione di valore, si ritrova ridotto a “male necessario”, “anello intermedio” rispetto al vero scopo del capitalista: accumulare denaro. Qui non troviamo chiarito esclusivamente il presupposto di ciò che Giovanni Arrighi (1) e altri autori descrivono analizzando storicamente i corsi e i ricorsi delle “migrazioni” del capitale, dalla produzione industriale alla finanza e viceversa, troviamo anche una visionaria anticipazione della cosiddetta “economia del debito”: “nel modo di ragionare del banchiere i debiti possono apparire come merci” (Libro III, p. 589): e ancora: “nel fatto che persino l'accumulazione dei debiti possa apparire come accumulazione di capitale, si manifesta in forma estrema il capovolgimento che ha luogo nel sistema creditizio” (Libro III, p. 692); nonché delle bolle speculative come causa delle crisi finanziarie: “il valore dei titoli diventa speculativo quando esprime il provento atteso e non attuale” (Libro III, p. 592), e se l’attesa del mondo virtuale viene smentita dal mondo reale…
Ma è il momento di riprendere il ragionamento sull’arduo problema di distinguere fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo.
*****
Mi tocca iniziare con una autocritica retrospettiva. Esattamente quarantacinque anni fa, nel 1980, usciva per i tipi di Feltrinelli il mio primo lavoro teorico degno di essere definito tale: Fine del valore d’uso. Riproduzione, informazione, controllo. Oggi confesso di considerare quello scritto un evidente esempio di interpretazione errata del problema della distinzione fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo.
Anche allora il mio ragionamento aveva preso le mosse dall’approccio marxiano al tema nei Libri II e III del Capitale, approccio che mi era parso insostenibile alla luce delle profonde trasformazioni che il modo di produzione capitalistico aveva subito transitando dal capitalismo libero concorrenziale ottocentesco al capitalismo monopolistico, terziarizzato e finanziarizzato. Per aggiornare l’analisi alla nuova realtà sistemica, avevo azzardato una triplice operazione. In primo luogo, avevo cercato, per parafrasare il titolo di un libro di Antonio Negri (2), di giocare Marx contro Marx, contrapponendo le tesi che lo stesso Marx aveva formulato in alcuni passaggi del Capitolo VI inedito (3) e dei Grundrisse (4) a quelle del Capitale; inoltre, impressionato dall’esperimento di riorganizzazione produttiva della IBM (5), che a quei tempi dominava il mercato mondiale dell’informatica (di qui il motivo del sottotitolo ), ne avevo dedotto l’esistenza di quelle tendenze che, di lì a qualche anno, ci avrebbero indotto a ragionare di una terza rivoluzione industriale; infine mi ero lasciato suggestionare da Jean Baudrillard (6), autore che in quegli anni andava profetizzando la progressiva marginalizzazione della produzione di oggetti-merce da parte della produzione di servizi e codici immateriali. Ma procediamo con ordine.
Il modo in cui era organizzato il ciclo produttivo della IBM mi era sembrato confermare che il grande capitale monopolistico tendeva a impiegare una quota sempre più esigua di classe operaia tradizionale, a fronte di una massa crescente di forza lavoro impiegatizia. Marxisti come Braverman ne deducevano il seguente scenario: “Ogni progresso nel campo della produttività restringe il campo dei veri lavoratori produttivi, amplia quello di chi può essere utilizzato nelle lotte fra le grandi imprese per la distribuzione delle eccedenze, espande l’impiego del lavoro in occupazioni di spreco (…) e conferisce alla società l’aspetto di una piramide rovesciata che poggia su una base di lavoro utile sempre più ristretta”(7).
Questo scenario – al pari di quello formulato da tutti gli autori che parlano di “fine del lavoro” (8) – rischia di apparire semplificatorio:
1) ove non venga letto da un punto di vista comparativo, tenendo cioè conto del fatto che la categoria di “lavoro utile” assume significati diversi in sistemi sociali diversi (come fanno Baran e Sweezy, dei quali ci occuperemo fra breve);
2) ove non venga inquadrato nell’analisi complessiva del sistema-mondo. In ogni caso, nel mio lavoro liquidavo il concetto di lavoro “veramente produttivo” in quanto suonava rozzamente “materialista”, opponendogli l’interpretazione di Negri – da me allora condivisa –, il quale, sfruttando i sopra evocati passaggi del Capitolo VI inedito e dei Grundrisse, scriveva: “l’appropriazione capitalistica della circolazione (…) determina la circolazione come base della produzione e della riproduzione, fino a un limite di identificazione storica, effettiva (anche se non logica) di produzione e circolazione” (9). Il che, ove applicato alla questione della composizione di classe, implica arruolare d’ufficio nel campo del lavoro produttivo tutto il lavoro terziarizzato (nonché eleggerlo, come di lì a poco avrebbero fatto i teorici post operaisti seguaci di Negri, a nuova avanguardia rivoluzionaria).
Scrivevo inoltre che “indifferente è il contenuto materiale del lavoro rispetto al suo carattere di lavoro produttivo, alla sua funzione di agente valorizzante interno al capitale. Produttivo è dunque il lavoro che si scambia contro capitale, senza relazione ai contenuti concreti dell’attività” (10), e fin qui posso ancora essere d’accordo con il me stesso di allora (salvo precisare che i contenuti concreti non sono sempre e comunque indifferenti), ma purtroppo proseguivo poi affermando che “improduttivo è quel lavoro che non si svolge in forma specificamente capitalistica, che non produce profitto per un capitale”, il che voleva dire definire improduttivi quelle centinaia di milioni di lavoratori che vengono sfruttati nel Sud del mondo perché non lavorano in forma specificamente capitalistica, nel senso che non sono direttamente impiegati dalle grandi imprese metropolitane, dopodiché generano una quota gigantesca di surplus senza il quale queste ultime non durerebbero un giorno!
Oggi posso parzialmente assolvermi evocando i condizionamenti di uno spirito del tempo che, in quegli anni, era caratterizzato:
1) dal fatto che la sinistra radicale post sessantottina - esauriti gli entusiasmi per il Vietnam e la Rivoluzione Culturale cinese – aveva rimosso le lotte antimperialiste del Sud del Mondo per concentrasi esclusivamente sulle metropoli “avanzate” (basta con il terzomondismo, la nostra lotta è qui, era la parola d’ordine);
2) dall’autoincensamento sociologico delle sinistre radicali partorite dalle lotte studentesche, le quali, superati i complessi d’antan per le proprie origini piccolo borghesi, avevano eletto ad avanguardie rivoluzionarie gli strati professionali emergenti – cioè loro stessi! – impegnati nei lavori “creativi” e nella produzione “immateriale” (11).
*****
Alessandro Visalli considera Paul Baran e Paul Sweezy i due autori che, già negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta (12), hanno inaugurato una linea di interpretazione che considera il capitalismo come un sistema sociale nel quale la valorizzazione deriva da produzione e circolazione su basi internazionali. L’elemento caratterizzante di tale approccio consiste nell’approfondire la critica all’imperialismo, al colonialismo e al neocolonialismo, identificandoli con quel fenomeno – la cosiddetta accumulazione originaria – che Marx considerava tipico di una determinata fase storica, laddove questi autori lo ritengono consustanziale al modo di produzione capitalistico, il quale lo sfrutta come controtendenza alla caduta tendenziale del saggio di profitto. Approfondiremo l’argomento più avanti, nella tappa dedicata alla legge della caduta del saggio del profitto e alle crisi. Qui ci limitiamo a introdurre il concetto di surplus e a descrivere come tale concetto influisce sull’argomento che stiamo trattando qui, cioè la distinzione fra lavoro produttivo e improduttivo.
Marx identifica il plusvalore come somma di profitto, interesse e rendita, mentre considera secondari fattori quali le entrate dello stato, i salari dei lavoratori improduttivi, gli sprechi di vario tipo, ecc. Ma ciò non è più giustificato, sostengono Baran e Sweezy, nella fase del capitalismo monopolistico. Rispetto al surplus complessivo – definito come la differenza fra la produzione effettiva corrente e il consumo effettivo corrente della società – il plusvalore rappresenta una quota proporzionalmente minore – e tendenzialmente in diminuzione – rispetto all’epoca di Marx. E, dal momento che il surplus misurato come sopra tende ad aumentare, esso agisce come controtendenza rispetto alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. Come anticipato poco sopra, affronteremo le implicazioni di quanto appena detto quando parleremo di crisi, imperialismo ecc. Restando al modo in cui Marx distingue fra lavoro produttivo e improduttivo, cosa cambia introducendo il concetto di surplus?
A prima vista nulla. I capitalisti continuano a ignorare la differenza fra costi di produzione e costi di vendita e fra lavoro produttivo e improduttivo: per costoro essi contribuiscono entrambi a generare i loro profitti. Sappiamo però che il sistema tende a dilatare a dismisura attività quali promozione delle vendite, pubblicità, packaging, marketing, obsolescenza programmata, credito al consumo ecc.; che proliferano i ceti professionali che hanno il compito di promuovere una guerra senza quartiere al risparmio a favore del consumo, inventando continuamente nuovi bisogni ed alimentandone la soddisfazione attraverso il debito. Sullo stesso piano della promozione delle vendite “va posto l’incanalamento di un ampio volume di risorse negli impieghi sotto la voce di attività finanziarie, assicurative e immobiliari” (13). Marx, ricordano Baran e Sweezy, descriveva tutta questa gente come “una nuova aristocrazia finanziaria, una nuova categoria di parassiti nella forma di escogitatori di progetti,di fondatori e direttori che sono tali semplicemente di nome, tutto un sistema di frodi e di imbrogli che hanno per oggetto la fondazione di società, l’emissione e il commercio di azioni” (14).
Anche per Baran e Sweezy, come per Marx, questo processo, che oggi siamo abituati a definire terziarizzazione del lavoro, appare come proliferazione di ceti “divoratori di surplus”, e dunque anche per Baran e Sweezy, le persone che vivono di surplus “son private di una quota dei loro redditi che vanno alle persone che svolgono lavori improduttivi” (15). Come sottrarsi all’obiezione di Negri e altri i quali ribattono che la distinzione si basa su argomenti puramente logico-linguistici, dal momento che le funzioni appena descritte sono ormai talmente integrate nei processi produttivi da fare tutt’uno con essi (più che una merce non compriamo ormai solo l’immagine di questa merce che è stata costruita dal lavoro di pubblicitari, uomini marketing, ecc., non compriamo forse i prodotti Apple per il loro design piuttosto che per la loro presunta superiorità tecnologica?). E come rispondere all’obiezione secondo cui produttivo è il lavoro che si cambia contro capitale, a prescindere dai contenuti concreti dell’attività svolta?
È qui che scatta l’argomento comparativo: per Baran e Sweezy il termine di paragone che consente di sciogliere il dubbio è il socialismo: è improduttivo “tutto quel lavoro che ha come risultato la produzione di beni e servizi la cui domanda si possa attribuire alle condizioni e ai rapporti specifici del sistema capitalistico e che sarebbe assente in una società razionalmente ordinata” (16) cioè in una società socialista. E tuttavia è proprio la massa di surplus di cui si appropriano le schiere sempre più numerose di lavoratori improduttivi che consente, grazie ai loro consumi, di limitare parzialmente gli effetti della cronica tendenza del capitalismo monopolistico alla sottoutilizzazione delle risorse umane e materiali. Parzialmente perché, se fossero disponibili solo questi sbocchi endogeni, il capitalismo monopolistico sarebbe in uno stato di depressione permanente (17). La vera soluzione restano dunque l’imperialismo e la guerra.
Note
(1) Cfr. G. Arrighi., Il lungo ventesimo secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, il Saggiatore.
(2) Cfr. A. Negri, Marx oltre Marx, Feltrinelli, Milano 1979.
(3) Cfr. K. Marx, Il Capitale. Libro I, capitolo VI inedito, La Nuova Italia, Firenze 1969.
(4) Cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 2 voll. La Nuova Italia, Firenze 1969.
(5) Ebbi occasione di analizzare le strategie organizzative della IBM studiando alcuni documenti che mi furono consegnati dai delegati sindacali dell’azienda, con i quali ero in contatto in quanto responsabile provinciale per i tecnici e gli impiegati della Federazione dei Lavoratori Metalmeccanici. Grazie a quella esperienza, mi feci un’idea molto precisa in merito all’impatto che il diffondersi delle reti informatiche nelle grandi aziende avrebbe avuto sull’organizzazione del lavoro tecnico-impiegatizio, e sulle trasformazioni della composizione di classe, allora già in atto. Le mie previsioni sul processo di terziarizzazione del lavoro nei Paesi industriali avanzati, sbeffeggiate da alcuni recensori “ortodossi”, si rivelarono profetiche ancorché pessimiste per difetto, nel senso che l’impatto delle nuove generazioni di computer e dell’avvento di Internet sarebbe stato ancora più radicale. A mano a mano che gli effetti devastanti della rivoluzione digitale sui rapporti di forza fra lavoro e capitale si facevano evidenti, la mia posizione si allontanò sempre più dall’ottimismo degli apologeti del postfordismo, i quali ritenevano che le nuove tecnologie offrissero inedite opportunità di democrazia, se non addirittura di superamento del capitalismo. Le mie critiche a tale visione super ottimistica esordirono con Incantati dalla Rete (Cortina 2000), in cui mettevo in luce la relazione fra le nuove sinistre “californiane” e i deliri transumanisti dei guru della Silicon Valley; proseguirono con Mercanti di futuro. Utopia e crisi della Net Economy (Einaudi 2002), in cui analizzavo le strategie di dominio e sfruttamento messe in atto dai giganti dell’economia digitale; Felici e sfruttati (Egea 2011), in cui criticavo il mito del “lavoro creativo”; per culminare con Utopie letali (Jaka Book 2013) una sorta di de profundis dedicato al tragico fallimento delle illusioni alimentate dalle sinistre postmoderniste.
(6) Cfr. J. Baudrillard, Critica dell’economia politica del segno, Mazzotta, Milano 1974.
(7) H. Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1978, p. 206.
(8) Cfr. J. Rifkin, La fine del lavoro, Mondadori.
(9) Marx oltre Marx, cit., p, 122. Quella parentesi (anche se non logica) evidenzia l’influenza althusseriana sul pensiero di Negri, in quanto fa capire che i presunti limiti dell’analisi marxiana vengono attribuiti all’eredità “idealista” della logica hegeliana.
(10) Nel libro Socialist Economic Development in the XXI Century (Routledge) Gabriele e Jabbour affermano qualcosa di simile: “Il processo di terziarizzazione tende a far ritenere che la maggior parte dei lavoratori delle imprese private in Usa e nei Paesi avanzati siano improduttivi. Non condividiamo, consideriamo produttive tutte le attività (...) che generano plusvalore” (p. 63). Questa posizione, analoga a quella che il sottoscritto sosteneva nel 1980, mi sembra in contraddizione con le tesi che questi due autori avanzano in merito alla convivenza conflittuale fra modo di produzione capitalistico e paesi in transizione verso il socialismo (vedi la tappa precedente di questo percorso). Come non tener conto (cfr. le tesi di Baran e Sweezy) del fatto che i concetti di produttivo e improduttivo cambiano a seconda del contesto socioeconomico cui si riferiscono, ma soprattutto come non tener conto del punto di vista socialista, che giudica improduttivo gran parte del lavoro terziarizzato delle imprese private occidentali?
(11) Come ho argomentato in tutti i miei lavori citati in nota 5, considero privo di qualsiasi fondamento il concetto di lavoro “immateriale”, elaborato dalla cultura postmodernista, caro ad autori come André Gorz (Cfr. L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003) e altri. Il concetto è presumibilmente ispirato dalla metafora partorita da certi studiosi dei sistemi complessi (in particolare nel campo delle neuroscienze) che hanno stabilito un’analogia fra le coppie mente-corpo e software-hardware. Posto che nemmeno la produzione di software, algoritmi, codici informatici ecc. può a mio avviso essere considerata immateriale, visto che spreme la fatica di sensi, nervi, cervelli, occhi, mani, ecc. di milioni di lavoratori, la retorica dell’immateriale è palesemente delirante ove riferita all’hardware. Dopo avere giustamente osservato che tale retorica si inscrive in quella “cultura del post”, adottata da una certa sinistra infatuata del presunto ruolo progressivo delle nuove tecnologie, Fabien Lebrun (Barbarie digitale, Ed. L’Échappée) snocciola i seguenti dati: i 34 miliardi di dispositivi digitali che esistono oggi sulla terra pesano 220 milioni di tonnellate, uno smartphone contiene cinquanta metalli diversi e, se si aggiungono le infrastrutture necessarie a far funzionare reti e terminali, è evidente quanto sia paradossale il concetto di “dematerializzazione”. Di più: questa retorica suona come un insulto ai milioni di lavoratori congolesi e di altri Paesi del Sud del mondo, ridotti in condizioni di semi schiavitù per estrarre dalla terra le risorse necessarie ad alimentare la cosiddetta economia “immateriale”. Quanto al presunto ruolo antagonistico dei lavoratori creativi, fa fede la spietata analisi di Boltanski e Chiapello (Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis), i quali dimostrano come, venuta meno la spinta delle lotte operaie, i "reduci" delle lotte studentesche del 68 abbiano abbandonato la critica sociale per dedicarsi alla "critica artistica", vale a dire alle generiche istanze anti autoritarie dei "nuovi movimenti", che non solo sono state facilmente riassorbite dal sistema capitalistico, ma si sono convertite in efficienti strumenti di controllo e gestione degli strati superiori della forza-lavoro
(12) Cfr. P. Baran, Il “surplus” economico e la teoria marxista dello sviluppo, Feltrinelli, vedi anche P. Baran e P. Sweezy, Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura economica e sociale americana, Einaudi, Torino 1968.
(13) Il capitale monopolistico... cit., p. 119.
(14) Citato in P. Baran, P. Sweezy, op. cit., p.120.
(15) Ivi, p. 107.
(16) La differenza appare più chiara laddove Baran (Il “surplus”, cit.) mette in opposizione surplus economico effettivo (la differenza tra produzione effettiva corrente e il consumo effettivo coerente della società) e surplus potenziale, ovvero il surplus realizzabile ove non fosse limitato da eccesso di consumi, perdita di produzione dovuta a lavori improduttivi (sottolineatura mia), organizzazione irrazionale del sistema, disoccupazione dovuta all’anarchia capitalistica e all'insufficiente domanda effettiva. In poche parole : è improduttivo il lavoro che appare tale al punto di vista di una società razionale, cioè socialista.
(17) Questo è il tema della critica di Rosa Luxemburg agli schemi marxiani della riproduzione allargata. Ma di ciò più avanti.
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