Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

22/04/2025

“Gingoismo”, una categoria perduta per indagare l’imperialismo di oggi

Quello che state per leggere non è una trattazione sistematica, ma è più un amo gettato nel mare di uno scenario politico in subbuglio. Le coordinate del mondo che siamo stati abituati ad avere di fronte negli ultimi trent’anni sono state scompaginate da eventi che, senza tanti dubbi, verranno registrati dai futuri storici come passaggi epocali.

Nel mezzo di questa tempesta, che di certo fa sentire spaesate tante persone, è utile non lasciarsi trascinare dal flusso della storia, ma fermarsi un attimo e darsi il tempo per ragionare sui caratteri dei fenomeni che abbiamo di fronte. E quando parlo di storia parlo ovviamente dal punto di vista di una concezione materialistica di essa.

Significa, insomma, partire dallo stadio attuale, storicamente determinato, di quel rapporto sociale che prende il nome di Capitale. Lo stadio che è denominato come “imperialistico”, aggettivo usato nell’accezione del famoso saggio popolare di Lenin del 1916, bussola per comprendere le ragioni strutturali della Prima guerra mondiale.

Non ripercorro qui la teoria leniniana dell’imperialismo, e darò per scontato che la sua adozione venga considerata adeguata a spiegare il presente. Del resto, sentiamo in continuazione fare paragoni con l’epoca di oggi, e i termini impero e sfera di influenza sono tornati di moda, e allora qualche motivo ci dovrà pur essere.

Taglierò qui con l’accetta per dire solo ciò che mi è necessario: è una teoria economica che spiega perché il capitale finanziario monopolistico sostiene la mondializzazione e, dunque, la diffusione dei suoi meccanismi ovunque. E, allo stesso tempo, alimenta la competizione per l’accaparramento di nuovi mercati e crea le condizioni per la guerra.

Ci spiega, insomma, perché la globalizzazione non era “la fine della storia”, ma lo stadio antecedente alla frammentazione del mercato mondiale e alla feroce lotta tra gruppi monopolistici per garantirsi la capacità di valorizzare il proprio capitale ancora e ancora, senza fine. Senza l’imperialismo non possiamo capire dove siamo nella storia.

Partendo da questo presupposto, voglio provare a gettare un amo, come ho detto, che sia un invito magari non alla discussione, ma almeno al ragionamento di chi legge sul fatto che il recupero del dibattito sull’imperialismo ci aiuta ancora oggi a leggere alcuni fenomeni. Tutto il dibattito, a partire dai testi di John Atkinson Hobson.

Hobson era un economista inglese, autore del testo del 1902 dal titolo Imperialism: A Study in cui vi sono già gli elementi fondamentali di analisi del capitale monopolistico che poi Lenin farà propri. Uno studio che viene pensato sull’onda lunga della Seconda guerra boera, in cui l’impero britannico annesse ampie parti dell’attuale Sudafrica.

Un passaggio della “compiuta spartizione della terra”, come ebbe a dire Lenin della fase imperialistica, a cui Hobson assistette in prima persona in qualità di giornalista per il Manchester Guardian. E da cui trasse le osservazioni che usò per stendere un saggio, nel 1901, dal titolo The Psychology of Jingoism.

Ci sono dei termini che, a usarli oggi, non si può che ricevere uno sguardo interrogativo. Uno di questi è certamente gingoismo, che era però abbastanza diffuso all’inizio del secolo scorso, se gli si poteva dedicare senza problema un saggio. La mia intenzione è quella di recuperarlo perché, anche se ormai dimenticato, può risultare ancora utile.

Infatti, una cosa che ha sicuramente colpito di più nel turbinio di questi mesi è stata la facilità con cui la guerra e la bellicosità siano tornate ad essere dei valori da rivendicare in realtà sociali che, seppur sappiamo bene solo di facciata, le avevano trasformate in una sorta di ‘peccato originale’.

Recuperare la categoria di gingoismo serve proprio a dare spiegazione alla facilità con cui, dopo anni di crisi e austerità, è stato accettato un piano di riarmo colossale senza tante fibrillazioni in ampi settori politici e sociali. Allo stesso tempo, come siamo arrivati alla piazza di Michele Serra e all’elogio dei guerrieri fatto da Antonio Scurati.

Col gingoismo incontriamo anche il suprematismo del ‘professore’ Roberto Vecchioni. Soprattutto, capiamo come tutti questi fenomeni – possiamo dire disturbanti – siano frutto della fase imperialistica del capitale. Dello scontro per la spartizione del mondo tra trust monopolistici e della legittimazione di esso inculcata alle classi popolari.

Prima di entrare nel cuore della questione, alcune premesse. Come ho detto, non sarà questa una trattazione sistematica, ma piuttosto sarà l’attività preliminare di spiegare cosa sia il gingoismo, di evidenziarne alcuni caratteri e di cercare dei punti di contatto tra le forme con cui venne descritto in passato e quelle in cui oggi si attualizza.

Non ho nessuna pretesa di trattazione scientifica, se intendiamo con essa l’adesione ai metodi e ai crismi di una disciplina. Il tentativo è semmai quello di riconoscere nella categoria di gingoismo un fondo di verità riguardante l’imperialismo, che nel divenire della storia oggi si mantiene, anche se si manifesta in forme in parte differenti.

Se volessi dirla in maniera elaborata, direi che mi rifaccio a un processo dialettico per conoscere, all’Aufhebung del gingoismo di inizio Novecento per capire il gingoismo di inizio nuovo millennio. Che non ha ancora un nome, ma che nel superamento di alcune sue determinazioni precedenti racchiude ancora una realtà sull’imperialismo.

Ma scomodare Hegel è troppo: per dirla più semplice, voglio proporre una riflessione, magari anche poco rigorosa, che però possa aiutare a criticare il presente e, soprattutto, a interrogarsi sulla natura dell’imperialismo del XXI secolo, in quanto nemico principale del Socialismo del XXI secolo. Partiamo dall’origine stessa della parola gingoismo.

Nell’introduzione della traduzione italiana del saggio di Hobson in merito1, scritta da Renato Monteleone, tra i più attenti commentatori delle teorie sull’imperialismo, alla prima pagina c’è scritto che il termine gingoismo è nato in ambito britannico ai tempi della guerra russo-turca del 1877.

Per difendere gli interessi della Corona di Londra dall’espansione dell’influenza russa nei Balcani e soprattutto verso il Mediterraneo, il Regno Unito avrebbe mandato la sua flotta nel Mar di Marmara. Nel frattempo, a sostenere l’intervento militare era partita una imponente campagna per influenzare l’opinione pubblica.

In un clima di “eccitazione sciovinista”, come scrive Monteleone, si diffuse una canzone di G. W. Hunt che faceva “We don’t want to fight / but, by Jingo, if we do / we’ve got the men / we’ve got the ships / we’ve got the money too”. È dall’intercalare “by Jingo” che nasce il termine gingoismo.

L’etimologia di “Jingo” rimane dubbia, e forse è solo un “per Giove” o un altro modo per dire “Jesus” senza nominare il nome di dio invano, come lo è “geez”. Scrive Monteleone che la canzone riscosse “lo stesso consenso popolare che accompagnò in quegli anni la politica estera del governo Disraeli”.

L’“eccitazione sciovinista” è il contesto che la lettura di questo articolo su Contropiano mi ha ricordato, e che mi ha spinto a scrivere questa riflessione sentendo la necessità di sviscerare meglio l’attuale consenso popolare a una politica estera aggressiva, non di Disraeli ma di Bruxelles, questa volta.

Come si capisce dal titolo originale del saggio di Hobson, il gingoismo è una categoria di analisi psicologica, non economica. Per l’esattezza, di psicologia delle masse. Ma ha la fondamentale relazione con l’azione degli “apparati ideologici” che vogliono arrivare a “ottenere le desiderate reazioni di tipo gingoista”2.

Il gingoismo è la descrizione del riflesso psicologico di massa, indotto dagli strumenti dell’ideologia imperialista, di adesione al suo avventurismo bellico. È la determinazione specifica del termine in relazione all’imperialismo, così come le opportunità che offre nel condurre la battaglia ideologica che mi hanno spinto a recuperarlo.

Dai primi studi sulla psicologia gingoista apparsi alla fine dell’Ottocento, Monteleone ricava due elementi: “il gingoismo è una forma molto particolare (colonial-imperialista) di sciovinismo che si manifesta socialmente come fenomeno di natura popolare-proletaria”.

E si fonda sulla “partecipazione emozionale a una prova di forza abbastanza violenta”. Ma è un altro il connotato specifico del gingoismo, ciò che “ne fa una categoria separata da quelle più generiche di nazionalismo e di sciovinismo: cioè l’estraneità (ma spesso solo presunta) rispetto al campo e ai protagonisti della contesa”3.

Come diceva la canzone di Hunt, “noi non vogliamo combattere”, ma se costretti siamo pronti a farlo! Possiamo cominciare a notare alcune somiglianze col presente. La guerra in Ucraina è presentata come una questione estranea alla UE, la quale però, per difesa di ‘democrazia’ e per fermare l’espansionismo russo, è pronta ad armarsi.

Un capitolo del saggio sul gingoismo aiuta ad approfondire il discorso. Hobson discute della teoria dell’“inevitabilità” in politica, ovvero dei ‘destini manifesti’ e delle ‘missioni civilizzatrici’ che nutrono una “storia pseudoscientifica” che non vede applicata “la moderna nozione di causalità per ribadire come conviene la responsabilità umana”.

“Le sole cause direttamente efficienti nella storia sono i movimenti umani”4. Non può sorprendere che le opere di chi pensava così risultassero interessanti al materialista storico che era Lenin. Anche qui, il parallelismo con la retorica di Borrell sulla distanza tra il “giardino” europeo e la “giungla” viene naturale.

Rimanendo collegati a questo tema, riportiamo un altro passaggio di Monteleone, e da qui in avanti saranno più ampi gli stralci riportati in maniera integrale, dato che in molti casi non ci sarà bisogno di tante spiegazioni: sembrerà di star leggendo le notizie della nostra attualità.

“Quando nei decenni a cavallo [tra Ottocento e Novecento], sotto la spinta delle tendenze protezionistiche e del processo di concentrazione produttiva e finanziaria, la politica imperialista degli Stati assunse la forma e il ritmo febbrile di una spartizione e chiusura delle aree economiche ancora disponibili, sul terreno di una cultura attivistico-irrazionalista fiorì una letteratura politica” a supporto dell’imperialismo.

Le tematiche erano sostanzialmente quattro:
1) economica, per cui il controllo delle materie prime e di aree di esportazione di capitali è considerato un presupposto del benessere collettivo;
2) politica, “che destina i paesi tagliati fuori dalla spartizione coloniale a una fatale decadenza al rango di potenza inferiore”;
3) umanitaria, che esalta la missione civilizzatrice su popoli primitivi e sanguinari;
4) demografica, che presenta le colonie come lo sbocco naturale delle eccedenze demografiche5.

Tolto l’ultimo punto, tutti gli altri sono facilmente riscontrabili nell’interesse ribadito più volte dalla UE e dall’Italia per l’Africa, per le materie prime, dalle opinioni di Galli Della Loggia (su cui torneremo) o di Rampini, il cui pensiero può essere riassunto usando un famoso detto: “l’iPhone val bene i genocidi coloniali”.

O ancora, dalle parole di quella esponente PD per cui il massacro di bambini palestinesi uccisi nel genocidio perpetrato da Israele sono il frutto della cultura di Hamas, che è poi in sostanza tarata dal suo essere mediorientale. Qui ci fermiamo un attimo per rendere conto di alcune differenze, o almeno specificità da indagare, rispetto al passato.

Abbiamo detto che nella vulgata di oggi a sostegno dell’imperialismo non compare la questione demografica. La transizione epidemiologica, quella sanitaria e infine quella demografica, appunto, hanno semmai ribaltato il nodo, con masse di persone senza futuro che fuggono verso le cittadelle imperialiste.

Questo è un cambiamento in alcuni caratteri della propaganda imperialista che deve sostenere l’animo gingoista facilmente comprensibile, e che non mette in crisi né tale categoria né tantomeno l’imperialismo stesso. Ma se parliamo della funzione di quelli che dovrebbero essere i rappresentati politici dei settori popolari, serve qualche parola.

Monteleone afferma che ci sono due modi di intendere il gingoismo: quello “popolare”, che è “un’attitudine indotta delle classi medie e inferiori”; quello “proletario”, cioè “una distorsione ideologico-politica che riguarda espressamente ambiti e settori più o meno vasti delle classi lavoratrici, operaie e contadine”6.

Lo stesso Monteleone riconosce che è stato interpretato a volte più in una direzione, a volte più in un’altra, e che per alcuni pensatori ha pesato su di una piuttosto che su di un’altra classe sociale. Ovviamente, quello che in una trattazione preliminare è bene fare è andare a vedere l’interpretazione di Lenin.

Quello che il rivoluzionario russo chiama “sciovinismo coloniale” ha una base materiale ristretta ma ben definita, che è in sostanza quella dell’aristocrazia operaia. Parliamo di quella parte di proletariato che si avvantaggiava della divisione internazionale del lavoro che li vedeva raccogliere qualche briciola rispetto ai milioni di sfruttati nelle colonie.

Ma parliamo anche di quei funzionari di partito e sindacato burocratizzati o di estrazione borghese “più inclini a farsi promotori o tramiti di ibridazioni culturali e ideologiche più o meno consapevoli”. Nel 1920 Lenin disse al Comintern: “il gingoismo e lo sciovinismo dell’aristocrazia operaia […] costituiscono il maggior pericolo per il socialismo”7.

Ora, quello che va tenuto a mente è la stretta correlazione che, tra la categoria socio-economica di aristocrazia operaia e quella psicologica di gingoismo, vede Lenin. Non abbiamo più i partiti operai borghesi, le socialdemocrazie di inizio Novecento, come la composizione di classe non è più quella di quando il fordismo si andava affermando.

Tuttavia, è possibile osservare la retorica gingoista nei "partiti della ZTL" e la presa di tale retorica in settori intellettuali che temono la proletarizzazione, e che quindi hanno tutto da guadagnare dalla rapina da perpetrare su nuove ‘colonie’ e sui ‘nemici’. Ceti medi un po’ attempati, che non finirebbero di certo in prima linea in avventure militari.

Ma forse la presa gingoista la troviamo anche nei nuovi operai della conoscenza, giovani e cresciuti con il mantra dell’Unione Europea come garante di pace. E forse, invece, c’è maggiore ostilità in settori che in qualche misura potremmo definire abbrutiti dalla crisi e in quelli pienamente sottoproletari.

Ciò che voglio evidenziare non è una ulteriore sovrapposizione col passato, ma semmai interrogarmi in che misura essa è possibile. D’altronde, lo stesso Monteleone riconosce che nel 1980 si era lontani da un’analisi esauriente del gingoismo e delle interpretazioni date. Oggi che il termine è stato dimenticato lo siamo ancora di più.

Il punto è che, se un’infarinatura preliminare sul gingoismo può aiutare a recuperare un dibattito utile perché sembra ancora oggi capace di descrivere alcuni fenomeni, il vero compito che ci spetta è quello di comprendere a pieno le ‘masse’ e i suoi rappresentanti politici nella configurazione dell’imperialismo del XXI secolo, per attualizzarlo.

Mi avvio verso l’ultimo nucleo di questa analisi, meritevole di essere riportato perché, appunto, pone in risalto dei meccanismi fondamentali del ‘gingoismo europeista’ che si sono rivelati in tutta la loro evidenza nelle ultime settimane. E che quindi ci indicano anche quali apparati ideologici dell’imperialismo continentale combattere.

Riprendiamo direttamente Hobson, e questa volta proprio lo studio sull’imperialismo del 1902 nell’edizione italiana curata nel 1996 da Luca Meldolesi per i Grandi Tascabili Economici Newton. Nel testo, l’economista inglese “collega decisamente il fenomeno gingoista all’opera mistificatrice della propaganda imperialista”8.

Leggiamo: “c’è naturalmente molto più di questo nella psicologia dell’imperialismo, ma questi sono i due fatti principali: da una parte, l’abitudine e la capacità di sostituire alla nuda realtà nozioni vaghe e decorative, frutto di «parole mascherate», e, dall’altra, il genio innato o acquisito dell’incoerenza”.

“[...] L’imperialismo si basa su una continua deformazione dei fatti e delle cose, principalmente attraverso un processo di selezione, esagerazione o attenuazione molto raffinato, diretto da cricche e persone interessate a distorcere il volto della storia”. Tale cricca ricerca “il sostegno attivo ed entusiastico del corpo di una nazione”9.

L’ideologia imperialista fa leva su vari terreni per assicurarsi il citato sostegno, e bisogna dire che Hobson trova collegamenti oggi piuttosto dubbi. Come, ad esempio, un legame con la primitiva fame di ampie terre delle comunità di cacciatori-raccoglitori, che viene trasformata oggi in “spirito d’avventura” verso l’estero e in agonismo sportivo in patria.

Riporto il tema perché è nella sua trattazione che per Monteleone compare quella che individua come “diagnosi” di gingoismo secondo Hobson. Da sottolineare che, se non avessimo questa doppia traduzione, non potremmo individuare il passaggio nel testo curato da Meldolesi, dove “gingoismo” è tradotto come “sciovinismo”.

“Il gingoismo è né più né meno che la smania, non nobilitata da alcuno sforzo o rischio o sacrificio personale, dello spettatore che gioisce dei pericoli, delle sofferenze e dello sterminio di fratelli che non conosce, ma di cui brama la distruzione in preda a cieco impulso di odio o di vendetta suscitato artificiosamente”10.

Molto interessante, in questa definizione, è che viene sottolineato che al gingoismo non si associa alcun vero o ipotetico impegno personale nella guerra. Tale spinta militarista viene individuata come propria della “parte non-combattente della nazione”. Ovvio che tale parte è composta, per eccellenza, da chi va oltre i limiti di età per l’arruolamento.

“La drammatica falsificazione – dice Hobson – sia della guerra sia di tutta la politica di espansione imperialista, richiesta per alimentare questa passione popolare, forma una parte non piccola del lavoro dei veri organizzatori delle imprese imperialiste, il piccolo gruppo di uomini d’affari e di politici che sanno ciò che vogliono e come ottenerlo”.

Qui Hobson si occupa finalmente degli “apparati ideologici”, come li chiama appunto Monteleone con un’evidente influenza di Althusser, attraverso cui viene portato avanti questo lavoro di falsificazione. Così “le classi «colte» o semicolte vengono indottrinate sulla grandezza morale e intellettuale dell’imperialismo”.

Se “per le masse vi è un appello più rozzo al culto degli eroi e alla gloria sensazionale”11 (vedi i “guerrieri d’Europa” di Scurati), “quando lo spirito del nudo dominio ha bisogno di rivestirsi per mostrarsi alle classi istruite di una nazione, allora le necessarie decorazioni morali e intellettuali gli vengono cucite su misura”.

Dice Hobson: “la Chiesa, la stampa, la scuola e l’università, e la macchina politica, i quattro strumenti principali dell’istruzione popolare, sono adatti al suo servizio”. Tolta la religione, che ha evidentemente perso quella capacità di mobilitazione delle masse che aveva in passato, gli altri tre strumenti rimangono pienamente validi.

La stampa, per Hobson, è comandata dalla finanza, e “via via che il gruppo di interessi che formano il nucleo economico dell’imperialismo si rafforza e diventa più consapevole della sua politica, si fa ogni anno più rara e più precaria l’esistenza di giornali indipendenti”. Se avete pensato al gruppo Gedi e a Exor, avete fatto bene.

Riguardo alla macchina politica, l’economista inglese intende il finanziamento della diretta elezione di rappresentanti imperialisti, come in Gran Bretagna e negli USA hanno fatto “uomini come Rockefeller, Hanna, Rhoades, Beit”. Ma è il tema dell’istruzione che Hobson ritiene il più importante di tutti.

Riporto alcuni elementi della formazione gingoista presentati da Hobson: “avvelenare la sua prima comprensione della storia con false idee e pseudo-eroi, [...] stabilire un punto di vista «geocentrico» dell’universo morale in cui gli interessi dell’umanità sono subordinati a quelli del «paese»”.

Sembra davvero di leggere le tare di quell’obbrobrio che sono le Indicazioni 2025 per l’insegnamento nelle scuole dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, la cui stesura è stata coordinata da Ernesto Galli della Loggia. Tra eroi risorgimentali e universo morale dell’Occidente – al posto di quello di un solo paese – che diventa il fine della storia.

Hobson parla anche di un’istruzione che alimenta “l’orgoglio sempre arrogante della razza” e che cancella “il desiderio di apprendere dalle fonti straniere”. Anche qui si può facilmente rivedere il della Loggia, ma forse c’è una figura che in sé ha davvero espresso la sintesi del gingoismo europeista: Roberto Vecchioni.

Un docente, che dice che “siamo tutti indoeuropei” e che solo noi abbiamo la cultura e la democrazia. E lo dice da un palco pagato coi soldi pubblici da un’amministrazione PD, il partito europeista per eccellenza. E poi una frase che sembra tratta direttamente dalla canzonetta di Hunt:

“noi abbiamo l’obbligo pacifista di far vedere agli altri che possiamo difenderci coi denti. E quindi non siamo guerrafondai: amiamo la nostra terra, e quelle vicine”. Hunt diceva “noi non vogliamo combattere”, ma by Jingo siamo pronti a farlo! Ora lo dice Vecchioni, che fa riferimento alle terre vicine, cioè all’Ucraina.

Dunque, altri due caratteri del gingoismo: l’estraneità dalla contesa che porta al riarmo e all’avventurismo bellico; l’appartenenza alla parte non combattente del paese, dati gli evidenti limiti anagrafici. Posso dirlo? La chiave di volta della lettura che propongo me l’ha resa evidente Vecchioni: senza di lui questa riflessione non esisterebbe.

Arriviamo infine alle università, che “corrono il pericolo di una nuova distorsione della libertà di indagine e di espressione”. Ciò che si insegna è selezionato dagli interessi di classe, e l’economia politica ne è l’esempio massimo. Idee, ipotesi, formule, scuole e tendenze sono state orientate da chi comanda.

La nomina di un docente al posto di un altro, la definizione dei programmi, l’indicazione di specifici materiali didattici sono i veicoli dell’ideologia imperialista nelle università. “Dove le università – dice Hobson, e sembra che stiamo parlando dell’oggi – dipendono per le donazioni e le entrate dal favore dei ricchi, dalla carità dei milionari”.

“È la mano del futuro o potenziale donatore che incatena la libertà intellettuale nelle nostre università, e sarà sempre così finché non si riconoscerà il dovere di una nazione di organizzare l’istruzione pubblica superiore attraverso il finanziamento pubblico”. Non serve aggiungere altro.

Questi sono passaggi centrali, perché danno ulteriore profondità alle ragioni della lotta ideologica che deve essere portata avanti nella formazione, come fanno Cambiare Rotta e OSA. Il loro lavoro serve a disarticolare quello che, in Hobson, era individuato come l’apparato fondamentale di trasmissione dell’ideologia imperialista.

Recuperando anche un nodo precedentemente accennato, da queste frasi possiamo anche avere ulteriori spunti per capire perché l’adesione all’imperialismo europeo è propria di tanti giovani laureati dell’economia della conoscenza continentale. E come nella loro testa possano convivere diritti civili e tendenze suprematiste.

Riporta Hobson che “alcuni amici della pace sostengono che i due più potenti controlli sul militarismo e sulla guerra sono l’obbligo per tutti i cittadini di fare il servizio militare e l’esperienza in una invasione”. Come è già successo con la Seconda guerra mondiale, è purtroppo così che ampie masse popolari hanno davvero ripudiato la guerra.

Hobson chiude così il capitolo: “mentre sono impiegati diversi metodi, alcuni delicati e indiretti, altri rozzi e sgargianti, l’operazione si risolve sempre [nel] perseguire una politica ricca di guadagni materiali per una minoranza di interessi costituiti che cooperano tra di loro e che usurpano il titolo di interesse generale”12.

Il frutto dei diversi metodi citati, dal punto di vista della psicologia delle masse, è quello del gingoismo. Questo testo credo abbia ampiamente fornito elementi di riflessione e coordinate sul significato del termine, così come sul suo legame con l’imperialismo. A questo punto ci rimane solo di ritornare sulla ricezione che Lenin ebbe di Hobson.

Nei Quaderni sull’imperialismo editi da Editori Riuniti e curati da Giuseppe Garritano, i quali rappresentano dei materiali preparatori del saggio di Lenin, il rivoluzionario russo dedica un’analisi dettagliata al testo sull’imperialismo di Hobson. Voglio prima però riportare altri due passaggi, che è utile ricordare.

Commentando degli estratti di giornale, Lenin cita un articolo in cui veniva ribadito che il popolo tedesco la guerra del 1914 non l’ha voluta, sono le altre potenze che hanno attaccato13. Di nuovo, sembra di ascoltare la canzone di Hunt. Nello stesso quaderno c’è il commento di un altro testo tedesco, interessante per l’attualità.

Del libro Il sistema economico nazionale degli investimenti di capitali all’estero, scritto dal barone di Walterhausen, Lenin sottolinea che il nobile tedesco si dice disposto alla spartizione pacifica delle influenze in Africa, ma è pronto al riarmo e alla guerra. Ancora, sembra di sentire Vecchioni, che ama anche le terre vicine, con le armi tra i denti.

Dice poi: “...«l’Africa è un dominio europeo», se si lascia l’America agli Stati Uniti. ...Il più promettente futuro per l’esportazione del capitale europeo si trova tra il Capo Bianco e il Capo delle Aguglie”14. Se l’America è il ‘cortile di casa’ degli USA, allora l’Africa è quello dell’Europa, e nell’ultimo secolo è cambiato davvero poco.

Bruxelles insiste molto sulla proiezione dei propri interessi verso l’Africa, ad esempio con il Global Gateway, di cui l’impronta neocoloniale è stata denunciata. Neocoloniale nel senso che gli imperialismi di oggi non sono diffusi sulla terra attraverso la conquista diretta, ma operano sostanzialmente attraverso meccanismi economici.

Se c’è questa ricorrenza nella storia, non possiamo trattarla come una casualità o come una coincidenza, ma dobbiamo semmai pensare che, ancora oggi, il capitale europeo trova “il più promettente futuro” per la sua valorizzazione nell’Africa. Eppure, lo fa per mezzo di una configurazione istituzionale continentale, non più o non solo nazionale.

Per questo è interessante concludere con gli appunti che la guida dei bolscevichi prese su Hobson: molti dei commenti di Lenin in merito sono, direttamente o indirettamente, proprio sulla natura degli Stati Uniti d’Europa in regime capitalistico. Ripercorrerò alcuni di essi e alcune sottolineature fatte al testo dell’economista inglese.

Partiamo, però, dal tema già accennato del legame tra gingoismo e aristocrazia operaia. Lenin sottolinea il passaggio di Hobson in cui i moventi della politica imperialista hanno presa anche su alcune categorie di operai. E in generale, viene promessa alle cittadelle imperialiste la pace.

Lenin evidenza i passaggi nei quali Hobson denuncia la menzogna della pax britannica, mentre alle frontiere le guerre fatte dall’impero sono ininterrotte15. Pure in questo caso, si nota un parallelismo nella propaganda unioneuropeista, che parla di 80 anni di pace con un Mediterraneo messo letteralmente a ferro e fuoco (Balcani, Libia, Siria).

Lenin riprende il passaggio di Hobson dove viene scritto che questo meccanismo viene nutrito dall’invenzione di antagonismi nazionali. È sull’assunzione di un reale e duraturo antagonismo del genere che prende piede la “scuola del si vis pacem para bellum”. Qui è bene riportare un altro frammento del libro dell’economista.

“La guerra, tuttavia, non rappresenta il successo, ma il fallimento di questa politica [imperialista], il cui frutto normale e più pericoloso non è la guerra, ma il militarismo”16. Se oggi questo militarismo ha molto a che fare anche con il rilancio industriale, non si può non vedere come la propaganda di Bruxelles sia la stessa di oltre un secolo fa.

Hobson parla anche di come l’incremento delle spese militari diminuisce l’opportunità di spese sociali. Ma il suo è un ragionamento più fine: “l’antagonismo tra imperialismo e riforme sociali è un’opposizione inerente alla politica di due metodi e procedimenti di governo tra loro contraddittori”.

“Qualsiasi riforma sociale importante, anche se non comporta direttamente una grande spesa pubblica, provoca rischi e disordini finanziari che sono meno tollerabili in tempi in cui il debito pubblico è pesante e le entrate fluttuanti e in difficoltà. Molte riforme sociali comportano attacchi a interessi costituiti”, cosa che si vuole evitare.

Viene poi esposta una dinamica che fa impressione per quanto sia d’attualità: la perdita di peso dei parlamenti rispetto ai governi. “Questa subordinazione del legislativo all’esecutivo e la concentrazione del potere esecutivo nelle mani di un’autocrazia sono conseguenze necessarie del predominio della politica estera su quella interna”.

“Alle elezioni l’elettorato non è più invitato a esercitare una scelta libera [ma] è invitato ad appoggiare, o a rifiutare di appoggiare, una politica imperiale e estera difficile [...] di solito contenuta in poche frasi generiche altisonanti, e sostenuta da una appello alla necessità della solidarietà e della continuità della politica nazionale”.

Infine, “sta visibilmente crollando anche il «sistema partitico», basato come era su chiare differenziazioni di politica interna che hanno poco significato se vengono messe a confronto con le richieste e i poteri dell’imperialismo”17. Molte cose che Hobson dice sono frutto del suo tempo e non sono condivisibili, ma molte altre sembrano di oggi.

Il militarismo, il rifiuto delle spese sociali e la facilità con cui è stato approvato il riarmo europeo, il fatto che sia passato attraverso Commissione e Consiglio Europei, cioè gli “organi governativi” e non attraverso un Parlamento che non ha comunque alcun ruolo concreto, l’appiattimento di tutto il sistema partitico sulle esigenze della guerra.

Andiamo oltre la parte in cui Lenin commenta il gingoismo, e arriviamo agli accenni sul problema degli Stati Uniti d’Europa. Lenin scrive che un trust dei maggiori paesi europei significa lo sfruttamento di quelli extraeuropei, e sottolinea dove Hobson dice che una politica internazionale comune nasconde un affare commerciale.

Di nuovo, segna con “Stati Uniti d’Europa” il passaggio in cui Hobson dice: “è probabile che la generazione futura possa assistere a un’unione internazionale del capitale così potente che le guerre tra i popoli occidentali diventeranno quasi impossibili”. Sappiamo che non è andata così, ma poche pagine prima aveva anche scritto il perché.

“Il nuovo imperialismo si distingue dall’antico in primo luogo per il fatto di aver sostituito alle tendenze di un solo impero in continua espansione la teoria e la prassi di imperi rivali”. L’imperialismo di oggi non è la semplice fame di espansione, è un sistema di vari imperi che rivaleggiano nella prassi, cioè nell’incedere dialettico della storia18.

Bisogna specificare che degli Stati Uniti d’Europa Lenin ne parla in un dibattito sulle parole d’ordine politiche da sostenere. Il problema che non deve essere eluso riguarda la possibilità che essi esistano come accordo temporaneo fra i capitalisti europei per schiacciare il socialismo e conservare le colonie contro Giappone e America19.

Insomma, Lenin parla dei pericoli collegati a un orizzonte di lotta che il partito deve o meno promuovere, e si interseca con la possibilità della rivoluzione in un solo paese. La UE all’epoca non esiste e dunque Lenin non si pone il problema di un’entità politica a sé stante come espressione degli interessi di una borghesia su base continentale.

Se è quindi vero che rimane il fatto che gli Stati Uniti d’Europa, astrattamente intesi e creati sotto la direzione borghese sono reazionari, quella definizione non ha molto a che vedere con la sostanza delle domande che ci si pone sulla UE odierna. Ovvero, SE esista come accordo tra imperialismi o sia espressione di un imperialismo europeo.

Oppure, per dirla in altro modo, data l’evidente rottura dell’euroatlantismo, e dunque la evidente divergenza di interessi tra il capitale finanziario statunitense e quello europeo, se nel Vecchio Continente si stia muovendo un solo imperialismo o l’accordo di più di essi, che cercano appunto di mantenere il proprio ruolo rispetto a Washington.

Come già detto, il nodo sottolineato da Lenin è quello della “prassi di imperi rivali”, o per dirla a suo modo, i concreti antagonismi esistenti e l’evoluzione nel tempo dei rapporti di forza tra gruppi monopolistici. Nel 1866 la Germania non esisteva e il Giappone era un regime feudale, 35 anni dopo partecipavano alla repressione dei boxer in Cina.

Nelle pieghe delle nuove tecnologiche, della competizione, delle crisi e delle guerre, possono svilupparsi altri imperialismi rispetto a quelli che siamo abituati a considerare. Più deboli o più incerti, ma pur sempre partecipi di quel sistema imperialistico che è reso mondializzato dal fatto di essere espressione del capitale.

Si possono riassumere le linee di dibattito in merito intorno all’esistenza o meno di una sovranità piena di Bruxelles, nella natura economica e non politica del mercato unico e nel continuo riaffacciarsi delle contraddizioni tra interessi nazionali. Ma la questione non si risolve né in punta di statistica né sulla base di parallelismi storici.

Lo Zollverein tedesco è stato un coadiuvante dell’unificazione tedesca, ma il Secondo Reich non è stato la conclusione necessaria di quell’unione doganale. Così come oltre l’Atlantico l’unità politica non ha impedito che scoppiasse una guerra civile tra il Nord protezionista e il Sud liberoscambista, da cui nacquero gli USA pienamente imperialisti.

Bisogna semmai andare a vedere da una parte la centralizzazione del capitale a livello continentale, qualcosa che non è immediato: non tanto la concentrazione del capitale in poche mani, quanto il controllo da parte di grandi attori finanziari degli indirizzi per la valorizzazione di capitali divisi in una proprietà anche relativamente parcellizzata.

I monopoli si formano sì per integrazione verticale e orizzontale, cioè per acquisizione di tutte le attività di una filiera e per crisi, fallimenti, acquisizioni e fusioni. Ma nel capitalismo dei pacchetti azionari, delle matrioske societarie e delle joint venture la questione del controllo effettivo degli indirizzi di investimento si fa più complessa.

Dall’altra, un altro sintomo degli antagonismi imperialistici è lo scontro tra i monopoli e i settori capitalistici che rivendicano la libera concorrenza come unica tutela. Il tema, dunque, non è se permangono contraddizioni tra interessi nazionali, perché comunque espressione fittizia di un interesse particolare (almeno finché lo stato è borghese).

Il tema è, semmai, se questi interessi nazionali sono gli interessi di una borghesia del tutto imperialista, cioè finanziaria che si pone il problema della valorizzazione dei propri capitali, e che non la può che trovare all’estero. Credo che, per fare un esempio, il caso recentissimo della space economy fornisca più di uno spunto in merito.

Ma se vogliamo parlare di un altro esempio complesso, vi è quello della scalata da parte di Unicredit alla banca tedesca Commerzbank. L’antitrust tedesca ha appena dato il via libera all’aumento della quota azionaria dell’istituto italiano fino al 29,9%, ma il nodo non è tanto se si giungerà a una vera e propria fusione.

Unicredit ha acquisito circa il 25% del capitale di Commerzbank in circa 7 mesi, mentre conquista significative quote di mercato nell’Europa orientale, la zona dove si allungano le filiere produttive tedesche. La sempre maggiore integrazione tra credito e industria in trust finanziari europei, che controllano l’impiego di tutta la massa di capitali annessa.

È la ricerca di questo tipo di collegamenti e incroci che mostra come la questione non è mai stata di interessi nazionali, ma semmai di equilibri contradditori in via di sviluppo. Non c’è nessuna reale contrarietà a operazioni del genere, c’è semmai la competizione per definire i termini con cui avvengono.

Per capirci, i monopoli non sono mai stabili, come dimostra persino il cuore dell’impero e l’affaire Google dell’ultimo paio d’anni. La lotta mai sopita tra Alphabet e Microsoft per il controllo sui motori di ricerca si è riaccesa con la fame di dati necessari ad addestrare gli algoritmi delle intelligenze artificiali.

Insomma, la questione non si risolve in punta di matematica, ma si risolve in punta di tendenze storiche. Se si accetta l’esistenza di un imperialismo europeo in costruzione, lo si accetta proprio in quanto processo che deve fare i conti con la decisione di fondarsi sulla leva economica che non può ignorare i 27 “interessi nazionali”.

“Il nazismo fu un progetto folle, pericoloso, suicida, ma era un progetto politico di cui oggi l’Unione Europea è la risposta agli antipodi”, diceva l’ex ministro dell’Economia di Parigi. Che è un modo molto chiaro di dire che le ragioni economiche dell’unificazione dell’Europa sono le stesse, ma stavolta si tenta in altro modo.

Se anche non si accettasse questa tesi, dal punto di vista politico rimane il fatto che il nemico principale è questo accordo tra imperialismi, in quanto è il percorso strategico imboccato dagli imperialismi nazionali per tenere botta di fronte a questa fase della competizione inter-imperialistica.

Lascerò da parte le riflessioni di Hobson, altrettanto interessanti, sull’Occidente che si trasforma in un luogo turistico in cui a un piccolo gruppo di ricchi si affiancherà una forza lavoro attiva per lo più nei servizi e, questo sottolinea nettamente Lenin del testo dell’autore inglese, nel trasporto, cioè della logistica, in sostanza.

Così come le parti in cui si evidenzia la possibilità che ha la Cina, sfruttando il capitale occidentale e poi sostituendolo con le proprie forze, di ribaltare sul lungo periodo il processo di collocamento del capitale fino a raggiungere “il controllo finanziario sui suoi vecchi protettori e civilizzatori”.

In conclusione, voglio sottolineare come oggi l’imperialismo rimane la chiave di lettura della politica europea. Che l’UE venga intesa in un modo o nell’altro, il terreno da essa preparato, con le sue regole e i suoi meccanismi, è quello su cui la finanza continentale si organizza per mantenere la propria capacità imperialista.

Il militarismo, come pozzo senza fondo della politica imperialista (seppur di per sé la guerra non esprima il carattere distintivo dell’imperialismo capitalista), è nel piano Readiness 2030, cioè riarmo, difesa comune e, soprattutto, conversione a un’economia di guerra per non annunciare il fallimento della trentennale politica mercantilista.

Come ciò debba essere realizzato è tema di dibattito, ma è già risaputo che solo alcuni grandi gruppi finanziari se ne avvantaggeranno. Rheinmetall, Leonardo, Thales, un poco anche Saab, di certo britannici come la BAE Systems. Gruppi che hanno partecipazioni spesso comuni in vari progetti, non a caso.

Gruppi che spesso dimostrano già un importante interesse verso l’Africa, nonostante il loro primo sbocco sia proprio il riarmo. Basta guardare gli accordi che va stringendo la Leonardo per la smart agricolture in Africa, stesso settore da cui Eni ha sempre sperato di tirar fuori una buona quantità di biocarburanti per l’autonomia energetica.

Che il militarismo assuma questa dimensione continentale si riflette a specchio proprio sul fatto che – per tornare al tema di questo contributo – il gingoismo, cioè quell’insieme di elementi appena osservati che sostengono la deriva bellicista dell’imperialismo tra le masse popolari, ha assunto a sua volta una dimensione europea.

Suprematismo europeo spacciato dai giornali e inserito nei programmi scolastici, per fare leva sulla necessità della guerra tra i gangli di una ‘economia della conoscenza’, dove la paura della proletarizzazione fa il resto. E la legittimazione attraverso il pericolo inventato di una invasione russa... così che la guerra la si fa perché costretti.

Se è questo il quadro UE, di tale quadro bisogna agire la rottura per liberare l’opportunità politica di ogni paese che ne è parte di trovare un’alternativa di sviluppo. Tolte le sinergie europee, unica possibilità di contare all’estero e allo stesso tempo gabbia per la politica interna, gli interessi popolari potranno trovare nuova rappresentanza.

Note

1 John A. Hobson, Il gingoismo, Feltrinelli, Milano 1980, p. 11.

2 Hobson, Il gingoismo, p. 49.

3 Hobson, Il gingoismo, pp. 15-16.

4 Hobson, Il gingoismo, pp. 127-129.

5 Hobson, Il gingoismo, p. 13.

6 Hobson, Il gingoismo, p. 14.

7 Hobson, Il gingoismo, pp. 22-23.

8 Hobson, Il gingoismo, p. 17.

9 John A. Hobson, L’imperialismo, Newton & Compton editori, Roma 1996, p. 195.

10 Hobson, Il gingoismo, p. 18. Questo stesso passaggio, con “sciovinismo” al posto di “gingoismo”, è in Hobson, L’imperialismo, p. 197.

11 Hobson, L’imperialismo, p. 201.

12 Hobson, L’imperialismo, pp. 198-201.

13 Lenin, Quaderni sull’imperialismo, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 516.

14 Lenin, Quaderni sull’imperialismo, pp. 537-538.

15 Lenin, Quaderni sull’imperialismo, pp. 385-387.

16 Hobson, L’imperialismo, p. 144.

17 Hobson, L’imperialismo, pp. 152-157.

18 Lenin, Quaderni sull’imperialismo, pp. 393-3.

19 Quella che verrà poi chiamata da Samir Amin la “Triade” imperialista.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento