Ogni volta che raggiungiamo il punto in cui pensiamo che le cose non possano peggiorare ulteriormente, il limite della nostra capacità di sopravvivere, il limite della nostra sofferenza e disperazione, ci sorprendiamo nello scoprire che c’è ancora di più, che ogni punto più basso è seguito da uno ancora più basso. Questa volta, la fame è tornata a Gaza. E anche la sete è tornata.
Per più di 40 giorni, i valichi sono stati blindati, soffocando quel poco di vita rimasto. Nessun aiuto umanitario è permesso. Nessuna scorta di cibo. Niente passa, solo soldati, bulldozer e carri armati. Pane, acqua e medicine ci sono proibiti, ma il cielo rimane aperto alle bombe.
Gli scaffali dei negozi sono quasi vuoti e i mercati hanno perso il loro significato. Passiamo ore a cercare un sacco di farina, una scatola di fagioli, qualsiasi cosa possiamo mangiare. Ma i prezzi stanno salendo alle stelle e le merci stanno scomparendo rapidamente.
I mercanti speculatori, anziché contribuire alla sopravvivenza, sono diventati complici del nostro soffocamento. Alcuni di loro accumulano beni, aspettando che il bisogno diventi più doloroso, per poi rilasciarli a prezzi spietati. Nessuno osa opporsi. Tutti hanno paura, tutti hanno fame.
Da quando è ripresa un mese fa, la guerra non è stata solo contro le nostre case e i nostri corpi, ma contro le nostre anime. Ci sta attaccando dall’interno. Viviamo senza elettricità, senza rifornimenti. La nostra capacità di comunicare con il mondo esterno è limitata, e anche la nostra capacità di comunicare tra di noi sta vacillando a causa del peso di tutto ciò che abbiamo sopportato. È come se venissimo lentamente cancellati, come se l’obiettivo fosse l’annientamento completo, non solo del luogo, ma di noi come esseri umani.
Le persone sono cambiate. I loro volti sono cambiati. Il silenzio ora prevale sulle parole e le lacrime sono più frequenti della rabbia. Il numero dei martiri sta aumentando a un ritmo terrificante. I bombardamenti sono casuali, senza preavviso, senza motivo. Non ci sono zone sicure, né momenti di riposo.
Io e la mia famiglia non siamo ancora stati costretti a lasciare le nostre case, ma centinaia di migliaia di altre persone lo sono state. La casa parzialmente distrutta in cui viviamo è vicina alle zone che hanno ricevuto l’ordine di evacuare. Sento chiaramente i bombardamenti a Khan Younis e Rafah. Tutto è terrificante. Il rumore è troppo forte e troppo vicino. La paura mi ha completamente sopraffatta.
Più di una volta, ho sentito come se il mio cuore stesse per fermarsi per l’intensità del rumore. Mangiamo di meno. I nostri pasti, composti solo da fagioli e piselli in scatola, si sono ridotti, a volte sopravvivendo con appena uno al giorno.
E da quando le condutture dell’acqua sono state tagliate a marzo, abbiamo iniziato a razionare ogni sorso che beviamo, temendo la sete tanto quanto temiamo le bombe. Misuriamo l’acqua al millilitro, sorseggiandola a piccoli sorsi, cercando di ingannare il nostro corpo facendogli credere che non abbiamo sete.
Psicologicamente, questo è il periodo peggiore che abbiamo mai vissuto. La paura è più profonda, più pesante e più persistente. Non ci abbandona mai. Non è solo la paura della morte, ma la paura di come dovremmo continuare a vivere in questo modo.
Persino il sonno è cambiato. Riposiamo con i nostri corpi, ma ci svegliamo con l’anima esausta: ci addormentiamo al rumore degli aerei da guerra e ci svegliamo con urla, con la notizia della morte di qualcuno o con il terrore di poter essere i prossimi.
Sì, siamo ancora vivi. Ma che tipo di vita è questa? Cerchiamo di aggrapparci a ciò che resta della nostra umanità, della nostra dignità, a un piccolo sogno di una luce alla fine di questo tunnel. Ma la strada è buia e, ogni giorno che passa, perdiamo pezzi di noi stessi.
“Che dio faccia loro dimenticare Gaza”
Questa volta, sembra che tutta Gaza sia morta, letteralmente. Non c’è più cibo. La Carestia si sta diffondendo a un ritmo terrificante. La maggior parte dei panifici, compresi quelli vicino a dove alloggiamo, hanno chiuso e non c’è carburante per alimentare nulla.
Siamo costretti a camminare per chilometri e ore solo per trovare lo stretto necessario. Anche se ci imbattiamo in un carretto trainato da un asino, gli asini sembrano più esausti di noi. Sono responsabile di trovare posti dove ricaricare i dispositivi elettronici della mia famiglia e di portare l’acqua. Ognuno di noi dà una mano e cerchiamo di gestire le cose insieme.
Lungo la strada, incontriamo persone che rispecchiano la nostra stanchezza, la nostra ansia, la nostra sconcertata incredulità per ciò che sono diventate le nostre vite.
Un giorno di recente, mentre camminavo per strada per un servizio giornalistico, ho visto una donna anziana, sulla settantina, con la schiena curva per la stanchezza. Portava una borsa di plastica logora e indossava un abaya (sopravveste tradizionale islamica) nero a brandelli. Camminava lentamente, come se la Terra stessa la stesse schiacciando con tutto il suo dolore.
Mi sono avvicinata e le ho teso la mano per aiutarla. All’improvviso, cominciò a piangere. Con voce tremante, disse: “Siamo così stanche. Che Dio faccia dimenticare loro Gaza. Che ci lascino in pace“.
Non stava pregando per essere salvata. Stava pregando di essere dimenticata, di essere lasciata in pace. Sentii un peso enorme nel petto, non solo per il suo dolore, ma perché anch’io avevo provato la stessa cosa.
Quando la guerra riprese, un sentimento profondo mi consumò; non volevo più scrivere. Che senso ha? Ci stanno Sterminando, Uccidendo, morendo di fame, e al mondo semplicemente non importa. Scriviamo, urliamo, documentiamo. Ma chi legge? A chi importa? Ogni giorno perdiamo una parte di noi stessi. Non solo una casa, un amico, un pasto o un ricordo. Perdiamo la convinzione che a questo mondo possa importare, o che la vita possa un giorno tornare a essere quella di prima.
Il futuro è svanito
Ogni tanto incontro un’amica in un piccolo caffè di Deir al-Balah che è riuscito a rimanere aperto. Con lei, non ho bisogno di spiegarle nulla. Proviamo le stesse sensazioni e sappiamo entrambe che le parole non possono descrivere questo tipo di dolore. Eppure, continuiamo a provarci.
Lei è un medico e io sono un giornalista. Ci sediamo insieme e parliamo. Parliamo della nostra stanchezza, condividiamo battute divertenti e ricordi della vita prima della guerra, e commentiamo con sarcasmo e ironia l’assurdità di ciò che le nostre vite sono diventate. Entrambe sognavamo di studiare all’estero. Ora sogniamo di trovare acqua pulita da bere.
Da quando la guerra è ripresa, il futuro è svanito dalle nostre conversazioni. Tutto si è fermato nel presente. Lei salva vite, e io documento le perdite. Entrambi conosciamo il peso della responsabilità che portiamo. Viviamo giorno per giorno, ora per ora, in un tempo frammentato che non appartiene né al passato né osa essere il futuro.
Mi sveglio ogni giorno, se mai riesco a dormire, con il cuore che batte all’impazzata, come se stesse per accadere qualcosa di terribile. Non c’è un momento di sicurezza, nessuna sensazione di pace. Cerco di scrivere, di documentare, di spiegare, ma a volte sento che le parole mi tradiscono.
Scrivo delle persone, e io sono una di loro. Scrivo di paura, mentre la paura vive dentro il mio corpo. Scrivo, ma in fondo continuo a chiedermi: per quanto tempo? E perché? E qualcuno mi sta ascoltando?
Sento che il mio corpo non mi appartiene più. Mi muovo, parlo, scrivo, ma tutto dentro di me è spento. Il sonno è diventato un incubo spezzato. Chiudo gli occhi al rombo degli aerei da guerra e mi sveglio al battito del mio cuore.
Mi tocco il viso, le membra, solo per assicurarmi di essere ancora viva. A volte non respiro profondamente, non perché non voglia, ma perché temo che il suono del mio respiro possa rompere il silenzio prima di un’esplosione.
Cerco di apparire forte, perché molti intorno a me, mia madre, mio padre, mia sorella, contano su di me per resistere. Anche il lavoro mi impone di rimanere forte. Quando incontro persone e ascolto le loro storie, storie di perdita, fame, sopravvivenza, devo rimanere forte, assorbire il loro dolore e trasformarlo in parole. Non posso permettermi di crollare davanti a loro. Ho il dovere di testimoniare, documentare, parlare.
Ma la verità? Sto scrivendo questo ora con il cuore palpitante e le mani tremanti, perché sono esausta per le urla che ho nella testa.
Come faccio a scrivere di questo inferno?
Da quando la guerra è ripresa, la mia vita ha perso la sua forma. Le mie giornate sono diventate caotiche, come il flusso infinito di notizie, come i bombardamenti che non dormono mai. Seguo il flusso incessante degli eventi.
Riesco a malapena a trovare il tempo per pensare, respirare o elaborare ciò che accade intorno a me. Tutto sembra disordinato e, in mezzo a tutto questo, mi muovo come qualcuno che cerca di afferrare manciate di sabbia.
Ciò che mi esaurisce di più è la mancanza d’acqua. Ci sono giorni in cui sono costretta a non lavarmi. Questa privazione della più semplice forma di pulizia mi destabilizza. Alimenta la sensazione di essere intrappolata in una scena che continua a ripetersi all’infinito. Tutto è a ciclo continuo: i bombardamenti, la fame, la fuga, la paura, le notizie, l’impotenza.
Ogni volta che prendo in mano la penna, sento un peso nel petto. Come scrivo di questo inferno? Come descrivo l’indescrivibile? A volte, vorrei solo silenzio. Chiudere tutto, negare questa realtà, essere una persona comune, non qualcuno da cui ci si aspetta che porti e infligga dolore.
Ma poi ci ripenso: se non scrivo io, chi lo farà? Chi dirà che abbiamo fame? Che abbiamo sete? Che siamo bombardati, assediati e abbandonati?
Scrivere a volte mi protegge, mi dà voce quando mi sento soffocare.
Ma allo stesso tempo mi prosciuga, perché mi costringe ad affrontare tutto ciò da cui cerco di fuggire dentro di me.
Ho scritto così tanto. Vi ho raccontato ciò che vediamo, ciò che viviamo, ciò che perdiamo ogni singolo giorno. Ma alla fine, anche le parole mi sfiniscono. La verità mi logora. E rimango sola con le domande che non mi abbandonano mai: è normale aver paura di bere un sorso d’acqua perché potrebbe finire? Sognare un pasto semplice? Desiderare un suono che non porti distruzione?
È normale sopportare tutto questo dolore, come se non fossimo nemmeno umani? Chi ha deciso che Gaza debba esistere al di fuori della logica, al di fuori della pietà, al di fuori del tempo? Il nostro destino è forse scomparire? Rimanere in silenzio? Morire lentamente, senza che la nostra morte infastidisca nessuno? Chi comprende questo dolore? E chi può spiegarci perché?
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