Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

17/04/2025

Gli alawiti scappano, la nuova Siria è al palo

di Michele Giorgio

Massaoudiye è un passaggio di frontiera illegale come tanti altri nel mondo. Non solo per i traffici di merci e armi, anche per gli esseri umani. Posto sul confine tra Siria e Libano, è diventato da un mese una delle strade verso la salvezza, un percorso per sfuggire alla violenza settaria, aperto a chi non ha il permesso per uscire legalmente dalla Siria.

Come l’alawita Basel, che in una testimonianza inviata a un suo conoscente in Italia racconta ciò che ha visto il 6, 7 e 8 marzo, e nei giorni successivi, durante le stragi di centinaia di uomini, donne e bambini della sua comunità (circa il 10% dei 24 milioni di siriani), passate alla cronaca come «i fatti della costa siriana» sul Mediterraneo.

«Ho visto con i miei occhi più di 400 corpi. I cadaveri erano ovunque: per le strade, nelle case, sui tetti degli edifici. Nella maggior parte dei casi i civili venivano giustiziati con un colpo alla testa. Ho sentito uccidere nelle case e le donne urlare», ha riferito Basel, parlando dei miliziani, anche stranieri, inviati dal ministero dell’Interno e dalla Sicurezza generale, giunti sulla costa per annientare i «resti del passato regime» di Bashar Assad, che avevano compiuto attacchi armati – con numerosi morti – contro le postazioni dei governativi.

Il racconto di Basel è simile a quello di tutti gli alawiti fuggiti in Libano in queste settimane, convinti che nella nuova Siria non troveranno mai pace né sicurezza. Nessuno prova a convincerli a rimanere, anzi, ad alcuni in quella che è considerata la nuova Siria vederli andar via è addirittura un sollievo. Perché sono considerati alleati di Assad, anch’egli alawita, e pertanto sarebbero «colpevoli» quanto lui.

Nei primi giorni di marzo si è materializzata una enorme rappresaglia, che potrebbe aver segnato il futuro della Siria. I civili alawiti sono stati considerati tutti complici dell’ex presidente fuggito a Mosca ai primi di dicembre sotto l’incalzare dell’avanzata dei jihadisti guidati dal gruppo qaedista Hay’at Tahrir al-Sham (Hts).

Tanti sono stati uccisi perché considerati «apostati». «Porco nusayrita», urlavano i miliziani all’alawita di turno, prima di sparargli un colpo alla testa o una raffica di mitra, descrivendolo come un seguace di Ibn Nusayr, il religioso che nel IX secolo si sganciò dallo sciismo ponendo le basi per la nascita della sua setta.

Almeno 20mila siriani alawiti sono passati per Massaoudiye e hanno trovato rifugio nella regione libanese di Akkar. I più fortunati, entrati dai valichi ufficiali e in possesso di un visto, si recano all’aeroporto di Beirut e partono.

«Quelli che sono rimasti in Siria invece vivono nella paura. A Homs, Hama, nelle campagne, le famiglie alawite più isolate sono minacciate ogni giorno di morte e le autorità non fanno nulla. Vogliono vendicarsi per quello che ha fatto Assad, che è un alawita come noi. Ma non abbiamo colpe, siamo civili, siamo siriani, siamo parte dello stesso popolo», ci dice Suheila (nome di fantasia), che vive in Italia da alcuni anni e che ogni giorno è in contatto con la sua famiglia in una città sulla costa siriana.

«Prima di minacciarle o di ucciderle, uomini armati hanno chiesto alle persone se fossero alawite... Le prove che abbiamo raccolto indicano che milizie affiliate al governo hanno intenzionalmente preso di mira civili della minoranza alawita, uccidendoli a sangue freddo e da distanza ravvicinata. Per due giorni le autorità non sono intervenute per fermare le uccisioni», ha denunciato nei giorni scorsi Agnès Callamard di Amnesty International.

L’Osservatorio siriano per i diritti umani, il 22 marzo, ha comunicato di aver documentato 62 massacri sulla costa siriana, in cui sono morti 1.614 civili. Il Centro siriano per i media e la libertà di espressione riferisce di 1.169 vittime civili, di cui 732 a Latakia, 276 a Tartous e 161 a Hama. Tra le vittime, 103 donne e 52 bambini. Uccisi anche 218 membri della sicurezza colpiti dai lealisti di Bashar Assad.

Il presidente autoproclamato Ahmad al-Sharaa – noto fino allo scorso anno come Al Julani, leader di Hts – a metà settimana ha rinnovato per altri tre mesi i lavori della commissione d’inchiesta che aveva formato per indagare su quanto accaduto sulla costa. I lavori procedono lentamente, troppo, e i siriani alawiti non credono che il governo islamista abbia la sincera intenzione di punire i responsabili delle stragi di civili, compiute – secondo indiscrezioni – soprattutto da affiliati «non regolamentati» alle forze di sicurezza del nuovo governo. Almeno 420 civili, ad esempio, sarebbero stati uccisi dalle cosiddette «divisioni» Abu Amsha e Hamzat, gruppi di jihadisti indipendenti.

L’organizzazione Syrians for Truth and Justice (Stj) in un suo rapporto, conferma l’autenticità di decine di video che documentano i massacri di civili e i miliziani affiliati al governo che distruggono luoghi di culto delle minoranze religiose. Stj sottolinea che la commissione d’inchiesta non è stata formata da un organo legislativo eletto o da un’alta autorità giudiziaria, bensì dalla presidenza autoproclamata, e ciò ne compromette l’imparzialità e la capacità di individuare i criminali da punire.

Sull’inchiesta in corso pesano gli orientamenti diversi che attraversano una società – soprattutto i più giovani – che in parte ha fiducia nella nuova leadership e in parte è disillusa e crede poco alla possibilità di veder emergere una Siria nuova, inclusiva e garante dei diritti fondamentali. Accanto ai siriani favorevoli a punire gli autori delle carneficine e il rispetto delle leggi, altri invece affermano che sulla costa è stato solo sventato un colpo di stato dei pro-Assad con inevitabili conseguenze in tutte quella zona. Altri non condannano le uccisioni degli alawiti.

Una visione che si riflette anche nella contrarietà generale alla punizione e deportazione dei foreign fighters, i jihadisti stranieri alleati di Hts provenienti da Caucaso, Asia centrale e paesi arabi, ritenuti i primi responsabili di molti degli eccidi di marzo. Il nuovo regime tenta di presentarsi pronto a voltare pagina, ma gestisce presenze armate e ideologicamente radicalizzate arrivate in Siria dopo il 2011 per combattere Assad e ora infiltrate nei ranghi della sicurezza. Damasco vorrebbe concedere la cittadinanza ai jihadisti che si sono «integrati nella società».

La Siria che gli islamisti al potere stanno plasmando garantisce sempre meno il rispetto dei diritti reclamati dalla storica opposizione laica al potere di Assad e neppure la diversità del paese. Mentre il presidente è visto all’estero come l’espressione di una Siria avviata verso la democrazia, non pochi siriani hanno accolto con delusione e preoccupazione la dichiarazione costituzionale approvata il 13 marzo.

Il documento concentra il potere nel presidente, mina l’indipendenza dei giudici e avvia la trasformazione della Siria da uno Stato sostanzialmente laico a uno in cui la fonte di legge sarà la religione. La deriva autoritaria è alle porte. Artisti, attori, cantanti e tanti intellettuali che prima dovevano mostrarsi devoti ad Assad per poter lavorare, ora fanno altrettanto nei confronti delle nuove autorità pur di garantirsi la sopravvivenza. La Rete siriana per i diritti umani ha registrato a marzo 117 casi di detenzioni arbitrarie, tra cui sette minori. Le prigioni rischiano di riempirsi di nuovo di prigionieri politici.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento