Il caos dazi si complica, invece di sciogliersi. Dalla contea di Macomb, nel Michigan un tempo sede della concentrazione più alta al mondo di fabbriche automobilistiche, Donald Trump ha dovuto correggere in più punti il suo molto schematico sistema di tariffe punitive.
Sulle auto straniere era stato deciso un sovraccarico doganale del 25%, e altrettanto su acciaio e alluminio. Il problema diventato subito esplosivo è che in questo modo i componenti fondamentali provenienti dall’estero subivano una doppia imposizione straordinaria, che faceva aumentare il costo di produzione anche per gli autoveicoli fabbricati negli States.
Del resto è noto che produrre un’auto, oggi, significa assemblare parti costruite un po’ in tutto il mondo, così che non esiste più praticamente la possibilità concreta di avere un prodotto totalmente “made in” qualsiasi paese. Ricordiamo per esempio che il terremoto che provocò lo tsunami e il disastro nucleare di Fukushima (2011) bloccò per qualche tempo la produzione di chip e centraline che dovevano esser montate su un’infinità di modelli in tutto il mondo.
La parziale marcia indietro di Trump si traduce in una “dose scalare” di rimborsi – fino al 3,75% del valore delle vetture finali, e per il secondo anno al 2,5% del valore – in modo da dar tempo alle industrie di adattarsi al “nuovo corso”.
Ma è una sofferenza continua. Jeff Bezos, patron di Amazon, ha deciso di rendere pubblica la quota di aumento dei prezzi addebitabile ai dazi per ogni singolo prodotto venduto sulla sua piattaforma (che all’80% vende merci “made in China”), in modo da schivare le critiche e la disaffezione dei consumatori Usa.
La giovane portavoce della Casa Bianca lo ha additato pubblicamente come responsabile di un «atto ostile e politico». Come se Bezos fosse un normale “democratico” e non uno dei protagonisti delle “magnifiche sette” della new economy che si erano schierate con Trump subito dopo la sua elezione.
Bezos, va ricordato, si era esposto al punto di aver scritto un editoriale in cui annunciava di aver imposto un drastico cambio di linea al Washington Post, storico baluardo del giornalismo progressista Usa (memorabile il Watergate che costrinse Richard Nixon alle dimissioni), ora di sua proprietà.
Un editoriale che annullava oltretutto l’ultima foglia di fico messa sulla “libertà di stampa”: al WaPo c’è un padrone, come in tutti i giornali, e la linea la fa lui, non i giornalisti. Punto.
Ma non sono finite qui le pessime notizie per la nuova amministrazione “di rottura”. Proprio la politica dei dazi eccezionali, specie contro la Cina, sta preparando un enorme problema per i consumatori Usa meno abbienti.
Come chiariscono molti analisti seri, è nei supermercati che si va preparando lo shock per i consumatori statunitense, specie quelli che hanno votato sotto l’illusione “Maga” (Make America great again). Va ricordato, per esempio, che la sola catena di distribuzione WalMart – la più grande e capillare, un milione di dipendenti pagati pochissimo, dove puoi trovare dallo spazzolino al fucile mitragliatore – già venti anni fa rappresentava da sola il 12% del mercato di sbocco delle esportazioni cinesi. Allora prodotti “poveri” per lavoratori altrettanto poveri, ma nel paese più ricco del mondo...
Oggi la situazione è radicalmente cambiata (per la Cina, soprattutto), e quelle merci-salario indispensabili sono oggi fabbricate in molti altri paesi “in via di sviluppo”. Ma la politica dei dazi trumpiani è universale, per quanto differenziata. Quindi...
Poi, certo, si prova a nascondere i problemi sotto le promesse (un quasi accordo in arrivo con l’India, una revisione contrattata con la Cina, ecc.), ma questa è la parte più “vecchio stile”, comprensibile da chiunque non sia un tifoso ottenebrato dalla fede.
Sembra strano, vendendo l’amministrazione Usa oggi totalmente in mano ad imprenditori miliardari. Ma pare proprio che non si siano resi conto di vivere e prosperare in un “sistema” indipendente dalle volontà individuali e che, manomettendolo, avrebbero provocato scosse telluriche impossibili da controllare “as usual”.
Succede, se non capisci la differenza abissale tra controllare un’azienda e governare un Paese. Di quelle dimensioni, poi...
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