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13/04/2025

Appunti sui libri II e III del Capitale di Marx / 1 parte

di Carlo Formenti

1. Presentazione del percorso di ricerca

Studiare il Libro I del Capitale è impresa meno astrusa di quanto affermino i detrattori di Marx. Sia perché svela gli arcani dell’economia capitalistica in modo chiaro e comprensibile anche ai non addetti ai lavori, sia perché la riflessione teorica si alterna a incisi letterariamente godibili, nei quali analisi, racconto storico, battute e citazioni “classiche” – non di rado bibliche, come evidenziato da un noto teologo della liberazione (1) – ravvivano la lettura. Lo stesso non vale per i Libri II e III che, al pari di certe parti dei Grundrisse, impongono al lettore uno sforzo di comprensione (e spesso di pazienza, soprattutto nelle pagine ricche di schemi e formule matematiche) assai maggiore.

Non a caso, quando un esponente di qualche partito o movimento che si proclama marxista (anche se appartiene alla cerchia dei più acculturati, o persino degli intellettuali di professione) dichiara di avere studiato il Capitale, è lecito sospettare che la sua affermazione si riferisca al Libro I e, nella migliore delle ipotesi, ad alcune parti del II e del III. Mentirei se non ammettessi che quanto appena detto vale anche per il sottoscritto: fino a non molto tempo fa, i miei propositi di esaurire nella sua interezza lo studio dell’opera fondamentale di Marx, si erano quasi sempre scontrati con la difficoltà di strappare ad altri impegni il tempo e le energie necessari.

Sono stato infine indotto a tamponare questa falla, da un lato, dalla necessità di comprendere meglio le dinamiche della crisi che il capitalismo mondiale sta vivendo dall’inizio del Duemila (in realtà dai Settanta del Novecento, ma con modalità meno chiare ed evidenti delle attuali) e i suoi effetti geopolitici (a partire dal rischio incombente di una Terza guerra mondiale), dall’altro lato, dalle critiche a certi dogmi incistati nel corredo ideologico della tradizione marxista (in primis occidentale). Mi riferisco, in particolare, a quelle avanzate dall'ultimo Lukacs che, come ho scritto più volte (2), considero il più grande filosofo marxista del Novecento, e da diversi altri autori, spesso esponenti di culture del Sud del Mondo, ma non solo (nominarli tutti sarebbe dispersivo, per cui rinvio al sintetico elenco in nota) (3).

Ciò detto, metto qui di seguito in fila gli interrogativi ai quali ho cercato, se non delle risposte, almeno delle dritte sulle vie da seguire per trovarle, integrando le mie letture, fin qui sporadiche e incomplete, dei Libri II e III del Capitale.

1) È da più d’un secolo che i marxisti non cessano di annunciare periodicamente che il modo di produzione capitalistico è entrato nella sua fase “terminale”, “suprema”, ecc. al punto che Giorgio Ruffolo, ironizzando sulle puntuali smentite storiche cui queste affermazioni sono andate incontro, ha simpaticamente intitolato un suo libro Il capitalismo ha i secoli contati (4). A partire da questo dato di fatto, mi sono chiesto: le suddette profezie non trovano forse fondamento nell’affermazione di Marx secondo cui “il limite del capitale è il capitale stesso” (5), tesi che, a sua volta, rinvia alla cosiddetta legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, nonché al concetto di contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione (il capitalismo, giunto a un certo grado di sviluppo, non sarebbe più in grado di svolgere la sua “missione storica”, che è appunto quella di sviluppare le forze produttive oltre i limiti che caratterizzano i modi di produzione precedenti). Detto con altre parole: non esiste un limite connaturato all’analisi marxiana che potremmo definire con il termine oggettivismo economicista?

2) Nessuno ha più il coraggio di negare che l’idea secondo cui il modo di produzione capitalistico, nel suo cammino verso la subordinazione/integrazione di tutte le forme sociali precedenti, sarebbe giunto – in assenza di una rivoluzione socialista – a generare un mondo unificato, fatto quasi esclusivamente di capitalisti e operai, si è rivelata sbagliata. Non solo le forme sociali precapitaliste (o piuttosto non capitaliste: avremo modo di discutere su quel prefisso “pre”) si sono rivelate assai più resilienti di quanto non immaginasse Marx, ma all’interno delle stesse società industriali avanzate la stratificazione di classe è enormemente cresciuta rispetto al tempo in cui egli scriveva, tanto che il proletariato industriale (in tutti i Paesi occidentali) vi appare ormai come una minoranza relativa. Come spiegare il fenomeno, ma soprattutto come interpretarne gli effetti rispetto alla definizione di un progetto rivoluzionario?

3) L’altra grande deviazione della realtà storica rispetto alle previsioni di Marx (strettamente intrecciata con quella precedente) è quella relativa al ruolo di affossatore del capitalismo attribuito alla classe operaia dei Paesi industriali avanzati, ma soprattutto al fatto che solo in questi ultimi esisterebbero le condizioni “oggettive” favorevoli a una rivoluzione socialista. Com’è noto, tutte le rivoluzioni socialiste si sono invece verificate nei Paesi “arretrati” del Sud del Mondo e hanno avuto come protagonista principale, se non unico, le larghe masse contadine (in più occasioni definite “barbare” da Marx, il quale considerava la loro espropriazione e trasformazione in lavoratori salariati uno dei lati più positivi della missione “civilizzatrice” del capitalismo). Vanno quindi riletti e approfonditi – sia sul piano economico, sia sul piano sociale, culturale e politico – i rapporti fra il modo di produzione capitalistico e gli altri modi di produzione, tanto nelle loro relazioni reciproche, quanto nella loro evoluzione storica.

4) Alcuni marxisti “ortodossi” risolvono la contraddizione appena descritta negando il carattere socialista delle rivoluzioni nate dalle lotte di liberazione nazionale del Terzo Mondo. Preferiscono restare fedeli all’approccio economicista/oggettivista (vedi sopra) che indica nella progressiva socializzazione del processo produttivo, nella sua crescente dipendenza dal general intellect, nella spersonalizzazione delle funzioni di progettazione, direzione, coordinamento del ciclo capitalistico, oltre che nel processo di crescente centralizzazione dei capitali, i principali, se non gli unici, presupposti della transizione al socialismo. In altre parole ignorano il ruolo del fattore soggettivo (l'autonomia del politico) come fattore di rottura, di radicale discontinuità del “normale” flusso della storia. Costoro, invece di spiegare l’incompatibilità fra socialismi concretamente e storicamente esistenti con il modello ideale originario, e di mettersi al lavoro per riformulare la teoria della transizione al socialismo, si attengono ai concetti (elaborati a fine Ottocento!) contenuti nella Critica al programma di Gotha (6). Per inciso, come vedremo, i Libri II e III del Capitale sono ricchi di riferimenti alle caratteristiche della futura società socialista, tanto da smentire la presunta prudenza di Marx nel trattare l’argomento.

5) Ancora in tema di visione della storia: alcuni concetti citati nei punti precedenti – la “missione storica” del capitalismo, l’uso del prefisso temporale pre (precapitalistico) per definire i modi di produzione non capitalisti, il presunto compito “civilizzatore” del capitalismo, la cosiddetta “barbarie” delle classi contadine ecc. – sono inequivocabili indicatori di un punto di vista eurocentrico (l’Europa come approdo del processo storico mondiale) estremizzato dalla maggioranza dei successori e allievi di Marx. Una visione chiaramente influenzata dall’illuminismo, progressismo ed evoluzionismo liberal-borghesi (in Marx mediati dalla filosofia hegeliana, negli epigoni votati alla ricerca di “purezza scientifica” della teoria (7) ispirati ai principi positivisti e/o strutturalisti). Le tracce di questo “regime narrativo”, che Costanzo Preve definisce immanentista e teleologico (8), sono come vedremo ampiamente presenti nei Libri II e III del Capitale.

6) Si è osservato che nel Capitale l'analisi procede dall’astratto al concreto: nel Libro I sono trattate categorie generalissime come merce, valore d’uso, valore di scambio, plusvalore ecc. mentre nei Libri II e III vengono descritte le forme fenomeniche in cui queste categorie si incarnano e appaiono alla coscienza dell'uomo comune: capitale produttivo, capitale commerciale, capitale bancario; il profitto si scinde in profitto, interesse e rendita; a seguire rotazione del capitale, crisi, concorrenza, monopolio, ecc. Tutto ciò è innegabile se lo si osserva dal punto di vista del progressivo disvelamento delle modalità di funzionamento del capitale (prima le leggi astratte che lo governano, poi i fenomeni in cui tali leggi si manifestano, infine il ritorno alle leggi "rivestite" della loro complessità fenomenica). Resta l'interrogativo: perché la lettura del Libro I risulta più agevole e appassionante? La mia ipotesi è che, mentre questa prima sezione racconta “in diretta” i primordi del modo di produzione: l’accumulazione primitiva, la distruzione delle classi contadine e artigiane, la loro resistenza e la loro riduzione a operai salariati, ecc., le sezioni successive descrivono la “concretizzazione” (nel senso esposto poco sopra) delle complesse articolazioni della macchina sociale del capitalismo, un processo che si presenta come oggettivazione dei soggetti viventi che lo “impersonano”: la classe operaia sparisce, nella misura in cui appare integrata come funzione, capitale variabile privato di attributi umani e, allo stesso modo – vedi i capitoli dedicati alla rendita fondiaria – sparisce la terra – l’altra “finta merce” che, al pari della forza lavoro, appare ridotta a puro oggetto, una “cosa”, che non essendo il prodotto del lavoro, non ha alcun valore (anche se il diritto borghese la rende monopolizzabile e quindi alienabile). Non è chiaro che da questa “de-naturalizzazione” di terra e lavoro si esce solo trascendendo (ecco la grande intuizione di Lenin) i rapporti immediati di produzione per attingere la dimensione della lotta politica per il potere?

7) Il percorso che intendo proporre ai lettori di questo blog non prevede un commento diretto agli schemi della riproduzione semplice e allargata contenuti nel Libro II. Non tanto e non solo a causa delle mie scarse competenze logico-matematiche, ma soprattutto perché preferisco affrontare il tema a partire dall’interpretazione critica che ne fu data da Rosa Luxemburg (9). Il suo approccio a questa sezione del Capitale, assieme a quello di Paul Baran e Paul Sweezy (10) offrono infatti decisivi spunti di riflessione per capire le cause profonde della minaccia di guerra che incombe sulle nostre teste, nella misura in cui consentono di comprendere la natura dell’imperialismo ancora più a fondo di quanto non lo abbiano fatto Lenin e altri autori più recenti.

Il percorso di ricerca appena descritto si articolerà in sei puntate che non seguiranno la successione dei precedenti interrogativi (i quali emergeranno in modo trasversale in ogni puntata), ma tratteranno, nell’ordine:
1) la storia e il ruolo del capitale commerciale e del capitale finanziario (capitale per il commercio di denaro) nei loro rapporti con il capitale industriale;
2) saggio di profitto, centralizzazione del capitale e crisi;
3) la socializzazione dei processi di produzione (il capitale come potenza sociale) come presupposto della transizione al socialismo;
4) rapporti reciproci fra modo di produzione capitalistico e altri modi di produzione;
5) de-naturalizzazione di terra e lavoro vivo (integrazione della classe operaia);
6) questioni di metodo (storicismo ed evoluzionismo).
Seguirà un'ultima puntata sull’accumulazione del capitale secondo Luxemburg e sul capitale monopolistico secondo Baran e Sweezy, finalizzata all'approfondimento della teoria dell’imperialismo.
Ogni puntata sarà introdotta da una serie di citazioni tratte da passaggi del II e del III Libro (senza rispettare l'ordine degli argomenti dei testi originali) seguita da un commentario. Si tratta di un approccio palesemente criticabile dal punto di vista accademico, ma chi scrive non nutre ambizioni di rispettabilità accademica.

Note

(1) Cfr. E. Dussel, Metafore teologiche di Marx, Schibboleth

(2) Cfr. Ombre rosse, Meltemi, Milano 2022; vedi anche Guerra e rivoluzione, Vol I. Cap. I, Meltemi, Milano 2023. Vedi infine la mia Prefazione all'edizione Meltemi (2023) della Ontologia dell'essere sociale di G. Lukacs.

(3) Un elenco, limitato ma significativo, di autori che hanno influito sul mio ripensamento critico di certi dogmi marxisti comprende: fra gli italiani, Giovanni Arrighi, Domenico Losurdo e Costanzo Preve; fra gli altri autori occidentali, Karl Polanyi, Walter Benjamin, P. Baran e P. Sweezy, Emmanuel Wallerstein, David Harvey; fra gli autori del Sud del mondo, Samir Amin, J. C. Mariategui, A. G. Linera, A. Cabral, Frantz Fanon, Cedric Robinson.

(4) G. Ruffolo, Il capitalismo ha i secoli contati, Einaudi, Torino 2009.

(5) Il Capitale, Libro III ( a cura di Bruno Maffi), p. 320, UTET, Torino 1987.

(6) K. Marx, Critica al programma di Gotha, Editori Riuniti.

(7) Il riferimento riguarda, fra gli altri, Louis Althusser.

(8) Cfr. C. Preve, La filosofia imperfetta. Una proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo, Franco Angeli, Milano 1984.

(9) R. Luxemburg, L'accumulazione del capitale, Einaudi, Torino 1960

(10) P. Baran, P. Sweezy, Il capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1966.

Fonte

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