di Carlo Formenti
Avvertenza: le parentesi quadre contengono chiarimenti o aggiunte del sottoscritto. Viceversa i termini in corsivo sono degli autori citati, salvo eccezioni esplicitamente segnalate.
2. Sui rapporti fra il modo di produzione capitalistico e le altre forme sociali
Secondo Marx, la forma di merce che i prodotti del lavoro umano tendono ad assumere a mano a mano che le forze produttive si sviluppano, tanto da generare una eccedenza rispetto alle esigenze del consumo immediato, e le relazioni sociali (scambio mercantile) che ne derivano, non vanno classificati solo fra i presupposti della nascita del modo di produzione capitalista, ma rappresentano anche e soprattutto gli agenti che consentono a quest’ultimo di assimilare-integrare tutte le forme sociali con cui esso viene a contatto. Entrambe queste funzioni sono ampiamente discusse sia nel Libro II che nel Libro III del Capitale.
Nel capitolo XX del III Libro leggiamo: “Qualunque sia il modo di produzione sulla cui base si producono i prodotti che entrano come merci nella circolazione – la comunità primigenia o la produzione schiavistica, la produzione a opera di piccoli contadini e piccoli artigiani o la produzione capitalistica – ciò nulla cambia al loro carattere di merci; e come merci essi devono attraversare il processo di scambio e i mutamenti di forma [cioè M-D e D-M] che lo accompagnano” (pp. 411-412).
Il medesimo concetto è spiegato in modo più ampio e dettagliato nel capitolo IV del II Libro: “il ciclo del capitale industriale, vuoi in quanto capitale denaro, vuoi in quanto capitale merce, si incrocia con la circolazione di merci dei più svariati modi di produzione sociale, nei limiti in cui questa è nello stesso tempo produzione di merci. Siano le merci il prodotto di un modo di produzione basato sulla schiavitù, o di contadini (cinesi, ryots indiani), o di comunità (Indie orientali olandesi ), o di una produzione statale (come, sulla base della servitù della gleba, si presenta in epoche passate della storia russa), o di popoli cacciatori semiselvaggi, ecc., come merci e denaro esse stanno di fronte al denaro e alle merci in cui è rappresentato il capitale industriale, ed entrano sia nel ciclo di quest’ultimo, sia nel ciclo del plusvalore di cui è depositario il capitale merce, in quanto sia speso come reddito; dunque, entrano in entrambi i rami di circolazione del capitale merce. Il carattere del processo di produzione da cui provengono è del tutto indifferente; come merci esse funzionano sul mercato, come merci entrano sia nel ciclo del capitale industriale, sia della circolazione del plusvalore in esso contenuto” (p. 141).
Notiamo per inciso che il cenno alla produzione statale, qui riferito a “epoche passate della storia russa”, oggi potrebbe riferirsi alle merci prodotte dalle imprese di stato cinesi o di altri Paesi socialisti il che, più avanti, ci costringerà a ragionare sulle implicazioni politiche della loro integrazione nel mercato mondiale. Ciò detto, l’immediata conseguenza del passaggio appena citato è che, come leggiamo alla pagina successiva, se è vero che il modo di produzione capitalistico è condizionato da modi di produzione esistenti fuori del suo livello di sviluppo, è altrettanto vero che “la sua tendenza è, per quanto possibile, di convertire ogni produzione in produzione di merci; il suo mezzo principale a questo scopo è appunto quello di attirarle nel proprio processo di circolazione”.
Molte delle riflessioni critiche che svolgerò in questo percorso faranno leva sullo spiraglio metodologico che quel per quanto possibile apre sul determinismo che sembra qui ispirare l’argomentazione di Marx (spiraglio che, come ho argomentato altrove (1), è stato usato da autori come Costanzo Preve (2) e Gyorgy Lukács (3) per contestare le interpretazioni teleologiche della concezione marxiana della storia). Qui dobbiamo tuttavia limitarci a prendere atto che Marx ci dice che la merce funge da minimo comun denominatore, svolge il ruolo di un “linguaggio universale” in grado di mettere in relazione i modi di produzione fra loro più diversi.
A prima vista, questa comune appartenenza dei modi di produzione alla sfera dello scambio mercantile non dovrebbe necessariamente comportare il prevalere di uno di essi su tutti gli altri. Ma per Marx le cose non stanno così: non appena la merce diviene capitale-merce essa si trasforma in un acido corrosivo che tutto dissolve: “Via via che questa [la produzione capitalistica di merci] si sviluppa, esercita effetti disgreganti e dissolventi su ogni forma di produzione anteriore, che, avendo soprattutto di mira i bisogni personali immediati, non trasforma in merce che l’eccedenza del prodotto” (Libro II, cap. I, p. 59). In poche parole, a determinare la differenza – nonché il dominio del modo di produzione capitalistico su tutte le altre forme sociali – è, da un lato, il carattere limitato della produzione semplice di merci (propria delle società in cui solo il prodotto che eccede il bisogno personale immediato diventa merce), dall’altro, il carattere illimitato della produzione capitalistica di merce, cioè di un sistema sociale in cui il capitale-merce dev’essere integralmente trasformato in profitto pena la sopravvivenza del sistema.
Attenzione: non è la forma merce in quanto tale a svolgere la funzione dissolvente appena descritta (affermarlo equivarrebbe ad attribuirle un potere metafisico), bensì è la merce capitale, vale a dire la merce trasfigurata dal processo storico di sviluppo del capitalismo. Alle origini di tale processo si colloca il capitale mercantile: “meno sviluppata è la produzione, più il patrimonio monetario si concentra nelle mani dei mercanti o appare come forma specifica del patrimonio commerciale” (Libro III, cap. XX, p 413). E poco sotto: “la sua [del capitale commerciale] esistenza e il suo sviluppo fino ad un certo livello sono anzi premessa storica dello sviluppo del modo di produzione capitalistico, 1) come presupposto della concentrazione di patrimoni monetari, 2) perché il modo di produzione capitalistico postula produzione per il commercio, vendita all’ingrosso e non ai singoli clienti” (Ivi). Ma questo non è di per sé sufficiente a garantire il passaggio da un modo di produzione all’altro. È pur vero che “il capitale deve formarsi nel processo di circolazione prima di apprendere a dominare i suoi estremi, le diverse sfere di produzione fra le quali la circolazione serve da mediatrice” (Libro III, cap. XX p.415), ma perché le sfere di produzione (capitalistica) in questione possano esistere, occorre che, a mano a mano che ogni prodotto cade nelle mani degli agenti della circolazione, questa forza centripeta del capitale mercantile produca i suoi effetti, che consistono, come anticipato sopra, nella tendenza a convertire ogni produzione in produzione di merci, il che implica la trasformazione di tutti i produttori immediati in operai salariati.
Nel capitolo XXIV del Libro I, nel quale analizza l’accumulazione primitiva, Marx descrive la spietatezza con cui il capitalismo procede alla separazione dei produttori immediati dai loro mezzi di produzione e alla loro trasformazione in operai salariati. Ma nei Libri II e III si dà per scontato che tale processo sia già compiuto, si presuppone cioè, “che le leggi del modo di produzione capitalistico si svolgano allo stato puro”, anche se Marx ammette che, nella realtà, “esiste sempre soltanto approssimazione; approssimazione però tanto maggiore, quanto più si è sviluppato il modo di produzione capitalistico e quanto più ne è limitata l'adulterazione e commistione con sopravvivenze di stati economici precedenti” (Libro III, cap. X, p. 227).
Esaurita la fase dell’accumulazione primitiva, il modo di produzione si fonda dunque sempre meno sull’appropriazione selvaggia del plusprodotto sociale per assumere la sua forma “pura”, compiuta: “il capitale industriale è il solo modo di esistere del capitale in cui la funzione di quest’ultimo non consista unicamente nell’appropriazione di plusvalore , rispettivamente plusprodotto, ma, nello stesso tempo, nella sua creazione. Esso perciò determina il carattere capitalistico della produzione; la sua esistenza implica quella dell’antitesi di classe fra capitalisti e salariati. Nella misura in cui esso si impadronisce della produzione sociale, la tecnica e l’organizzazione sociale del processo lavorativo e, con esse, il tipo storico-economico della società vengono rivoluzionati. Le altre specie di capitale non gli vengono soltanto subordinate e in conformità modificate nel meccanismo delle loro funzioni, ma non si muovono più che sulle sue basi, insieme alle quali vivono e muovono, stanno e cadono. Capitale denaro e capitale merce (…) non sono ormai più che modi di esistere – resi autonomi e sviluppati unilateralmente come esponenti di rami di affari propri – delle diverse forme di funzionamento che il capitale industriale ora riveste ed ora depone nella sfera della circolazione” (Libro II, Cap. I, p. 79). Al processo appena descritto appartiene la progressiva liquidazione dei piccoli capitalisti, che si presenta come una “separazione alla seconda potenza” delle condizioni di lavoro dai produttori, nella misura in cui, per questi soggetti, “il lavoro personale recita ancora una parte” (Libro III, cap. XV, p. 315).
Il modello teorico che emerge dalle citazioni che abbiamo estratto dai Libri II e III del Capitale, parrebbe giustificare la tesi secondo cui Marx avrebbe concepito una visione profetica dello sviluppo futuro del modo di produzione capitalistico, considerandolo destinato a culminare nella propria mondializzazione senza residui, caratterizzata dalla dissoluzione integrale di tutti gli altri modi di produzione e dal tramonto dei loro sistemi di relazione sociale, progressivamente rimpiazzarti dal rapporto egemone, se non esclusivo, fra capitale e lavoro salariato. Questo punto di vista trova legittimazione in quei passaggi del Manifesto del 1848 che esaltano la funzione “civilizzatrice” del modo di produzione capitalistico, nella misura in cui la sua energia “rivoluzionaria” sovverte ogni relazione economica, politica e sociale, oltre che ogni valore civile, religioso e culturale delle forme sociali tradizionali (definite barbare o semi barbare), sottraendole al loro “torpore” secolare e allargando a dismisura la schiera dei lavoratori salariati, futuri becchini di ogni forma di dominio, oppressione e sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Se dovessimo attenerci a questa interpretazione (come peraltro ha fatto buona parte della tradizione marxista occidentale) (4), ne ricaveremmo l’immagine di un Marx eurocentrico, condizionato dai paradigmi dell’evoluzionismo e dell'illuminismo progressista borghesi, o di quello che potremmo definire, con Costanzo Preve, un Marx intrappolato nei regimi narrativi “deterministico-naturalistico” e “grande narrativo” (5). Ora non si può negare che Marx, in sintonia con la sua nota metafora secondo cui sarebbe la natura umana a offrire la chiave interpretativa della natura della scimmia, abbia detto che il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare a quello meno sviluppato l’immagine del suo avvenire, tuttavia Baran e Sweezy, laddove citano tale affermazione (6), notano giustamente che essa andrebbe intesa nel senso che gli altri paesi europei avrebbero seguito la via tracciata dall’Inghilterra, più che come profezia sul futuro mondiale. Ma soprattutto non va dimenticato che in queste pagine Marx descrive un processo tendenziale e non un destino e, come avremo modo di vedere più avanti, è sempre attento ad analizzare le controtendenze che possono deviare il corso della storia in direzioni inedite.
In effetti, fatta eccezione per l’analisi del ruolo svolto dal saccheggio dei popoli colonizzati da parte delle metropoli capitalistiche nell’accumulazione primitiva, contenuta nelle parti finali del Libro I, Marx non ha ampliato, se non per cenni episodici, il proprio modello teorico fino a comprendere tanto i segmenti sviluppati quanto quelli sottosviluppati del mondo capitalistico, il che, commentano Baran e Sweezy, “ha avuto lo spiacevole effetto di concentrare l’attenzione in maniera esclusiva sui paesi capitalistici sviluppati” (7). Non a caso tutti i contributi innovativi alla teoria marxista, dall’analisi di Lenin sul capitale monopolistico (8) a quello degli appena citati Baran e Sweezy, alle analisi della “banda dei quattro” – appellativo con cui Alessandro Visalli definisce i massimi teorici del sottosviluppo e del rapporto centro-periferia nel sistema mondo: Immanuel Wallerstein, Giovanni Arrighi, Samir Amin e Gunder Frank (9) – si impegnano nello sforzo di porre rimedio a questo “buco” nell’opera di Marx. Mentre a David Harvey va riconosciuto il merito di avere messo in luce come la cosiddetta accumulazione primitiva non sia una fase storica limitata ai primordi dello sviluppo capitalistico, bensì un dispositivo sistemico permanente, che questo autore definisce accumulazione per espropriazione (10).
Dopodiché va sottolineato come sia stato lo stesso Marx a smentire in varie occasioni - soprattutto nei testi “tardi” della seconda metà degli anni Settanta dell’800 – le letture deterministiche (teleologiche) del suo lavoro. Così ha invertito il proprio giudizio nei confronti del rapporti fra imperialismo inglese e colonia irlandese: laddove, in precedenza, aveva sostenuto – in ossequio alla presunta missione progressista/emancipatoria del modo di produzione capitalista metropolitano nei confronti dei modi di produzione precapitalistici delle colonie (proletarizzazione dei piccoli contadini) – che gli irlandesi si sarebbero potuti emancipare solo in seguito a una vittoriosa rivoluzione degli operai inglesi ma, una volta preso atto del fatto che il supersfruttamento della forza lavoro irlandese immigrata consentiva al capitalismo inglese di concedere privilegi ai lavoratori autoctoni, ha riconosciuto che, al contrario, nessuna rivoluzione proletaria sarebbe potuta avvenire in Inghilterra finché l’Irlanda non avesse conquistato la propria indipendenza (anticipando così le tesi di Lenin sul rapporto fra rivoluzione proletaria e lotte di liberazione nazionale).
Di più: in una lettera del 1877 alla redazione di una rivista russa che aveva ospitato una recensione dell’edizione russa del Capitale scriveva, a proposito della tesi del recensore, il quale utilizzava il capitolo sull'accumulazione primitiva per sostenere che nessuna rivoluzione sociale sarebbe potuta avvenire in Russia se non dopo la completa espropriazione (e la riduzione allo status di lavoratori salariati) dei contadini, “[il mio critico] sente il bisogno di metamorfosare il mio schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico-filosofica della marcia generale imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione storica si trovino (sottolineatura mia), per giungere infine alla forma economica che, con la maggior somma di potere produttivo del lavoro sociale, assicura il più integrale sviluppo dell’uomo. Ma io gli chiedo scusa: è farmi insieme troppo onore e troppo torto [sottinteso: troppo onore nell’attribuirmi la capacità di descrivere le leggi generali di sviluppo dell’umanità, troppo torto nell’attribuirmi intenzioni e meriti che non ho mai nutrito né rivendicato]”(11).
Il passaggio è particolarmente significativo, sia in quanto conferma la tesi di Lukács, laddove costui nega l’intenzione di Marx di formulare delle “leggi generali” della storia in grado di prevederne gli sviluppi (12), sia perché, in quegli stessi anni, Marx stilava la celebre lettera a Vera Zasulič, nella quale, intervenendo sul dibattito fra socialdemocratici e populisti russi, non escludeva, in linea di principio e fatte salve determinate condizioni (13), che la comune contadina (obscina) potesse svolgere il ruolo di agente di una trasformazione in senso socialista della Russia, senza passare sotto le forche caudine della fase capitalistica. È qui che possiamo valutare l’importanza dell’inciso evidenziato in precedenza nella frase “la sua [del modo di produzione capitalistico] tendenza è, per quanto possibile, di convertire ogni produzione in produzione di merci”. Il per quanto possibile implica che le forme sociali precapitaliste possano non solo resistere al ma, date certe condizioni storiche, prevalere sul tentativo di colonizzazione da parte del modo di produzione capitalistico.
Del resto nel III Libro (Cap. XX p. 420) Marx precisa che la capacità del capitalismo mercantile di provocare la disgregazione dei vecchi modi di produzione “dipende, in primo luogo, dalla loro stabilità e articolazione interna”. E a pagina 422 aggiunge che, “in Cina, dove non viene loro in aiuto la forza politica diretta. La grande economia e il forte risparmio di tempo derivanti dalla combinazione immediata di agricoltura e manifattura, offrono qui la resistenza più accanita ai prodotti della grande industria”. Su queste aperture dell’ultimo Marx alcuni marxisti latinoamericani – fra i quali Mariategui (14) Dussel (15) e Linera (16) – hanno fondato le loro analisi sul potenziale anticapitalista delle comunità originarie del subcontinente. Quanto all’attualità del riferimento marxiano alla capacità di resilienza della società e della civiltà cinese a fronte dell’aggressione imperialista occidentale, me ne occuperò nell’ultima parte di questo articolo a partire da due lavori, nell’ordine del duo Alberto Gabriele-Elias Jabbour (17) e di Giovanni Arrighi (18).
Avvertenza: le parentesi quadre contengono chiarimenti o aggiunte del sottoscritto. Viceversa i termini in corsivo sono degli autori citati, salvo eccezioni esplicitamente segnalate.
2. Sui rapporti fra il modo di produzione capitalistico e le altre forme sociali
Secondo Marx, la forma di merce che i prodotti del lavoro umano tendono ad assumere a mano a mano che le forze produttive si sviluppano, tanto da generare una eccedenza rispetto alle esigenze del consumo immediato, e le relazioni sociali (scambio mercantile) che ne derivano, non vanno classificati solo fra i presupposti della nascita del modo di produzione capitalista, ma rappresentano anche e soprattutto gli agenti che consentono a quest’ultimo di assimilare-integrare tutte le forme sociali con cui esso viene a contatto. Entrambe queste funzioni sono ampiamente discusse sia nel Libro II che nel Libro III del Capitale.
Nel capitolo XX del III Libro leggiamo: “Qualunque sia il modo di produzione sulla cui base si producono i prodotti che entrano come merci nella circolazione – la comunità primigenia o la produzione schiavistica, la produzione a opera di piccoli contadini e piccoli artigiani o la produzione capitalistica – ciò nulla cambia al loro carattere di merci; e come merci essi devono attraversare il processo di scambio e i mutamenti di forma [cioè M-D e D-M] che lo accompagnano” (pp. 411-412).
Il medesimo concetto è spiegato in modo più ampio e dettagliato nel capitolo IV del II Libro: “il ciclo del capitale industriale, vuoi in quanto capitale denaro, vuoi in quanto capitale merce, si incrocia con la circolazione di merci dei più svariati modi di produzione sociale, nei limiti in cui questa è nello stesso tempo produzione di merci. Siano le merci il prodotto di un modo di produzione basato sulla schiavitù, o di contadini (cinesi, ryots indiani), o di comunità (Indie orientali olandesi ), o di una produzione statale (come, sulla base della servitù della gleba, si presenta in epoche passate della storia russa), o di popoli cacciatori semiselvaggi, ecc., come merci e denaro esse stanno di fronte al denaro e alle merci in cui è rappresentato il capitale industriale, ed entrano sia nel ciclo di quest’ultimo, sia nel ciclo del plusvalore di cui è depositario il capitale merce, in quanto sia speso come reddito; dunque, entrano in entrambi i rami di circolazione del capitale merce. Il carattere del processo di produzione da cui provengono è del tutto indifferente; come merci esse funzionano sul mercato, come merci entrano sia nel ciclo del capitale industriale, sia della circolazione del plusvalore in esso contenuto” (p. 141).
Notiamo per inciso che il cenno alla produzione statale, qui riferito a “epoche passate della storia russa”, oggi potrebbe riferirsi alle merci prodotte dalle imprese di stato cinesi o di altri Paesi socialisti il che, più avanti, ci costringerà a ragionare sulle implicazioni politiche della loro integrazione nel mercato mondiale. Ciò detto, l’immediata conseguenza del passaggio appena citato è che, come leggiamo alla pagina successiva, se è vero che il modo di produzione capitalistico è condizionato da modi di produzione esistenti fuori del suo livello di sviluppo, è altrettanto vero che “la sua tendenza è, per quanto possibile, di convertire ogni produzione in produzione di merci; il suo mezzo principale a questo scopo è appunto quello di attirarle nel proprio processo di circolazione”.
Molte delle riflessioni critiche che svolgerò in questo percorso faranno leva sullo spiraglio metodologico che quel per quanto possibile apre sul determinismo che sembra qui ispirare l’argomentazione di Marx (spiraglio che, come ho argomentato altrove (1), è stato usato da autori come Costanzo Preve (2) e Gyorgy Lukács (3) per contestare le interpretazioni teleologiche della concezione marxiana della storia). Qui dobbiamo tuttavia limitarci a prendere atto che Marx ci dice che la merce funge da minimo comun denominatore, svolge il ruolo di un “linguaggio universale” in grado di mettere in relazione i modi di produzione fra loro più diversi.
A prima vista, questa comune appartenenza dei modi di produzione alla sfera dello scambio mercantile non dovrebbe necessariamente comportare il prevalere di uno di essi su tutti gli altri. Ma per Marx le cose non stanno così: non appena la merce diviene capitale-merce essa si trasforma in un acido corrosivo che tutto dissolve: “Via via che questa [la produzione capitalistica di merci] si sviluppa, esercita effetti disgreganti e dissolventi su ogni forma di produzione anteriore, che, avendo soprattutto di mira i bisogni personali immediati, non trasforma in merce che l’eccedenza del prodotto” (Libro II, cap. I, p. 59). In poche parole, a determinare la differenza – nonché il dominio del modo di produzione capitalistico su tutte le altre forme sociali – è, da un lato, il carattere limitato della produzione semplice di merci (propria delle società in cui solo il prodotto che eccede il bisogno personale immediato diventa merce), dall’altro, il carattere illimitato della produzione capitalistica di merce, cioè di un sistema sociale in cui il capitale-merce dev’essere integralmente trasformato in profitto pena la sopravvivenza del sistema.
Attenzione: non è la forma merce in quanto tale a svolgere la funzione dissolvente appena descritta (affermarlo equivarrebbe ad attribuirle un potere metafisico), bensì è la merce capitale, vale a dire la merce trasfigurata dal processo storico di sviluppo del capitalismo. Alle origini di tale processo si colloca il capitale mercantile: “meno sviluppata è la produzione, più il patrimonio monetario si concentra nelle mani dei mercanti o appare come forma specifica del patrimonio commerciale” (Libro III, cap. XX, p 413). E poco sotto: “la sua [del capitale commerciale] esistenza e il suo sviluppo fino ad un certo livello sono anzi premessa storica dello sviluppo del modo di produzione capitalistico, 1) come presupposto della concentrazione di patrimoni monetari, 2) perché il modo di produzione capitalistico postula produzione per il commercio, vendita all’ingrosso e non ai singoli clienti” (Ivi). Ma questo non è di per sé sufficiente a garantire il passaggio da un modo di produzione all’altro. È pur vero che “il capitale deve formarsi nel processo di circolazione prima di apprendere a dominare i suoi estremi, le diverse sfere di produzione fra le quali la circolazione serve da mediatrice” (Libro III, cap. XX p.415), ma perché le sfere di produzione (capitalistica) in questione possano esistere, occorre che, a mano a mano che ogni prodotto cade nelle mani degli agenti della circolazione, questa forza centripeta del capitale mercantile produca i suoi effetti, che consistono, come anticipato sopra, nella tendenza a convertire ogni produzione in produzione di merci, il che implica la trasformazione di tutti i produttori immediati in operai salariati.
Nel capitolo XXIV del Libro I, nel quale analizza l’accumulazione primitiva, Marx descrive la spietatezza con cui il capitalismo procede alla separazione dei produttori immediati dai loro mezzi di produzione e alla loro trasformazione in operai salariati. Ma nei Libri II e III si dà per scontato che tale processo sia già compiuto, si presuppone cioè, “che le leggi del modo di produzione capitalistico si svolgano allo stato puro”, anche se Marx ammette che, nella realtà, “esiste sempre soltanto approssimazione; approssimazione però tanto maggiore, quanto più si è sviluppato il modo di produzione capitalistico e quanto più ne è limitata l'adulterazione e commistione con sopravvivenze di stati economici precedenti” (Libro III, cap. X, p. 227).
Esaurita la fase dell’accumulazione primitiva, il modo di produzione si fonda dunque sempre meno sull’appropriazione selvaggia del plusprodotto sociale per assumere la sua forma “pura”, compiuta: “il capitale industriale è il solo modo di esistere del capitale in cui la funzione di quest’ultimo non consista unicamente nell’appropriazione di plusvalore , rispettivamente plusprodotto, ma, nello stesso tempo, nella sua creazione. Esso perciò determina il carattere capitalistico della produzione; la sua esistenza implica quella dell’antitesi di classe fra capitalisti e salariati. Nella misura in cui esso si impadronisce della produzione sociale, la tecnica e l’organizzazione sociale del processo lavorativo e, con esse, il tipo storico-economico della società vengono rivoluzionati. Le altre specie di capitale non gli vengono soltanto subordinate e in conformità modificate nel meccanismo delle loro funzioni, ma non si muovono più che sulle sue basi, insieme alle quali vivono e muovono, stanno e cadono. Capitale denaro e capitale merce (…) non sono ormai più che modi di esistere – resi autonomi e sviluppati unilateralmente come esponenti di rami di affari propri – delle diverse forme di funzionamento che il capitale industriale ora riveste ed ora depone nella sfera della circolazione” (Libro II, Cap. I, p. 79). Al processo appena descritto appartiene la progressiva liquidazione dei piccoli capitalisti, che si presenta come una “separazione alla seconda potenza” delle condizioni di lavoro dai produttori, nella misura in cui, per questi soggetti, “il lavoro personale recita ancora una parte” (Libro III, cap. XV, p. 315).
Il modello teorico che emerge dalle citazioni che abbiamo estratto dai Libri II e III del Capitale, parrebbe giustificare la tesi secondo cui Marx avrebbe concepito una visione profetica dello sviluppo futuro del modo di produzione capitalistico, considerandolo destinato a culminare nella propria mondializzazione senza residui, caratterizzata dalla dissoluzione integrale di tutti gli altri modi di produzione e dal tramonto dei loro sistemi di relazione sociale, progressivamente rimpiazzarti dal rapporto egemone, se non esclusivo, fra capitale e lavoro salariato. Questo punto di vista trova legittimazione in quei passaggi del Manifesto del 1848 che esaltano la funzione “civilizzatrice” del modo di produzione capitalistico, nella misura in cui la sua energia “rivoluzionaria” sovverte ogni relazione economica, politica e sociale, oltre che ogni valore civile, religioso e culturale delle forme sociali tradizionali (definite barbare o semi barbare), sottraendole al loro “torpore” secolare e allargando a dismisura la schiera dei lavoratori salariati, futuri becchini di ogni forma di dominio, oppressione e sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Se dovessimo attenerci a questa interpretazione (come peraltro ha fatto buona parte della tradizione marxista occidentale) (4), ne ricaveremmo l’immagine di un Marx eurocentrico, condizionato dai paradigmi dell’evoluzionismo e dell'illuminismo progressista borghesi, o di quello che potremmo definire, con Costanzo Preve, un Marx intrappolato nei regimi narrativi “deterministico-naturalistico” e “grande narrativo” (5). Ora non si può negare che Marx, in sintonia con la sua nota metafora secondo cui sarebbe la natura umana a offrire la chiave interpretativa della natura della scimmia, abbia detto che il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare a quello meno sviluppato l’immagine del suo avvenire, tuttavia Baran e Sweezy, laddove citano tale affermazione (6), notano giustamente che essa andrebbe intesa nel senso che gli altri paesi europei avrebbero seguito la via tracciata dall’Inghilterra, più che come profezia sul futuro mondiale. Ma soprattutto non va dimenticato che in queste pagine Marx descrive un processo tendenziale e non un destino e, come avremo modo di vedere più avanti, è sempre attento ad analizzare le controtendenze che possono deviare il corso della storia in direzioni inedite.
In effetti, fatta eccezione per l’analisi del ruolo svolto dal saccheggio dei popoli colonizzati da parte delle metropoli capitalistiche nell’accumulazione primitiva, contenuta nelle parti finali del Libro I, Marx non ha ampliato, se non per cenni episodici, il proprio modello teorico fino a comprendere tanto i segmenti sviluppati quanto quelli sottosviluppati del mondo capitalistico, il che, commentano Baran e Sweezy, “ha avuto lo spiacevole effetto di concentrare l’attenzione in maniera esclusiva sui paesi capitalistici sviluppati” (7). Non a caso tutti i contributi innovativi alla teoria marxista, dall’analisi di Lenin sul capitale monopolistico (8) a quello degli appena citati Baran e Sweezy, alle analisi della “banda dei quattro” – appellativo con cui Alessandro Visalli definisce i massimi teorici del sottosviluppo e del rapporto centro-periferia nel sistema mondo: Immanuel Wallerstein, Giovanni Arrighi, Samir Amin e Gunder Frank (9) – si impegnano nello sforzo di porre rimedio a questo “buco” nell’opera di Marx. Mentre a David Harvey va riconosciuto il merito di avere messo in luce come la cosiddetta accumulazione primitiva non sia una fase storica limitata ai primordi dello sviluppo capitalistico, bensì un dispositivo sistemico permanente, che questo autore definisce accumulazione per espropriazione (10).
Dopodiché va sottolineato come sia stato lo stesso Marx a smentire in varie occasioni - soprattutto nei testi “tardi” della seconda metà degli anni Settanta dell’800 – le letture deterministiche (teleologiche) del suo lavoro. Così ha invertito il proprio giudizio nei confronti del rapporti fra imperialismo inglese e colonia irlandese: laddove, in precedenza, aveva sostenuto – in ossequio alla presunta missione progressista/emancipatoria del modo di produzione capitalista metropolitano nei confronti dei modi di produzione precapitalistici delle colonie (proletarizzazione dei piccoli contadini) – che gli irlandesi si sarebbero potuti emancipare solo in seguito a una vittoriosa rivoluzione degli operai inglesi ma, una volta preso atto del fatto che il supersfruttamento della forza lavoro irlandese immigrata consentiva al capitalismo inglese di concedere privilegi ai lavoratori autoctoni, ha riconosciuto che, al contrario, nessuna rivoluzione proletaria sarebbe potuta avvenire in Inghilterra finché l’Irlanda non avesse conquistato la propria indipendenza (anticipando così le tesi di Lenin sul rapporto fra rivoluzione proletaria e lotte di liberazione nazionale).
Di più: in una lettera del 1877 alla redazione di una rivista russa che aveva ospitato una recensione dell’edizione russa del Capitale scriveva, a proposito della tesi del recensore, il quale utilizzava il capitolo sull'accumulazione primitiva per sostenere che nessuna rivoluzione sociale sarebbe potuta avvenire in Russia se non dopo la completa espropriazione (e la riduzione allo status di lavoratori salariati) dei contadini, “[il mio critico] sente il bisogno di metamorfosare il mio schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico-filosofica della marcia generale imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione storica si trovino (sottolineatura mia), per giungere infine alla forma economica che, con la maggior somma di potere produttivo del lavoro sociale, assicura il più integrale sviluppo dell’uomo. Ma io gli chiedo scusa: è farmi insieme troppo onore e troppo torto [sottinteso: troppo onore nell’attribuirmi la capacità di descrivere le leggi generali di sviluppo dell’umanità, troppo torto nell’attribuirmi intenzioni e meriti che non ho mai nutrito né rivendicato]”(11).
Il passaggio è particolarmente significativo, sia in quanto conferma la tesi di Lukács, laddove costui nega l’intenzione di Marx di formulare delle “leggi generali” della storia in grado di prevederne gli sviluppi (12), sia perché, in quegli stessi anni, Marx stilava la celebre lettera a Vera Zasulič, nella quale, intervenendo sul dibattito fra socialdemocratici e populisti russi, non escludeva, in linea di principio e fatte salve determinate condizioni (13), che la comune contadina (obscina) potesse svolgere il ruolo di agente di una trasformazione in senso socialista della Russia, senza passare sotto le forche caudine della fase capitalistica. È qui che possiamo valutare l’importanza dell’inciso evidenziato in precedenza nella frase “la sua [del modo di produzione capitalistico] tendenza è, per quanto possibile, di convertire ogni produzione in produzione di merci”. Il per quanto possibile implica che le forme sociali precapitaliste possano non solo resistere al ma, date certe condizioni storiche, prevalere sul tentativo di colonizzazione da parte del modo di produzione capitalistico.
Del resto nel III Libro (Cap. XX p. 420) Marx precisa che la capacità del capitalismo mercantile di provocare la disgregazione dei vecchi modi di produzione “dipende, in primo luogo, dalla loro stabilità e articolazione interna”. E a pagina 422 aggiunge che, “in Cina, dove non viene loro in aiuto la forza politica diretta. La grande economia e il forte risparmio di tempo derivanti dalla combinazione immediata di agricoltura e manifattura, offrono qui la resistenza più accanita ai prodotti della grande industria”. Su queste aperture dell’ultimo Marx alcuni marxisti latinoamericani – fra i quali Mariategui (14) Dussel (15) e Linera (16) – hanno fondato le loro analisi sul potenziale anticapitalista delle comunità originarie del subcontinente. Quanto all’attualità del riferimento marxiano alla capacità di resilienza della società e della civiltà cinese a fronte dell’aggressione imperialista occidentale, me ne occuperò nell’ultima parte di questo articolo a partire da due lavori, nell’ordine del duo Alberto Gabriele-Elias Jabbour (17) e di Giovanni Arrighi (18).
*****
Ad Alberto Gabriele ed Elias Jabbour dobbiamo un importante contributo teorico sulla questione della transizione al socialismo. Si tratta di un testo sul quale dovrò soffermarmi in modo più approfondito allorché affronterò le parti dei Libri II e III dedicate al processo di socializzazione del capitale e alle sue implicazioni nei confronti della transizione al socialismo. Qui mi limiterò a descrivere la loro visione eterodossa della categoria marxiana di modo di produzione e alla tesi della compresenza di più modi di produzione sia a livello mondiale che nell’ambito di una singola realtà nazionale.
Poco sopra abbiamo visto come il modello marxiano non conceda chance di sopravvivenza agli altri modi di produzione che vengono a contatto con il modo di produzione capitalistico attraverso la circolazione mercantile. Tutte le forme sociali che si aprono alle merci capitalistiche sono inevitabilmente destinate a venire integrate, sia pure in misura e forme diverse, al modo di produzione che le produce. Marx ha ovviamente in testa il rapporto fra modo di produzione capitalistico e modi di produzione precapitalistici ma, a un secolo di distanza dalla nascita del primo paese socialista, cui hanno fatto seguito altre rivoluzioni, è inevitabile prendere in considerazione anche il rapporto fra modo di produzione capitalistico e paesi socialisti. Sappiamo che per molti teorici marxisti questo rapporto è mortale per i secondi: nella misura in cui questi ultimi vengono integrati (attraverso scambi commerciali, investimenti diretti e indiretti, ecc.) nel sistema economico mondiale dominato dal modo di produzione capitalistico, il loro destino è segnato: prima o poi finiranno per tornare a essere paesi capitalisti (non a caso un autore come Samir Amin teorizza il delinking (19) invitando i paesi del Sud del mondo che intendono imboccare la via del socialismo a sganciarsi dal mercato mondiale).
Gabriele e Jabbour ribaltano questa prospettiva a partire dalla messa in questione del concetto stesso di modo di produzione. Non si tratta di abbandonarlo, argomentano, bensì di relativizzarlo, tenendo conto della sua natura di modello astratto. Nel mondo reale non esistono modi di produzione, bensì formazioni socioeconomiche che si avvicinano solo approssimativamente al modello astratto. La relazione fra modo di produzione come figura universale, strutturale e costante e le sue particolari e specifiche manifestazioni storico-geografiche, scrivono (20), “è lungi dall’essere semplice”. Il primato di un determinato modo di produzione in uno specifico contesto storico, aggiungono (21), può essere assoluto o relativo. Se, per esempio, gli Stati Uniti costituiscono un caso di supremazia assoluta del modo di produzione capitalistico, in altre formazioni socioeconomiche possono esistere due o più modi di produzione che stanno fra loro in rapporti di rivalità e/o di simbiosi.
Quest’ultima affermazione è compatibile con quanto afferma lo stesso Marx in merito al rapporto di simbiosi fra modo di produzione capitalistico e modo di produzione schiavistico nelle colonie dei paesi capitalisti, o alla sussunzione di varie forme produttive arcaiche all’interno del ciclo del capitale, ecc.. La differenza sta nel fatto che, mentre Marx ipotizza che queste forme ibride siano, almeno tendenzialmente, residui destinati ad evolvere verso la forma capitalista “pura”, Gabriele e Jabbour disegnano uno scenario più complesso e contraddittorio. Posto che a livello mondiale si può affermare che la previsione di Marx si è realizzata, nel senso che ovunque vige la legge del valore che caratterizza ogni forma di produzione mercantile fondata su relazioni monetarie di produzione e scambio (il che vale tanto per i paesi capitalisti quanto per i paesi socialisti e i paesi con consistenti residui di forme produttive precapitalistiche) (22), secondo Gabriele e Jabbour ciò non implica:
1) che la mera esistenza del plusvalore sia di per sé indice di sfruttamento di classe;
2) né che, pur restando il modo di produzione capitalistico dominante a livello mondiale, in alcuni paesi non possano convivere due o più modi di produzione, e che a prevalere, sulla lunga distanza, non sia necessariamente quello capitalistico.
Questa condizione ibrida di convivenza fra più modi di produzione sarebbe propria di quei paesi che Gabriele e Jabbour definiscono sistemi socialistici, fra i quali collocano la Cina, caratterizzati dal ruolo prevalente giocato dallo stato in economia, e dal perseguimento di obiettivi quali riduzione della disuguaglianza, soddisfazione universale dei bisogni di base, sostenibilità ambientale, ecc. si tratta di sistemi misti dove:
a) il meccanismo dei prezzi di mercato e la legge del valore sono la forma prevalente di regolazione nel breve medio termine;
b) il ruolo diretto e indiretto dello stato e il suo controllo sull’economia sono qualitativamente e quantitativamente superiori rispetto ai paesi capitalisti;
c) il governo rivendica ufficialmente come obiettivo a lungo termine la realizzazione del socialismo in un contesto di rapido sviluppo socioeconomico, progresso tecnologico ed evoluzione degli strumenti di governance economica.
Il progresso verso il socialismo, in un simile quadro, può essere descritto come uno scenario in cui le interazioni di mercato e la legge del valore mantengano il loro ruolo e restano valide anche se la loro tradizionale egemonia subisce un progressivo indebolimento (23).
*****
Anche nel caso di Arrighi mi limiterò ad alcuni cenni relativi al tema di questo primo articolo dedicato ai Libri II e III del Capitale, riservandomi di riprendere le tesi di questo autore quando affronterò il processo di socializzazione del capitale e le sue implicazioni nei confronti della transizione al socialismo.
Nelle prime pagine del suo capolavoro – Adam Smith a Pechino (24) – Giovanni Arrighi esorta a “prendere più sul serio la sociologia economica dell’economia”, ponendosi sulla scia di autori come Fernand Braudel e Karl Polanyi, i quali hanno spostato l’asse dell’analisi della forma sociale capitalistica dal piano dell’economia “pura” al piano della sociologia e dell’antropologia culturale. Arrighi imbocca la stessa direzione rovesciando l’interpretazione “canonica” delle teorie di Adam Smith: costui, argomenta, è erroneamente liquidato come l’apologeta del mercato autoregolantesi, che basta lasciare operare liberamente perché generi spontaneamente la ricchezza delle nazioni, mentre in realtà era ben consapevole che solo l’esistenza di uno Stato forte poteva garantire le condizioni di esistenza del mercato stesso, al punto da avanzare la tesi che i mercati non devono essere abbandonati al loro sviluppo spontaneo, bensì “usati” come strumenti di controllo e di governo. Una tesi, argomenta Arrighi, che ci consente di capire la logica delle “economie di mercato non capitalistiche” delle quali la Cina rappresenta il massimo esempio contemporaneo.
Adam Smith, secondo Arrighi, lo aveva intuito già nel 1776, laddove scriveva che la Cina era allora più ricca di qualsiasi Paese europeo grazie al carattere “stazionario” della sua economia (nel senso che ignorava la spinta di tipo europeo all’accumulazione illimitata), cioè grazie al fatto che aveva raggiunto la pienezza di ricchezze consentita dalla natura del suolo, dal clima e dalla posizione geografica. Sempre Smith definiva come “naturale” questo tipo di sviluppo, basato sull’agricoltura e sul commercio interno, mettendolo in contrapposizione con lo sviluppo “innaturale” delle economie europee, basato sul commercio estero.
Arrighi sfrutta questa distinzione per sviluppare una critica nei confronti della tesi marxiana che vede nel modo di produzione capitalistico una fase che il mondo intero dovrà attraversare, prima di riuscire liberarsi dalle ferree “leggi” dell’economia (anche se, come abbiamo visto sopra, l’ultimo Marx non ne era più tanto convinto). Secondo il Marx del Capitale, lo sviluppo che Smith definisce “naturale” non ha alcun futuro possibile in un mondo in cui sia già diffuso lo sviluppo “innaturale” del modo di produzione capitalistico; quest’ultimo, grazie alla sua irresistibile spinta a travolgere ogni ostacolo, condanna ogni altra formazione sociale a disgregarsi non appena entra in contatto con le sue merci.
La potenza della “via innaturale”, argomenta Arrighi (qui in perfetta sintonia con Marx), era il frutto dell’intensa competizione fra nazioni europee che aveva generato un mix unico di capitalismo, industrialismo e militarismo, unitamente a una superiorità tecnologica che le consentì di stroncare la resistenza delle nazioni extraeuropee. Resta però il fatto, sostiene ancora Arrighi, che l’appiattimento “globalista” previsto da Marx non si è realizzato: culture, tradizioni, modelli di relazioni sociali, forme di vita non solo hanno resistito ma, approfittando della crisi generata dal “troppo successo” del modello neoliberale, hanno contrattaccato, generando modelli di sviluppo alternativi a quello dominante, modelli fondati sul mercato ma non capitalistici, dei quali la Cina rappresenta l’esempio più significativo. Per ora mi fermo qui, limitandomi a concludere con una osservazione metodologica: nella misura in cui assumiamo questo punto di vista, rifiutando la visione immanentista-teleologica della storia come processo unidirezionale verso il “progresso”, dovremmo sostituire la definizione di formazioni sociali pre-capitalistiche con quella di formazioni sociali non-capitalistiche.
Note
(1) cfr. C. Formenti, Ombre rosse. Saggi sull'ultimo Lukács e altre eresie, Meltemi, Milano 2022; vedi anche Guerra e rivoluzione, vol. I cap. I, Meltemi, Milano 2023; vedi infine, con Onofrio Romano, Tagliare i rami secchi, DeriveApprodi, Roma 2019.
(2) Cfr., in particolare, La filosofia imperfetta, Franco Angeli, Milano 1984.
(3) Cfr- G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll. , Meltemi, Milano 2023.
(4) Per un’analisi critica del marxismo occidentale cfr. D. Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma-Bari 2017.
(5) Cfr. C. Preve, op. cit. Preve usa le seguenti definizioni per connotare i due regimi narrativi che attribuisce a Marx: 1) l’idea che la storia umana sia governata da “leggi” paragonabili alle leggi di natura (regime deterministico-naturalistico); 2) una “metafisica immanentistica governata da un Soggetto che marcia verso l’utopia di una società integralmente trasparente” (regine grande narrativo). A questi regimi Preve contrappone un terzo regime a suo avviso presente nell’opera marxiana, che egli definisce, seguendo la lezione di Lukács (cfr. nota 3), ontologico-sociale.
(6) Cfr. P. Baran, P, Sweezy, Il capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1968.
(7) Ivi, p. 8
(8) Cfr. V. I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo,in Opere scelte, Vol. I, Edizioni in Lingue Estere, Mosca 1947.
(9) Cfr. A Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020.
(10) Cfr. D. Harvey, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza, Feltrinelli, Milano 2011.
(11) La lettera si trova in K. Marx, F. Engels, India Cina Russia, il Saggiatore, Milano 1960.
(12) La critica lukacsiana alle interpretazioni teleologiche della visione marxiana della storia è ricorrente nella sua Ontologia sociale, cit.
(13) Anche le varie versioni della lettera a Vera Zasulič si trovano in India Cina Russia, cit.
(14) Cfr. J. C. Mariategui, Sette saggi sulla realtà peruviana e altri scritti politici, Einaudi, Torino 1972.
(15) Cfr. E. Dussel, L'ultimo Marx, Manifestolibri, Roma 2009.
(16) Cfr. A. G. Linera, Forma valor y forma comunidad, Traficantes de Sueños, Quito 2015.
(17) A. Gabriele, E. Jabbour, Socialist Economic Development in the 21 Century, Routledge, London 2022.
(18) G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2007.
(19) Cfr. Samir Amin, La déconnextion, la Découvert, Paris 1986.
(20) Socialist Economic... cit., p. 51.
(21) Ivi, P. p. 52
(22) Ivi p. 79. Secondo i due autori la convivenza fra differenti modi di produzione a livello mondiale può essere definita come un “meta modo di produzione” caratterizzato da produzione di merci e rapporti monetari di produzione e scambio, vigenza della legge del valore e dei mercati, estrazione di plusvalore, coesistenza di un macrosettore produttivo e un macrosettore improduttivo (p.96)
(23) Ivi, p. 37.
(24) Vedi nota 18.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento