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15/04/2025

Libano - Hezbollah cambia strategia

Il 13 aprile ricorreva il cinquantesimo anniversario dell’inizio della guerra civile libanese. Le nuove autorità del paese hanno voluto ricordare questa ricorrenza spogliando di tutti i simboli politici la strada che conduce all’aeroporto di Beirut, quasi a marcare lo stabilirsi di nuovi equilibri rispetto a quello scaturiti dopo la fine del conflitto.

Molti media internazionali ostili ad Hezbollah hanno colto l’occasione per effettuare diverse speculazioni sul futuro della formazione sciita, nell’ambito dei nuovi rapporti di forza che stanno maturando in conseguenza del tentativo di genocidio in corso nei confronti dei Palestinesi e della guerra imperialista totale mossa nei confronti del cosiddetto “Asse della Resistenza”.

Il movimento politico-militare sciita ha effettivamente subito dei colpi durissimi, che stanno portando a cambi strategici complessivi. Ha visto, in pochi mesi, decapitata la propria leadership politico-militare, a partire dall’uccisione del carismatico, ascoltatissimo e amatissimo segretario generale Hassan Nasrallah, a fine settembre 2024, ed ha dovuto assistere, senza possibilità d’influire sugli eventi, alla caduta del proprio principale alleato nel mondo arabo, ovvero la Siria baathista, che costituiva un retroterra fondamentale dal punto di vista logistico, per quanto riguarda il rifornimento di armi, e dal punto di vista politico, per quanto riguarda gli equilibri interni al Libano.

D’altro canto, però, da un punto di vista strettamente militare, il confronto contro l’aggressione sionista su larga scala, durata da settembre a novembre 2024, ha segnato un punto di tenuta rilevantissimo: l’esercito nemico è riuscito ad effettuare una penetrazione terrestre molto più limitata rispetto al 2006, nonostante l’impiego di molte più risorse e, nonostante gli attacchi, gli abitanti del nord d’Israele sfollati nell’ottobre 2023 ancora non sono tornati nelle proprie.

La modifica dei rapporti interni al Libano si è evidenziata nei mesi scorsi, con le pressioni politico-militari portate avanti dagli USA e dai paesi del Golfo su tutti gli apparati e i partiti politici libanesi nel corso del travagliato iter che ha condotto all’elezione del nuovo Presidente della Repubblica e del nuovo Primo Ministro.

La conseguenza è stata che i candidati proposti dall’“Alleanza 8 marzo”, in cui è inserito Hezbollah (che, non a caso, prende il nome dalla manifestazione filo-siriana dell’8 marzo 2005, convocata in risposta alla “rivoluzione arancione” allora in corso da parte delle forze filo-occidentali dopo l’uccisione del Primo Ministro Hariri), si sono ritirati, costringendo il movimento sciita ad accettare l’elezione di due figure sgradite, fino ad allora sempre ostacolate, rispettivamente Joseph Aoun e Nawaf Salam.

La tenuta dell’alleanza con l’altro partito sciita Amal, che, per ora, resiste alle pressioni, ha consentito di chiudere la partita del governo in maniera “decente” per Hezbollah.

Il cambiamento strategico più rilevante, però, è dato dal fatto che il “Partito di Dio” effettivamente si sta impegnando a rispettare i termini del cessate del fuoco stipulati a fine novembre scorso, i quali prescrivono alla sua ala militare di lasciare le proprie posizioni all’esercito libanese, ritirandosi dal sud del fiume Litani, come previsto dalla risoluzione delle Nazioni Unite 1701, già alla base della cessazione delle ostilità del 2006, ma mai applicata nei termini in cui si sta applicando ora.

Nella pratica, si sta smantellando quello che viene spesso definito lo “stato nello stato” costruito da Hezbollah nel sud del Libano, tanto da far parlare i media ostili di effettivo inizio di un processo di disarmo dell’organizzazione sciita, come reclamato dai suoi nemici sin dalla fine della guerra civile.

Per capire cosa ci sia di vero in queste speculazioni, è utile ripercorrere l’intervista rilasciata a marzo da Ali Fayyad a Responsible Statecraft. Ali Fayyad è parlamentare e ideologo di Hezbollah, che in questi mesi sta facendo da portavoce di fatto, mentre Responsible Statecraft è la rivista del Quincy Institute for Responsible Statecraft, think tank statunitense molto particolare che, come dice il nome stesso, si segnala in quanto fautore di una linea in politica estera moderata e pragmatica, già al centro di diverse critiche per le posizioni giudicate non sufficientemente ferme dai media mainstream rispetto alla guerra russo-ucraina, al confronto con la Cina, ecc.

Riportiamo gli estratti più interessanti e pregnanti dell’intervista.

Rispetto alla situazione al confine, Fayyad conferma la completa adesione alla risoluzione 1701: “Per quanto riguarda il Libano, abbiamo sottolineato il nostro impegno nei confronti della risoluzione 1701 e del documento sulle misure di attuazione. Ci siamo impegnati pienamente a rispettare gli obblighi relativi alla zona a sud del fiume Litani e, poiché il documento di attuazione si occupa di spiegare e attuare la risoluzione 1701, il suo riferimento e la sua portata geografica sono soggetti alla risoluzione internazionale 1701”.

Incalzato dalle domande, Fayyad va più a fondo, manifestando l’intenzione di non ostacolare il blocco, da parte dell’esercito, dell’importazione di armi e di essere aperto ad un dialogo più generale rispetto alla questione degli arsenali dell’organizzazione: “Per quanto riguarda il nord del fiume Litani, il documento di attuazione stabilisce che non è consentito importare o sviluppare armi. Invitiamo lo Stato libanese a esercitare pienamente il suo ruolo nel controllo della situazione ai confini. Non abbiamo alcun problema al riguardo, tuttavia, tutto ciò che riguarda la resistenza nel nord del fiume Litani è una questione sovrana che riguarda il governo libanese, e Hezbollah invita il governo a raggiungere un’intesa sulla situazione nel nord del Litani”.

Tuttavia, è troppo presto per parlare di disarmo. “Questa questione non può essere affrontata isolatamente, ma deve essere affrontata in modo olistico. Quando dico questo, intendo dire che è strettamente legata alla garanzia che lo Stato sia in grado di esercitare il suo ruolo di difesa del territorio e del popolo libanese”.

Nella situazione attuale, il Libano è ben lontano dal raggiungere tale condizione, pertanto tutte le opzioni sono aperte: “In ogni caso, la presenza di Israele in cinque punti è qualcosa che consideriamo occupazione e questo dà al Libano il diritto di usare tutti i mezzi possibili per liberare questi territori occupati... L’espressione ‘tutti i mezzi possibili’, che è stata inclusa nell’accordo di Taif e nei manifesti dei governi per molti anni, ed è stata reintrodotta nella dichiarazione del Presidente della Repubblica, significa mezzi diplomatici e non diplomatici”.

Da queste frasi traspare effettivamente un cambio strategico: Hezbollah non si pone più come l’unico difensore del sud in prima istanza e di tutto il paese in seconda istanza, ma, nel fare un passo indietro, responsabilizza, almeno verbalmente, il governo centrale, ancorché la composizione di quest’ultimo sia meno favorevole rispetto ai precedenti esecutivi.

Di conseguenza, anche la linea politica interna ed i meccanismi organizzativi stanno cambiando. “La presenza di Sayyed Hassan è stata travolgente. Quando prendeva una decisione, questa veniva accolta con entusiasmo da tutti, dato il suo storico ruolo di leadership. Ora, il nuovo segretario generale, lo sceicco Naim Qassem, è più favorevole al ruolo delle istituzioni interne nel processo decisionale; ora ci siamo mossi maggiormente verso una leadership istituzionale collettiva che prende decisioni basate sulla burocrazia interna, sugli organismi interni”.

Alla domanda esplicita: “Hezbollah sta diventando un partito puramente politico?”, Fayyad precisa: “No, Hezbollah, nonostante i cambiamenti avvenuti, rimane da un lato un partito di resistenza e dall’altro un partito politico. Tuttavia, ogni fase richiede un approccio diverso quando si tratta di resistenza. Hezbollah rimane impegnato nella resistenza e ritiene che sia diritto del Libano contrastare qualsiasi aggressione israeliana. Ma questa fase attuale, data la sua natura unica e i cambiamenti avvenuti, forse richiede un approccio diverso” consistente, come detto, nell’“offrire allo Stato libanese l’opportunità di prendere in mano la situazione nei confronti del nemico israeliano”.

L’altro macro tema affrontato è la situazione in Siria, rispetto alla quale Fayyad è chiarissimo: “Non c’è dubbio che la trasformazione politica avvenuta in Siria abbia rappresentato una grave perdita strategica, non possiamo negarlo. Non abbiamo sostenuto l’approccio adottato riguardo ai complessi legami tra l’ex regime siriano e il popolo siriano... I nostri precedenti legami con il regime sono legati ad una questione specifica riguardante la necessità di stabilire un equilibrio contro Israele in una complicata lotta regionale”.

Sul nuovo regime qaedista: “Non cerchiamo guai e adottiamo la posizione dello Stato libanese che auspicava relazioni equilibrate tra i due Paesi. Tuttavia, sottolineiamo l’importanza di proteggere le minoranze, rispettare le libertà e non avere una nuova leadership oppressiva in Siria. Stiamo anche monitorando la posizione della nuova leadership in Siria nei confronti di Israele. Questa posizione è confusa e solleva molti interrogativi, poiché Israele si è infiltrato e ha occupato il territorio siriano senza che la nuova leadership prendesse alcuna posizione. Si tratta di una situazione insolita da ogni punto di vista legale e politico, che non si riscontra in nessun altro Paese.
Gli scontri
[al confine tra Libano e Siria] sono stati collegati al contrabbando e alle bande di contrabbandieri, ma crediamo che ci sia più di questo. Mirano a esercitare pressione politica sul Libano, e ciò che vogliamo è che i confini settentrionali orientali siano stabili”.

Il resto dell’intervista è rappresentato da una serie di dichiarazioni concilianti, in cui Fayyad afferma che i problemi fra la Resistenza e gli USA non sono bilaterali, ma riguardano specificamente l’appoggio che questi ultimi offrono all’occupazione sionista e le sue atrocità.

Di fronte a queste aperture di credito di Hezbollah, il nuovo governo si sta dimostrando in grado di gestire i compiti gravosi che incombono sul Libano? Ovviamente no.

Nato come un esecutivo che avrebbe dovuto segnare la legittimazione del paese di fronte all’Occidente e ai paesi del Golfo e aprirlo agli investimenti esteri grazie all’implementazione delle riforme richieste dagli istituti finanziari internazionali, è parso sin da subito uno dei tanti figli orfani della precedente amministrazione USA: designato da quest’ultima per gestire la marginalizzazione dell’Asse Resistenza, è stato immediatamente penalizzato dai falchi di quella attuale, a favore dell’espansionismo sionista tout-court, esattamente come sta accadendo all’Autorità Nazionale Palestinese e, in parte, il nuovo regime siriano.

La vice inviata di Trump per il Medio Oriente, Morgan Ortagus, che già aveva umiliato il neopresidente della Repubblica stringendogli la mano mentre indossava un anello con la stella di Davide, sta continuando l’opera, con risvolti ancora più seri.

Infatti, non solo ha dato luce verde all’occupazione sionista affinché rimanga nei cinque punti del Libano dai quali non si è ancora ritirata, ma ne ha anche appoggiato la ripresa forte dei bombardamenti, subordinando la rinegoziazione del cessate il fuoco raggiunto a novembre allo stabilimento di una road map per il disarmo di Hezbollah e all’avvio di un processo di normalizzazione dei rapporti bilaterali Libano-Israele, anche se su quest’ultimo punto le dichiarazioni ufficiali sono sfumate.

Il Presidente della Repubblica ed il Primo Ministro non possono garantire né l’uno, né l’altra condizione, pertanto reagiscono in maniera reticente o silente; ma mentre quando i bombardamenti avvenivano solo nelle roccaforti di Hezbollah del sud se ne disinteressavano completamente o concentravano le proprie accuse non sull’aggressore, bensì sui lanciatori sporadici (e sospetti) di razzi verso Israele, colpevoli di violare il cessate il fuoco, quando hanno ricominciato ad estendersi a Beirut qualche problema serio di tenuta si è palesato.

Altro punto d’imbarazzo per le nuove autorità è costituito dagli scontri che periodicamente si accendono al confine con la Siria fra HTS e le milizie locali sciite, nell’ambito dei quali queste ultime sono in grado di farsi rispettare maggiormente rispetto all’esercito libanese che, nelle dichiarazioni del Presidente della Repubblica, dovrebbe essere in grado d’imporre il monopolio dell’uso della forza in tutto il paese, disarmando ogni sorta di milizia.

Il prossimo test per i nuovi equilibri saranno le elezioni municipali, previste per il mese di maggio in tutto il Libano. Amal ha già confermato l’alleanza con Hezbollah; il resto è tutto un’incognita, considerato l’ampio sfollamento delle popolazioni del sud, le problematiche legate al processo di ricostruzione, che gli apparati governativi vorrebbero sottrarre ad Hezbollah (in passato dimostratosi efficientissimo da questo punto di vista) ed il clima di accerchiamento che ancora prevale nei confronti della formazione sciita.

In definitiva, è chiaro e dichiarato il passo indietro da parte di Hezbollah rispetto a prima del “diluvio di Al-Aqsa”, sia sul piano della presenza militare sul terreno che su quello dell’influenza politica.

Tuttavia, la messa in discussione nel medio termine del suo status di organizzazione di resistenza armata rimane irrealistica perché lo stato libanese non pare minimamente in grado né di reprimerlo, né, men che meno, di rilevarlo. Anzi, gli atteggiamenti di quest’ultimo nei confronti delle popolazioni del sud e la sua incapacità di garantire la pace, costituiscono una grande fonte di legittimazione della Resistenza armata, il cui ruolo è eventualmente scalfibile solo mediante corposi interventi esterni di regime change.

D’altronde, le scene cui tutto il mondo ha assistito nel momento in cui è stata stipulata la tregua di novembre e durante i funerali di Nasrallah dimostrano che l’appoggio popolare nei confronti di Hezbollah è ancora molto forte.

Pertanto, i punti di debolezza di tutti gli attori del paese, potrebbero portare a stabilire un nuovo equilibrio non troppo distante da quello precedente.

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