di Giuditta Mosca
Il timore che le intelligenze artificiali (IA) possano sostituire i lavoratori è al centro di un dibattito acceso. Un dibattito che però trascura l’impatto di queste tecnologie sulla qualità delle condizioni di lavoro esattamente come in passato è avvenuto per varie forme di automazione industriale.
Per approfondire questo tema, ci siamo avvalsi della lente di ingrandimento di Jason Resnikoff, professore di Storia contemporanea all’Università di Groninga (Paesi Bassi) e autore del libro “Labor’s End: How the Promise of Automation Degraded Work”.
Resnikoff è specializzato in storia del lavoro, storia del capitalismo globale, storia intellettuale e storia della tecnologia e ha un’esperienza pregressa tra le file della United Auto Workers, sindacato statunitense che rappresenta i lavoratori dell’industria automobilistica, oltre ad altri settori come l’istruzione superiore, la sanità e il gaming.
Le ricadute dell’automazione secondo Resnikoff
Secondo Resnikoff, l’automazione porta con sé un paradosso: presentata come una spinta verso una società migliore, in realtà ha contribuito ad aumentare, accelerandolo, lo sfruttamento del lavoro. Un argomento che appare molto attuale in relazione all’odierno dibattito sull’impatto dell’IA. In poche parole, si parla molto di come l’IA renderà le imprese più produttive o competitive, o di come le macchine sostituiranno dei lavoratori o faranno lavori noiosi al posto nostro, e si parla molto poco di come invece questa nuova ondata tecnologica potrebbe ampliare lo sfruttamento del lavoro (umano).
Nel suo libro Resnikoff entra nei meandri dell’automazione negli Stati Uniti a partire dalla seconda metà del secolo scorso, rilevando da subito il paradosso secondo il quale, benché dovesse migliorare la società, l’automazione ha portato a un rapido sfruttamento del lavoro. Per Resnikoff, sono la globalizzazione e la sovrapproduzione a causare le maggiori perdite di posti di lavoro e non l’automazione in sé, alla quale però riconosce il demerito di creare “una razza di schiavi costituzionalmente incapaci di ribellione”.
Tutto ciò malgrado nei decenni passati molti analisti dell’automazione fossero ottimisti e credessero in un mondo utopico in cui si sarebbe lavorato meno a parità di stipendio, nota il professore, ovvero qualcosa di simile a ciò che si ipotizza oggi parlando delle IA e della robotica.
Per capire meglio, gli abbiamo fatto alcune domande.
Professor Resnikoff, come e perché pensa che l’automazione degradi il lavoro?
“I dati storici mi portano a questa conclusione. Il termine ‘automazione’ è stato coniato dal dipartimento motori della Ford negli anni ’40 per evocare l’idea di progresso tecnologico e contrastare il movimento sindacale industriale, che l’azienda aveva da poco dovuto riconoscere per imposizione del governo federale. Nel dopoguerra, la parola ‘automazione’ non indicava una tecnologia specifica. John Diebold, definito dal New York Times l’evangelista dell’automazione, ha affermato che per i dirigenti d’impresa definire l’automazione era complesso quanto per i teologi definire il peccato. Questo dimostra come il termine fosse usato indiscriminatamente per descrivere qualunque cambiamento tecnologico nel luogo di lavoro.
L’automazione è stata soprattutto una narrativa secondo cui il progresso tecnologico porta inevitabilmente a una diminuzione del lavoro umano. Questa idea ha avvantaggiato le grandi aziende, che hanno sfruttato l’utopismo tecnologico e l’ottimismo per sostenere che il lavoro umano non contribuisce (o presto non contribuirà più) al processo produttivo”.
Cosa è quindi l’automazione?
“È tanto una copertura retorica per il degrado del lavoro quanto un processo materiale. Gli esempi del periodo postbellico sono numerosi: l’introduzione dei computer nel lavoro d’ufficio e l’introduzione degli utensili elettrici nel confezionamento della carne sono due esempi particolarmente toccanti. Oggi, tutto ciò viene fatto dai datori di lavoro invocando l’intelligenza artificiale.
Amazon ha affermato che la fatturazione nei negozi fisici fosse automatizzata, ma era svolta da lavoratori in India. Oppure, Presto Automation ha attribuito a sistemi automatizzati il servizio nei fast-food statunitensi, in realtà gestito da lavoratori nelle Filippine.
Ciò che viene chiamato ‘automazione’ si potrebbe definire ‘outsourcing’, che peggiora le condizioni dei lavoratori locali obbligandoli a competere con manodopera a basso costo. Dall’inizio della rivoluzione industriale, i datori di lavoro hanno utilizzato macchine per frammentare lavori qualificati, assumendo manodopera meno costosa e aumentando i ritmi di lavoro. Nel dopoguerra, il termine ‘automazione’ ha camuffato questo fenomeno come risultato naturale del progresso tecnologico, nascondendo il vero intento di controllo del processo lavorativo e compressione dei salari”.
L’automazione può davvero creare dei “nuovi schiavi” o è una provocazione?
“L’automazione, tecnicamente parlando, non fa nulla. Non è un processo tecnologico o storico ben definito. Sostengo che gran parte di ciò che viene chiamato automazione sia ben poco tecnologico, ma piuttosto una narrativa che i datori di lavoro usano per degradare il lavoro (piuttosto che abolirlo tecnologicamente). Piuttosto, suggerirei che questa sia la suggestione legata all’idea di automazione, in particolare per i datori di lavoro, ma talvolta, sorprendentemente, anche per dirigenti sindacali, utopisti di sinistra e alcuni lavoratori stessi.
Aristotele sosteneva che alcune persone fossero ‘schiavi naturali’. Nel XX secolo, spesso si è invocata l’idea dell’automazione per sostenere che i nuovi ‘schiavi naturali’ fossero le macchine. Ritengo che questo modo di pensare sia pericoloso per i lavoratori, poiché presuppone che gran parte del lavoro, in teoria, debba essere svolto in condizioni coercitive e degradate. Il problema principale è che i lavoratori umani rimangono (e rimarranno) essenziali per l’economia e, perpetuando questa idea di lavoro, saranno costretti sempre più a lavorare in condizioni degradanti”.
Secondo lei, le aziende preferiscono l’automazione o la sostituzione dei lavoratori con altri lavoratori (delocalizzando quindi dove il lavoro costa meno)?
“La maggior parte delle aziende non si impegna esclusivamente in una o nell’altra strategia. Generalmente, le aziende di successo puntano a ottenere profitti. Se una macchina aiuta a raggiungere questo obiettivo, utilizzeranno una macchina; se invece è il lavoro umano a essere più vantaggioso, opteranno per quello. In genere, combinano macchine e lavoro umano per ottenere il massimo vantaggio.
Le macchine possono essere molto costose e rappresentano costi fissi, ma possono eseguire alcune fasi del lavoro rapidamente o contribuire a rendere più economico il lavoro umano. Le persone possono essere licenziate, ma possono anche essere più difficili da controllare e potrebbero organizzarsi in sindacati. La combinazione tra macchine e lavoro umano varia costantemente. Storicamente, i datori di lavoro hanno usato le macchine per rendere il lavoro umano più economico, ma quel lavoro umano a basso costo è rimasto (e generalmente rimane) essenziale per il processo produttivo.
Georges Doriot, professore della Harvard Business School negli anni ’40 e ’50, una volta disse che la fabbrica ideale non avrebbe avuto lavoratori. Tuttavia, quando aziende come la Ford iniziarono a considerare l’idea di costruire fabbriche senza lavoratori (cosa impossibile all’epoca), si resero conto che sarebbe stato incredibilmente costoso, impraticabile e fisicamente irrealizzabile.
Quel sogno di automazione completa è semplicemente un sogno manageriale: un sogno in cui non si dovrebbe dipendere da altre persone, ossia dai lavoratori. Quando si tratta di fare profitti, però, quel sogno si rivela essere una fantasia”.
È vero, secondo lei, che essere contrari all’automazione significa essere nemici del progresso?
“No. Il concetto di progresso è, naturalmente, oggetto di dibattito. La vera domanda è: in una società ideale, le persone lavoreranno? E se sì, che tipo di lavoro faranno? Per quale compenso? Per quante ore alla settimana? E sotto la supervisione di chi, se ce ne sarà una?
William Morris immaginava una società utopica in cui le persone lavoravano ancora, ma in condizioni migliori e più significative. In modo molto diverso (e, in parte, inquietante) anche Edward Bellamy aveva una visione simile. Storicamente, lo stesso movimento dei lavoratori ha sostenuto che il progresso significasse ottenere migliori condizioni lavorative per le persone comuni, non necessariamente l’abolizione del lavoro.
L’automazione non è l’unico percorso verso il progresso; il miglioramento del lavoro e delle sue condizioni può essere un’alternativa più significativa e sostenibile per il benessere collettivo”.
La cooperazione uomo-macchina richiede che le macchine si adattino agli esseri umani? Le macchine possono offrire un vantaggio ai lavoratori?
“Le macchine, di per sé, non creano situazioni sociali o politiche. Gli storici della tecnologia definiscono l’idea che le macchine determinino automaticamente tali situazioni come ‘determinismo tecnologico’ e, in generale, hanno respinto questa concezione considerandola un errore storico. Gli esseri umani fanno la propria storia, anche se non sempre nel modo in cui vorrebbero.
Il problema non sono le macchine, ma le strutture gerarchiche (o, come alcuni potrebbero sostenere, il capitalismo). Una società veramente democratica utilizzerebbe le macchine in modo diverso rispetto a una fortemente gerarchica. In quel contesto, le macchine potrebbero offrire molti più benefici ai lavoratori rispetto alla nostra società attuale. Il problema non risiede quindi nelle macchine in sé, ma nell’alienazione delle persone comuni dalle macchine stesse”.
Quali sono gli impatti dell’automazione sulla socialità e sulle capacità democratiche dei governi?
“Questa è una domanda complessa. Il degrado del lavoro ha avuto conseguenze significative nei paesi che hanno costruito il loro stato sociale sul modello fordista, in cui la classe media veniva sostenuta da salari relativamente alti e dal sostegno dell’industria nazionale.
Negli ultimi cinquant’anni, la dissoluzione del modello fordista è andata di pari passo con un aumento delle disuguaglianze di reddito e con l’erosione della classe media. Tuttavia, questo fenomeno non è stato causato direttamente dall’automazione. È stato il risultato di una scelta politica intenzionale da parte della destra, che ha smantellato progressivamente lo stato sociale. Ciò è accaduto contemporaneamente alla frammentazione del modello fordista, che include un uso strategico dei cambiamenti tecnologici per ridurre il potere dei lavoratori. Tra questi, si possono citare la logistica avanzata utilizzata per delocalizzare la produzione, le tecnologie della comunicazione che consentono in modo simile l’esternalizzazione della produzione e l’ascesa dell’economia delle piattaforme che consente la trasformazione di lavori propriamente detti in occupazioni occasionali, eccetera.
Questi processi non solo hanno alterato il panorama economico, ma hanno anche avuto un impatto sulla coesione sociale e sulla capacità dei governi di agire democraticamente, poiché i lavoratori, spesso frammentati, hanno perso una parte del loro potere contrattuale collettivo”.
Cosa dovrebbero fare i governi e i legislatori per sostenere una transizione ordinata?
“Se i governi avessero veramente a cuore il benessere dei lavoratori, dovrebbero prima separare il mantenimento del lavoro dai bisogni più basilari della vita sociale, garantendo che l’accesso all’istruzione, all’assistenza sanitaria, all’alloggio, alle attività ricreative e le pensioni non dipendano dall’occupazione.
In secondo luogo, dovrebbero aiutare i sindacati a ottenere un vero potere nel negoziare sui mezzi di produzione stessi. I lavoratori dovrebbero avere un ruolo decisivo nel decidere quali tipi di macchine utilizzare e per quali scopi.
Infine, i governi dovrebbero emanare leggi su come sviluppare e impiegare la tecnologia. Oltre alle condizioni di lavoro (che sono cruciali), questa è attualmente una necessità urgente per evitare i peggiori effetti del cambiamento climatico. Ovviamente, i governi hanno interesse a legiferare su quali tipi di tecnologie dovrebbero esistere e come dovrebbero essere utilizzate. Allo stesso modo in cui dovrebbero emanare leggi sulle emissioni di carbonio, dovrebbero emanare leggi simili riguardanti l’uso della tecnologia per degradare il lavoro. Se un nuovo software aggiunge lavoro a un compito, innanzitutto un lavoratore dovrebbe avere il diritto di rifiutare quel lavoro extra e, almeno, dovrebbe ricevere una compensazione aggiuntiva per il compito svolto. Se un datore di lavoro vuole abolire tecnologicamente un lavoro completamente, dovrebbe pagare il lavoratore per il lavoro che ha distrutto. Ma soprattutto, i governi dovrebbero sforzarsi di dare ai lavoratori il controllo sui mezzi di produzione. Il controllo dei lavoratori è la risposta più fondamentale a questa questione.”
Le sue previsioni per il futuro e, infine, l’ipotesi di un reddito universale da distribuire specialmente a chi perde il lavoro a causa dell’automazione sono davvero plausibili?
“In un certo senso, ho già risposto a questa domanda. Penso che i datori di lavoro continueranno a usare le nuove tecnologie per degradare il lavoro piuttosto che eliminarlo del tutto, come fanno fin dall’alba della rivoluzione industriale. Il problema non è che le nuove tecnologie verranno utilizzate per fare qualcosa di completamente nuovo, ma che continueranno a essere impiegate per perpetuare le dinamiche di sfruttamento lavorativo esistenti. Questo rappresenta un problema, almeno dal punto di vista della gente comune.
Un reddito universale non è necessariamente un’idea pessima, ma risulta meno efficace rispetto a un solido stato sociale che fornisca servizi indipendentemente dal reddito individuale. Ho scritto di questo argomento di recente: i servizi garantiti da uno stato sociale robusto piacciono a molte persone. Tuttavia, il problema è che, nell’ultimo mezzo secolo, questi servizi sono stati drasticamente sotto finanziati dai neoliberisti”.
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