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14/04/2025

La guerra al comunismo cinese con altri mezzi

Sul fatto che gli Stati Uniti abbiano deciso di risolvere i propri problemi (economici e di “presa egemonica” sul mondo) andando alla guerra contro la Cina, ci sono pochi dubbi. Che oltre alle motivazioni di mero interesse finanziario-commerciale stiano giocando anche ragioni di tipo ideologico-politico-strategico, invece, si parla piuttosto poco.

Questa acuta analisi del sempre attento Guido Salerno Aletta, peraltro pubblicata su una testata non sospettabile di filo-comunismo come Milano Finanza, consente di affrontare la fase che stiamo vivendo con qualche informazione in più.

Buona lettura.

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L’obiettivo di Trump è abbattere il Partito comunista cinese

di Guido Salerno Aletta – Milano Finanza

Shock and awe, colpire e terrorizzare imponendo in via generalizzata dazi mostruosi sulle importazioni americane, salvo poi sospenderli temporaneamente con l’obiettivo di dividere il fronte degli interlocutori in vista delle trattative per il riequilibrio del saldo commerciale Usa, ma isolando completamente la Cina.

Nei confronti di Pechino, l’obiettivo di Donald Trump, con i dazi che aumentano di giorno in giorno, è quello di provocarne il collasso produttivo e soprattutto quello politico: non solo le merci già ordinate dai committenti americani non devono più partire dai porti cinesi, perché nessuno sa prevedere quale sarà la misura dei dazi che verranno applicati al momento dello sdoganamento all’arrivo negli Usa, ma si deve bloccare il sistema di produzione e a ritroso l’intera catena degli approvvigionamenti.

Il precedente del crac di Lehman

Occorre creare a tavolino la stessa situazione drammatica che occorse nel 2008 a seguito del fallimento di Lehman Brothers, che determinò il blocco temporaneo del commercio mondiale e che indusse il governo cinese ad adottare misure di assoluta emergenza per compensare le mancate esportazioni con maggiori consumi interni straordinari attivando il duplice volano dell’edilizia residenziale e delle infrastrutture pubbliche.

Misure che hanno creato danni enormi e pericoli gravissimi per la stabilità del sistema cinese: da una parte si scatenò la speculazione finanziaria e dall’altra si crearono le condizioni per forme estese di corruzione politica.

L’intreccio che si era determinato tra l’arbitrio pressoché assoluto nell’individuazione delle aree in cui edificare e il rilascio delle licenze di costruzione, la pianificazione delle opere pubbliche e la scelta degli appaltatori, il controllo a livello locale del credito attraverso i canali ufficiali e gli intrighi dello shadow banking, aveva sconvolto i meccanismi di controllo politico centralizzato: veri e propri sistemi di contro-potere e di criminalità organizzata avevano preso il controllo di intere province.

D’altra parte, il sogno americano è sempre stato quello di portare al collasso il sistema comunista cinese, inizialmente scommettendo sull’incapacità di dominare la crescita convulsa dell’economia che sarebbe derivata dall’apertura dei mercati internazionali. Ora, con la girandola dei dazi, si scommette di provocarne il coma.

C’è un altro aspetto sistemico che va considerato nel processo di riequilibrio deciso da Trump: gli Usa non sono infatti soltanto il compratore globale di ultima istanza, che assorbe il surplus produttivo di una serie sterminata di Paesi che contano sul suo mercato per tenere in piedi il proprio sistema economico e sociale, ma anche il più grande debitore verso il resto del mondo, con titoli federali per 8.526 miliardi di dollari detenuti a gennaio scorso da non residenti. Tutto si tiene, soprattutto per merito degli elevati tassi di interesse che vengono corrisposti a dispetto della Tripla A.

Il problema del debito pubblico

Non solo il Giappone e la Cina, che sono i due principali detentori del debito pubblico americano, con 1.079 e 761 miliardi di dollari, sono stati colpiti da dazi corrispettivi elevatissimi, arrivati al 145% per le merci cinesi e fissati in via corrispettiva al 24% per quelle giapponesi, ma c’è anche Taiwan che dovrebbe subire dazi del 32% e che ha titoli federali per 290 miliardi di dollari.

Lo stesso vale per la Corea del Sud con dazi al 25% e titoli per 122 miliardi di dollari. Tutti hanno in mano uno strumento di pesante condizionamento: non rinnovare i titoli alla scadenza, se non vendendoli anzitempo, minerebbe lo status di invulnerabilità del debito statunitense. Cina e Giappone li stanno già smobilitando da tempo.

La reazione dei mercati finanziari ai dazi americani è stata immediata: la vendita di titoli del Tesoro americano ne ha fatto schizzare in alto i rendimenti, rientrati dopo l’annuncio della sospensione generalizzata dei dazi compensativi. Sarebbe, questa dei tassi, una tortura lenta, incessante e altrettanto feroce: la goccia cinese che porta i debitori allo sfinimento.

I mercati mostrano di seguire logiche ferree: a fronte della prospettiva di una riduzione dei tassi ufficiali da parte della Fed per via del rallentamento dell’inflazione e della messa sotto controllo del debito federale statunitense, che avevano portato il rendimento dei Treasury a 10 anni a scendere dal 4,37% del 27 marzo scorso al 3,87% del 4 aprile, l’annuncio dei dazi da parte di Trump ha fatto schizzare in alto i rendimenti al 4,47% del 9 aprile scorso.

La messa in stand-by dei dazi ha subito ridotto la tensione, ma c’è già chi pretende un più elevato rendimento per i propri capitali nella prospettiva di una più elevata inflazione determinata dai dazi e di più elevate incertezze sistemiche.

D’altra parte, è già successo nell’ultimo trimestre dello scorso anno, con i rendimenti dei Treasury a 10 anni che sono aumentati dal 3,98% di fine settembre al 4,76% dei primi di gennaio 2025, nonostante la Fed avesse ripetutamente ridotto i tassi ufficiali, passando dal 5,5% del luglio fino al 4,5% di metà dicembre: i mercati erano andati per conto loro, avendo rilevato un aumento esponenziale del debito federale, passato dai 35.465 miliardi di dollari di fine settembre ai 36.219 miliardi di fine dicembre, con un incremento di ben 754 miliardi in quel solo trimestre, rispetto ai 34 mila miliardi tondi di fine 2023.

Il dilemma della Federal Reserve

Le banche centrali, prima di tutte la Fed, saranno schiacciate tra la necessità di abbassare i tassi per sostenere le rispettive economie che tendono al rallentamento e l’esigenza di elevarli per contrastare l’aumento dei prezzi determinato dalla introduzione dei dazi.

In queste condizioni, un inevitabile intervento di emergenza della Fed che comprasse titoli federali per plafonare i tassi immettendo nuova liquidità, non farebbe altro che alimentare l’inflazione e ridurre la fiducia nel dollaro. I colpi di scena non mancheranno, ma a rimetterci saranno in tanti.

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