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16/05/2024

...altrimenti ci arrabbiamo! (1974) di M. Fondato - Minirece

Agguato fascio-sionista a Chef Rubio

Lo hanno aspettato fuori casa in 5-6 e, una volta superato il cancello, hanno bloccato l’uscita e lo hanno massacrato di botte.

L’accusa arriva direttamente da un video su X pubblicato da Chef Rubio, che accusa i sionisti del duro pestaggio, come si vede nelle immagini del video che trovate in fondo a queste righe.

La squadraccia sionista fa probabilmente parte di quel gruppo di picchiatori radunati, il 25 aprile, sotto gli striscioni della Brigata ebraica, agli ordini di un tale che si esibiva, tra l’altro, in un’aggressione all’inviata di Rete4.

Quel giorno quel gruppo evidentemente organizzato militarmente – tutti in divisa, tutti chiaramente “iper-allenati” – non riuscendo a praticare l’aggressione per cui si erano evidentemente preparati, si esibirono in un vasto campionario di classiche minacce fascistoidi, fino ad augurare stupri alle donne presenti in piazza in sostegno della Palestina, oltre che gettando petardi e oggetti contundenti agli antifascisti presenti.

La scelta di Rubio come primo soggetto della vendetta sionista, uscita politicamente malissimo dalla figuraccia del 25 aprile, non è casuale, data l’alta visibilità del personaggio che non si è mai sottratto dal sostegno alla causa palestinese. Rubio che peraltro aveva già pagato in prima persona, in termini lavorativi, la sua presa di parola.

Poche settimane fa, dalle più alte cariche dello Stato d’Israele era stata lanciata l’idea di gruppi paramilitari di “autodifesa” (leggasi, repressione si ogni sentimento antisionista) in ogni Stato occidentale, di fatto rendendo pubblica una prassi che già da anni attraversa le città di mezza Europa.

A noi non resta che esprimere tutta la nostra solidarietà a Chef Rubio, vittima di un vile attacco sionista che ricorda in pieno le modalità tipiche del buio ventennio fascista.

Il 25 aprile, da Milano a Roma, ha sottolineato come oggi antisionismo significhi antifascismo.

Per chi avesse ancora dei dubbi, gli accadimenti di questa sera crediamo debbano sciogliere ogni perplessità residuale. Stabilita la realtà di questa aggressione, ci resta una domanda da fare: al ministro dell’interno.

Quando parla di “manifestazioni violente” intende per caso indicare questa organizzazione paramilitare agli ordini di uno stato straniero che ha come unico programma quello di attaccare una precisa parte della popolazione italiana?

Le dichiarazioni di Ben Gvir e altri ministri sionisti erano già inequivocabili. Ora siamo ai fatti. Ed è chiaro che la scelta di fare un agguato ad una persona nota, anche mediaticamente, per il suo lavoro e le sue posizioni è stata fatta con cinica freddezza. A questa ne seguiranno probabilmente altre.

Per le modalità e l’appartenenza ad una “organizzazione internazionale”, questa aggressione ha tutte le caratteristiche di un “terrorismo emergente”. Di chiara matrice sionista e di ultradestra. Contro cittadini italiani.

Lei ha intenzione di tollerare queste squadracce (e il governo straniero), signor ministro? Ha un modo molto semplice di dimostrare il contrario: arrestandoli.

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Rivolta indipendentista in Nuova Caledonia, Parigi impone il coprifuoco

Durante la notte tra lunedì e martedì, in Nuova Caledonia, gli aderenti ad alcune organizzazioni che chiedono l’indipendenza dalla Francia hanno dato vita ad una rivolta nel territorio d’oltremare di Parigi che sorge in Melanesia, a circa 1500 km ad est dell’Australia e a 17 mila km da Parigi.

«Armi di grosso calibro e fucili da caccia sono stati utilizzati per sparare contro i gendarmi» ha detto nel corso di una conferenza stampa l’Alto commissario Louis Le Franc, che rappresenta il governo di Parigi nell’arcipelago del Pacifico colonizzato a metà dell’Ottocento e che conta attualmente circa 270 mila abitanti.
I disordini maggiori si sono verificati a Noumea, il capoluogo della Nuova Caledonia, dopo che l’Assemblea nazionale di Parigi ha avviato la discussione sulla revisione costituzionale sullo status dell’arcipelago che porterebbe ad un ridimensionamento del relativo autogoverno concesso alla colonia, ovviamente contestata dal movimento indipendentista.

La revisione costituzionale, già approvata dal Senato francese, intende infatti estendere il diritto di voto ad alcune migliaia di coloni francesi giunti in Nuova Caledonia negli ultimi decenni, diminuendo così il peso elettorale della popolazione indigena Kanak, anche se dal 2018 al 2021 il fronte indipendentista ha perso due referendum convocati per decidere quale relazione avere con la Francia ed ha boicottato una terza consultazione convocata durante la pandemia.

La riforma costituzionale prevede la concessione del diritto di voto a coloro che risiedono in Nuova Caledonia da almeno dieci anni, mentre fino ad ora le liste elettorali per le elezioni “provinciali” sono rimaste bloccate a coloro che risiedono nell’arcipelago almeno dal 1988 e ai loro discendenti, sulla base di un accordo tra le organizzazioni Kanaki e il presidente francese Jacques Chirac. Gli indipendentisti ritengono che concedere il diritto di voto “locale” a coloro che si sono trasferiti nella colonia negli ultimi decenni equivalga ad aumentare il peso politico dell’opinione filofrancese.

«Siamo stati trasformati in una minoranza da una politica di insediamento che non aveva altro scopo che questo. Ampliare l’elettorato significa perpetuare questa ingiustizia» ha denunciato Jean-Pierre Djaïwé, portavoce del Partito di Liberazione Kanak nel corso di un intervento al Congresso caledoniano.

Durante la notte tra lunedì e martedì centinaia di automobili e una trentina tra aziende, negozi e fabbriche sono state date alle fiamme sia a Noumea che nelle vicine città di Dumbéa e Mont-Dore da gruppi di manifestanti, per lo più giovani, incappucciati o mascherati.

Per ripristinare l’ordine il governo francese ha schierato quattro squadroni dei gruppi d’intervento della Gendarmeria (Gign), un’unità d’élite specializzata in operazioni speciali, ed ha imposto il coprifuoco per la notte tra martedì e mercoledì. Finora nel territorio d’oltremare, ha informato il ministro dell’interno francese Gerald Darmanin, sarebbero state arrestate 130 persone solo nel capoluogo Noumea.

Secondo le autorità ci sarebbero centinaia di feriti e tre persone – tutte di etnia Kanak – sarebbero rimaste uccise negli scontri tra i manifestanti e le forze dell’ordine, affiancate da milizie volontarie costituite soprattutto dai commercianti e coloni. Anche un agente della Gendarmeria è deceduto in seguito ad un colpo di arma da fuoco alla testa.

Nell’area metropolitana del capoluogo sono stati vietati tutti gli assembramenti e in tutto l’arcipelago sono stati sospesi il porto di armi e la vendita di alcolici. Inoltre è stata decretata la chiusura delle scuole e dell’aeroporto.

Ma nuovi scontri si sono verificati anche durante l’ultima notte, insieme ai saccheggi e agli incendi. Nel penitenziario locale alcuni detenuti hanno inscenato una rivolta e gran parte della popolazione è rimasta chiusa in casa mentre il prefetto ha prorogato i divieti di assembramento e la chiusura di scuole ed aeroporto fino a domani.

Il presidente Emmanuel Macron, dopo aver convocato per stamattina una riunione ad hoc con i responsabili dell’ordine pubblico e del Consiglio di Difesa e Sicurezza nazionale, ha dichiarato lo “stato di emergenza” per contrastare una situazione definita di tipo “insurrezionale” dalle autorità locali.

Il Fronte di Liberazione Nazionale Kanak e Socialista, che gestisce l’amministrazione locale, pur condividendo le rivendicazioni dei manifestanti ha più volte invitato a protestare pacificamente e a cessare le violenze.

Una delle preoccupazioni del governo è che gli scontri vadano fuori controllo e mettano a rischio l’estrazione del nichel nelle miniere dell’arcipelago.

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Gaza - Morti altri cinque soldati israeliani. Gli USA inviano nuove armi a Israele

Altri cinque soldati israeliani sono stati uccisi e altri sette sono rimasti feriti, di cui tre in modo grave, in un incidente che l’esercito israeliano ha definito come “fuoco amico a Jabaliya”, nel nord di Gaza. Tutti i soldati erano in servizio nel 202º battaglione della brigata paracadutisti. Uno dei cinque era proveniente dall’Argentina.

Secondo una prima indagine dell’IDF, un carro armato che operava a fianco dei paracadutisti nel campo di Jabaliya ha sparato due proiettili contro un edificio dove questi ultimi erano riuniti intorno alle 19:00. I carri armati avevano identificato una canna di fucile da una delle finestre dell’edificio e credevano che si trattasse di combattenti palestinesi ed hanno sparato due proiettili colpendo i militari israeliani.

Quanto avvenuto è la conferma delle serissime difficoltà in cui si sono venute a trovare le forze armate israeliane nei combattimenti in luoghi urbani a Gaza, dove i guerriglieri palestinesi rivelano maggiore dimestichezza e conoscenza del territorio. Da settimane la resistenza palestinese è tornata a colpire anche nelle zona nord e centrale della Striscia di Gaza da mesi occupate dalle truppe israeliane e ritenute erroneamente già sotto controllo.

Le Nazioni Unite hanno recentemente rivisto il conteggio delle vittime a Gaza, rivelando che risultano uccisi meno donne e bambini rispetto a quanto precedentemente riportato.

Tuttavia, è importante sottolineare come anche questi “dati rivisti” sono stati prodotti dal ministero della salute di Gaza e non sono stati verificati indipendentemente dalle Nazioni Unite.

Secondo i nuovi dati, sono stati confermati 7.797 bambini e 4.959 donne uccisi, per un totale di 12.756 donne e bambini uccisi durante l’operazione militare israeliana a Gaza. Una cifra enorme comunque.

Tra l’altro il bilancio complessivo delle vittime a Gaza, compresi i militanti e i civili maschi, rimane in gran parte invariato a circa 35.000 palestinesi uccisi in questi mesi.

Mentre gli apparati ideologici di Stato israeliani hanno interpretato ciò come una prova di rivalutazione da parte delle Nazioni Unite, l’OCHA sottolinea che si basa sui dati del ministero della salute e li verificherà quando le condizioni lo permetteranno. “La situazione rimane profondamente preoccupante, con una serie di violenze contro donne e bambini a Gaza, tra cui decessi quotidiani e bambini orfani fin dall’inizio della guerra” dichiarano le Nazioni Unite.

L’amministrazione Biden sta preparando un nuovo pacchetto di aiuti militari per Israele, dal valore complessivo di circa 1,2 miliardi di dollari. Fonti anonime hanno riferito al Wall Street Journal che il governo federale ha inviato la relativa notifica al Congresso nella giornata di martedì 14 maggio.

La notizia arriva nemmeno una settimana dopo che l’amministrazione Biden ha bloccato il trasferimento di migliaia di bombe pesanti ad Israele, per evitare che vengano utilizzate nel quadro di una possibile operazione militare israeliana su larga scala nella città di Rafah, nella Striscia di Gaza.

Il nuovo pacchetto di armi, secondo le fonti, include il “possibile trasferimento” di munizioni per carri armati per 700 milioni di dollari; veicoli militari tattici per 500 milioni; e proiettili per mortai per 60 milioni.

Il Wall Street Journal scrive che “i funzionari statunitensi hanno sottolineato la loro opposizione a un attacco israeliano su vasta scala nella città di Rafah, affermando che potrebbe causare vittime civili diffuse e aggravare la crisi umanitaria di Gaza senza porre fine alla minaccia che Israele deve affrontare da Hamas. Ma finora hanno concretizzato la loro opposizione solo trattenendo un singolo carico di bombe da 2.000 libbre”.

Gli esperti delle Nazioni Unite hanno espresso oggi il loro profondo sgomento per le dichiarazioni rilasciate da funzionari statunitensi e israeliani che minacciano ritorsioni contro la Corte penale internazionale (CPI), i suoi funzionari e i membri delle loro famiglie.

“In un momento in cui il mondo dovrebbe unirsi per porre fine al terribile spargimento di sangue a Gaza e cercare giustizia per coloro che sono stati uccisi, feriti, traumatizzati o presi in ostaggio illegalmente, dal 7 ottobre, è angosciante vedere funzionari statali minacciare ritorsioni contro un tribunale per aver perseguito la giustizia internazionale”, hanno detto gli esperti.

Venerdì 3 maggio, l’Ufficio del Procuratore (OTP) ha denunciato dichiarazioni che “minacciano ritorsioni contro la Corte o contro il personale della Corte” per le azioni intraprese dal Procuratore. La dichiarazione dell’OTP ha ricordato a tutti gli individui che le minacce di ritorsione possono costituire un reato contro l’amministrazione della giustizia ai sensi dell’articolo 70 dello Statuto di Roma.

“È scioccante vedere paesi che si considerano campioni dello stato di diritto cercare di intimidire un tribunale internazionale indipendente e imparziale per ostacolare la responsabilità”, hanno detto gli esperti delle Nazioni Unite.

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Rapporto Istat 2024: un’Italia di salari bassi e giovani senza opportunità di Gigi Sartorelli

Ieri l’Istat ha pubblicato il suo rapporto annuale per il 2024, che fa un quadro complessivo della situazione italiana. Anche quest’anno la fotografia che ne deriva è davvero impietosa: il Bel Paese è precario, funestato dalle disuguaglianze, quasi punitivo per i giovani che studiano.

I dati raccolti parlano dell’Italia sotto vari aspetti, ma ce ne sono alcuni che saltano all’occhio e che fa bene riassumere per mostrare dove ci ha portato l’incapacità della classe dirigente. A partire da ciò che il governo si guarda bene dal dire sull’occupazione e sulle retribuzioni.

Neanche due settimane fa la Meloni si fregiava del tasso di occupazione in aumento e dei disoccupati in diminuzione. Per quanto riguarda il primo (numero di persone occupate sulla popolazione tra i 15 e i 64 anni), l’Istat certifica un aumento del 2,4% rispetto al 2019, raggiungendo il 61,5%.

Quello che Palazzo Chigi non dice è che l’Italia rimane di gran lunga dietro la Spagna, la Francia e la Germania. Se si considera la popolazione tra i 20 e i 64 anni, a marzo venivano diffusi dati che davano il nostro paese al 66,3%, lontano quasi dieci punti dalla media europea e fanalino di coda della UE.

Per quanto riguarda i disoccupati in diminuzione, è di nuovo l’Istat a dirci che allo stesso tempo il tasso di inattività di coloro tra i 15 e i 64 anni è il più alto della UE (33,3%). Come vari analisti ricordano da anni, in Italia il problema è che in pochi lavorano, e in tanti hanno persino rinunciato a cercarlo.

E non perché le paghe di chi lavora siano così ricche da permettere di rimanere a casa. Tra il 2013 e il 2023 le retribuzioni medie annue sono aumentate del 16% in termini monetari, ma allo stesso tempo il potere d’acquisto delle retribuzioni lorde è diminuito del 4,5%.

Tra gennaio 2021 e dicembre 2023 i prezzi al consumo sono aumentati del 17,3%, e le retribuzioni contrattuali solo del 4,7%. Solo nell’ultimo trimestre del 2023 e nel primo del 2024 si comincia a segnalare un’inversione di tendenza, ancora lontana da un recupero completo di quello che i lavoratori hanno perso.

Tra il 2014 e il 2023 la spesa equivalente delle famiglie, in termini reali, è diminuita del 5,8%, con picchi oltre l’8% per le famiglie dei ceti bassi e medio-bassi. Intanto, anche la propensione al risparmio è diminuita fino al 6,3% lo scorso anno: si guadagna meno e si dà fondo ai risparmi, senza tuttavia essere in grado di spendere come un tempo.

Difatti, sempre tra il 2014 e il 2023 l’incidenza della povertà assoluta tra gli occupati è passata dal 4,9% al 7,6%, e tra gli operai dal 9% al 14,6%. Se ci si aggiunge che nel 2023 oltre la metà degli impiegati a tempo parziale avrebbe voluto lavorare di più (era involontario, in sostanza), si chiude il quadro di un paese che non riesce a stare al passo con le aspettative dei suoi cittadini.

Questo vale ancor di più se si guarda un altro paio di dati. Innanzitutto, al fatto che il 34% degli occupati laureati (circa 2 milioni di persone) sono impiegate con un inquadramento professionale più basso rispetto al titolo conseguito: sono “sovra-istruiti”, in una definizione che mostra tutta la distorsione del nostro modello di sviluppo.

I part-time involontari e i sotto-inquadrati dimostrano ancora una volta che la retorica per cui c’è troppa gente che non ha voglia di lavorare è falsa. E anche la litania per cui, prima di qualsiasi aumento salariale, si dovrebbe aumentare la produttività, viene smontata in poche righe dall’Istat stesso.

In una delle schede di presentazione del rapporto si può leggere infatti: “La riduzione della capacità produttiva nella manifattura e la persistente debolezza della domanda interna hanno contribuito a deprimere gli investimenti fissi lordi e, di riflesso, la produttività del lavoro”.

Gli imprenditori non investono, e non investono perché la domanda interna è stata compressa da decenni di austerità, precarizzazione e compressione salariale. Il paradigma mercantilistico che hanno ripetuto in continuazione, a Bruxelles e a Roma, dovrebbe essere ribaltato.

Infine, negli ultimi venti anni la partecipazione politica è diminuita di 15 punti percentuali (37,6% tra i 25 e i 64 anni). Un numero che mostra la disaffezione alla politica da parte della cittadinanza, in un paese in cui i vincoli esterni, di bilancio o di guerra, hanno fatto sentire la popolazione sempre meno in grado di incidere su una classe dirigente lobbistica.

Il primo giugno la manifestazione nazionale è sì contro il governo, ma sarà anche la piazza che rappresenterà una reale alternativa a questa Italia che hanno costruito sullo sfruttamento e, troppo spesso, anche sul sangue dei lavoratori.

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La variabile del Libano nel conflitto in corso in Palestina

Il 12 maggio, il Segretario Generale di Hezbollah Hassan Nasrallah ha tenuto un importante discorso in occasione dell’anniversario della morte del capo dell’ala militare dell’organizzazione Mustafa Badreddine, ucciso in Siria nel 2016.

Nasrallah è intervenuto sull’andamento della guerra a Gaza, sull’andamento del fronte che proprio Hezbollah ha aperto con Israele sul confine all’indomani del 7 ottobre 2023 e sulla questione dei rifugiati siriani in Libano.

Per quanto riguarda il secondo punto, sono costanti le pressioni portate, sia all’interno che all’esterno del paese, affinché l’organizzazione sciita cessi unilateralmente gli scontri che, al momento, hanno provocato più di 300 morti in Libano fra civili e miliziani e un gran numero di sfollati, dei quali si sta in parte facendo carico lo stesso partito sciita.

A tali sfollati sul lato libanese, fanno da contraltare anche gli sfollati dall’altra parte del confine, stimati fra 70mila e 200mila; questi ultimi costituiscono, per lo stato sionista, un problema di entità quasi pari a quello degli ostaggi in mano ad Hamas e alle altre organizzazioni palestinesi a Gaza, tanto da portare il ministro della difesa Gallant a minacciare di “fare a Beirut ciò che è stato fatto a Gaza”.

Nel corso di questi mesi, più volte sono state fatte pervenire al governo libanese (formalmente in carica solo per l’ordinaria amministrazione in quanto dalle ultime elezioni parlamentari del 2022 non si riesce a formare un nuovo esecutivo, né ad eleggere un nuovo Presidente della Repubblica) presunte “proposte di mediazione” da parte di USA e Francia affinché le milizie di Hezbollah cessino unilateralmente le azioni militari e accettino di arretrare a 10, 20 o 30 km dal confine (a seconda della proposta), facendo schierare al loro posto l’esercito libanese ed implementando, così, pienamente la risoluzione ONU che mise fine alla guerra del 2006.

In cambio, tali mediatori assicurano che Israele non distruggerà il Libano.

Sul fronte interno, è stato il solito Samir Geagea, capo del partito post-falangista “Forze Libanesi” a cogliere la palla al balzo: “Nessuno ha il diritto di controllare da solo il destino di un paese e di un popolo”, ha affermato. “Hezbollah non è il governo in Libano. C’è un governo in Libano in cui è rappresentato Hezbollah... Tutti i danni che avrebbero potuto verificarsi a Gaza, si sono verificati. Qual è stato il vantaggio delle operazioni militari lanciate dal sud del Libano? Nessuno”.

Nasrallah ha inteso rispondere a tutte queste pressioni riaffermando che la continuazione delle operazioni in sostegno a Gaza è una questione fuori discussione, argomentando che anche gli USA hanno assunto questo dato di fatto, tanto da aver comunicato a Netanyahu che non può esservi soluzione per il fronte settentrionale senza cessate il fuoco a Gaza.

Rispetto alla questione degli sfollati israeliani, la richiesta è esplicita: “Diciamo ai coloni del nord: se volete una soluzione, andate dal vostro governo e dite loro di fermare la guerra a Gaza”.

Sull’andamento generale della guerra a Gaza, il leader sciita ha rimarcato che Israele sta definitivamente compromettendo la propria immagine di deterrenza militare, tant’è che anche gli alleati di Netanyahu lo prendono in giro quando quest’ultimo parla di vittoria imminente, in quanto è ben lontano dal raggiungere i 3 obiettivi dichiarati, ovvero liberare gli ostaggi, distruggere la resistenza e porre fine al lancio di razzi sul proprio territorio.

Pertanto, l’occupante si trova in un vicolo cieco, poiché, da un lato, accettare le proposte di tregua dei mediatori significherebbe ammettere la sconfitta su tutta la linea, dall’altro non ha alcuna visione su come andare avanti e sul giorno dopo del conflitto.

Arrivano poi le stoccate ai paesi arabi: “I governanti arabi stavano per firmare le carte della morte della causa palestinese percorrendo la strada della normalizzazione con il nemico sionista, che sarebbe arrivata entro pochi mesi. Alcuni regimi arabi e canali satellitari stanno ora promuovendo l’entità nemica come l’unico stato democratico nella nostra regione.

La fermezza dei palestinesi ha costretto il mondo a parlare di uno Stato palestinese e ha costretto gli ipocriti Stati Uniti a parlare di uno Stato palestinese. L’immagine di Israele nel mondo è quella di un assassino di bambini e donne, arrogante nei confronti delle leggi internazionali e dei valori umani e morali”
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Infine, riguardo i presunti contrasti fra USA e Israele, li ha bollati come meramente tattici in quanto, seppure dovesse verificarsi l’interruzione dell’invio di armi, sicuramente riprenderebbe in un secondo momento.

L’altro argomento del momento in Libano è costituito dai rifugiati siriani, verso i quali sono in corso attacchi isterici di ogni tipo, fomentati – manco a dirlo – dalle Forze Libanesi, specialmente a seguito dell’uccisione del loro dirigente Pascal Sleiman, di cui sono stati accusati alcuni siriani.

Secondo alcune stime, sono circa 1,5 milioni i rifugiati siriani presenti nel paese, su una popolazione stimata in poco più di 5 milioni di abitanti, fra libanesi e rifugiati palestinesi dal ’48 in poi. Essi vivono per lo più in campi profughi non ufficiali o semi-ufficiali, ai margini delle città o ai margini dei campi profughi palestinesi storici.

Sono la componente sociale più marginalizzata, misera e senza speranza nell’ambito della grande crisi economica che attanaglia il Libano dal 2019. Come liberarsi di loro è divenuto, da qualche tempo, uno dei principali temi del dibattito politico, accompagnato da veri e propri pogrom di cui sono fatte oggetto le tendopoli precarie in cui vivono.

Siccome secondo i dati governativi, la maggior parte di essi sperano di raggiungere l’Europa, Nasrallah ha esortato a prendere in considerazione l’idea di consentire “a tutti gli sfollati siriani che lo desiderano di raggiungere l’Europa in sicurezza”.

“Non proponiamo di costringere gli sfollati siriani a salire su imbarcazioni e partire per Cipro e l’Europa”, ha puntualizzato, ma solo di abolire la regola per la quale è vietato loro partire, che li costringe spesso a rivolgersi a degli scafisti per poi annegare in mare.

In secondo luogo, Nasrallah ha invitato il governo libanese a chiedere ai paesi occidentali di revocare il Caesar Act e tutte le sanzioni nei confronti del governo siriano, stretto alleato di Hezbollah, che attualmente rendono molto difficile il ritorno in patria dei rifugiati: “Il Libano deve dire all’Occidente che dobbiamo tutti coordinarci con il governo siriano per riportare gli sfollati in Siria e fornire su quel territorio gli aiuti”.

Come si vede, sono sempre molteplici le sfide cui deve far fronte Hezbollah, dentro e fuori dal Libano, tuttavia la barra del sostegno alla causa palestinese appare sempre dritta, così come la proposta di soluzioni ragionevoli su altre questioni.

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Governo Meloni in crisi sul “bonus”, regge solo grazie a Renzi

È sempre sul debito pubblico e l’austerità europea – inscritta nel Patto di stabilità, da oltre 20 anni – che i governi “politici” si sfasciano, a prescindere dalla composizione o dal “colore”. Era accaduto a Berlusconi, è successo con tutti i successori (meno ovviamente i governi “tecnici”, che da quel Trattato venivano imposti per mantenere la rotta stabilita a Bruxelles).

E sul debito il sempre meno leghista Giorgetti ha tirato fuori l’arma “fine di mondo” che prelude sempre a una crisi verticale: “o sul bonus edilizia si fa come dico io, o vi trovate un altro ministro”.

Nell’attuale architettura dei poteri nazionali, visto che la politica estera e militare è stata ormai sussunta dalla Nato, quello dell’economia è l’unico ministero che conti. Non come capacità decisionale autonoma, ma come cartina tornasole dell’obbedienza di un paese al Patto di Stabilità e quindi alla Commissione Europea.

Cambiare ministro ha senso solo se si cambia politica di bilancio. Ma in quel caso parte immediatamente il segnale ai “mercati”, lo spread si impenna, il costo del debito pubblico anche, e alla fine il nuovo esecutivo si deve arrendere. Chiedete a Tsipras per conferma...

Il punto di frizione sembrava in fondo minimo: spalmare su 10 anni anziché su soli quattro i crediti fiscali vantati dalle imprese che avevano effettuato i lavori “scontati al 110%”, oppure che li stanno completando. La mossa però aveva parecchie controindicazioni. Dal unto di vista legislativo, implica una retroatttività che va a toccare “diritti acquisiti” (delle imprese, per l’incasso, e dei proprietari di immobili per lo sconto).

Va anche a toccare gli interessi delle banche, che vedrebbero rientrare molto più lentamente la liquidità anticipata per i lavori.

Il tutto a parziale beneficio dei conti pubblici, meno zavorrati nei prossimi quattro anni (ma più appesantiti per quelli successivi).

Forza Italia ha provato ad alzare le barricate, ma il resto del governo ha trovato ancora una volta in Matteo Renzi il “soccorso nero” per far passare la riscrittura della norma in Commissione Bilancio. Prima il governo ha spostato un fedelissimo della Meloni in questa Commissione, per aumentare il peso della maggioranza favorevole. Poi, non riuscendo comunque ad avere la certezza matematica del successo, ha chiesto e facilmente ottenuto l’aiutino del frillo di Rignano.

Partita chiusa, per ora. La spalmatura su dieci anni passa in Commissione e quindi ancora più facilmente in Aula.

Ma la ferita resta e dopo le europee si vedrà come le contraddizioni interne alla maggioranza di governo continueranno ad aggravarsi.

Del resto, tra le promesse elettorali, le chiacchiere in libertà (tipo “i salari sono diminuiti per colpa dell’euro”, invece che per le politiche di governi criminali con il lavoro), e il tentativo di scaricare sempre le responsabilità sui governi precedenti, è sempre più difficile presentare all’elettorato – anche il più credulone – un bilancio positivo.

E l’opposizione sociale va muovendo anche i sui primi passi con molta serietà. Ci vediamo in piazza il 1 giugno, contro il governo Meloni, “reazionario, padronale e guerrafondaio”.

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