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08/07/2025

Sette orchidee macchiate di rosso (1972) di U. Lenzi - Minirece

Gaza - Cinque soldati israeliani uccisi e 14 feriti in una imboscata

Cinque soldati israeliani sono stati uccisi e altri 14 feriti ieri in una imboscata della resistenza palestinese a Beit Hanun, nel nord della Striscia di Gaza.

Secondo le dichiarazioni dell’esercito di Tel Aviv i militari sono stati colpiti prima da una bomba piazzata sul ciglio di una strada poco dopo le 22 di ieri durante le operazioni di terra a Beit Hanun. I soldati stavano operando a piedi e non si trovavano a bordo di un veicolo. Successivamente le forze israeliane sono state colpite dal colpi di arma da fuoco. Tra i 14 feriti, due sono in gravi condizioni.

La radio israeliana riferisce invece che i soldati uccisi nell’imboscata di Beit Hanoun sono stati colpiti da quattro ordigni esplosivi fatti esplodere uno dopo l’altro, non contemporaneamente. L’area in cui si è verificata l’imboscata era stata pesantemente bombardata nelle ultime settimane come parte della “preparazione” per l’assalto di terra. Nonostante ciò, gli ordigni esplosivi sono esplosi esattamente al passaggio dell’unità israeliana.

I militari israeliani facevano parte del battaglione Netzah Yehuda, composto principalmente da soldati ultra-ortodossi, istituito nel 1999 per adattarsi allo stile di vita religioso degli haredim e di altre reclute nazional-religiose dell’esercito.

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USA über alles: più dazi per tutti

Parlare dei dazi Usa espone certamente al rischio di scrivere una cosa che dopo due ora non esiste più. Però qualche linea “strategica” si riesce ad intuire.

La notizia del giorno è il rinvio al 1 agosto della scadenza per quasi tutti i paesi con cui ancora non è stato raggiunto un accordo, Unione Europea compresa. Ma intanto va registrato che due alleati storici degli Stati Uniti, come Giappone e Corea del Sud, si sono visti appioppare un 25% che sicuramente peserà sugli scambi commerciali tra le due sponde del Pacifico.

E qui possiamo registrare la prima “chiave strategica” della politica commerciale trumpiana: non ci sono amici, in economia, ma solo competitori (tutti accusati di essere “scorretti”, naturalmente). È un rovesciamento radicale della storica posizione statunitense, che distingueva in modo radicale tra alleati e “nemici”, riservando qualche privilegio od esenzione ai primi e tutto il peggio ai secondi.

La ragione è spiegata in modo quasi surreale dal segretario al Tesoro Scott Bessent: “Stiamo raccogliendo entrate significative dai dazi. Il Cbo stima 2.800 miliardi di dollari in dieci anni. E i nuovi accordi potrebbero aumentare ulteriormente questa cifra”. In soldoni, ci servono soldi veri per abbattere il nostro debito pubblico e li prendiamo dai nostri partner commerciali.

L’idea di base è che gli interessi degli Stati Uniti vengono prima di tutto, agli altri viene lasciata solo la scelta tra subire passivamente o reagire con la prospettiva di dazi doppi o tripli (un po’ quello che Trump aveva provato a fare con la Cina, ritrovandosi poi costretto ad una rapidissima marcia indietro, ma non tutti “pesano” commercialmente come Pechino).

In questo quadro non esistono più regole né arbitri (il WTO, in specifico), così come sta avvenendo per l’Onu in altri campi. Vige la legge del più forte, anche se magari si sta sopravvalutando...

L’area economica più spiazzata è ovviamente l’Unione Europea, storica servitù post-bellica che si era ritagliata uno spazio di crescita “protetta” ma al tempo stesso “disinvolta” nei confronti del resto del mondo, imponendo ai propri membri una politica di austerità fatta su misura per favorire il mercantilismo sfacciato del paese-guida (la Germania).

Quella stagione si era già chiusa da un pezzo e solo di recente qualche avventuroso imbecille aveva trovato nel riarmo finanziato a debito (ma non comune) l’idea per restituire all’industria continentale qualche margine di profitto in più. Sorvolando ovviamente sul fatto che le armi più adatte alle nuove modalità di guerra vengono prodotte dagli Stati Uniti, che però hanno pure parecchi problemi nel ricostruire i magazzini svuotati per via dei “regali” ad Ucraina e Israele...

Proprio mentre l’establishment continentale, il più scarso della storia (basti confrontare von der Leyen o Kaja Kallas con i Kohl e i Mitterand), pregustava un po’ di business facile, seppur pericoloso (le armi, una volta prodotte, vien voglia di usarle), ecco arrivare questo bruto statunitense a stravolgere le regole fondamentali del commercio internazionale piazzando ostacoli tariffari fatti su misura per recuperare “fondi”.

La reazione UE, da mesi, è ondivaga, incerta, totalmente inefficace. Di fatto, non c’è stata.

Ufficialmente il compito della trattativa con Washington, da parte di tutti e 27 i paesi membri, è affidato a von der Leyen e al commissario al Commercio Maros Sefcovic, che solo di recente è riuscito a farsi ricevere dalle seconde file dell'“Imperatore”.

La strategia iniziale puntava ai “tassi zero” reciproci, ma è sparita della circolazione. Ora si punta a una “riduzione del danno”, ossia ad un’accettazione di dazi del 10% sulle merci europee senza applicare alcuna ritorsione verso le merci Usa.

Ma non c’è unanimità neanche su questo. Il rischio è che quel 10% – o più – si andrebbe a sommare con le tariffe già in vigore (25% sulle auto europee e del 50% su acciaio e alluminio), accompagnate dalla minaccia di un ulteriore 17% sull’export agroalimentare UE, che segherebbe il ramo su cui sono sedute Francia e Italia. E stendiamo un velo pietoso sulla disgrazia italica di avere un ministro come Lollobrigida... 

Pesa – sulla dinamicità della UE – soprattutto la differenza di interessi tra i due “big”, con la Germania di Merz preoccupata di trovare l’approccio più soft possibile con Trump in modo da non danneggiare troppo la propria industria automobilistica già boccheggiante, mentre la solita nostalgia di grandeur spinge Macron a ipotizzare “risposte simmetriche”.

Facile prevedere che l’esito finale sarà il peggiore possibile, per la scombiccherata carovana “europea”. E pare proprio che l’abbiano intuito persino a Bruxelles, tanto da mettere sulla graticola l’aristocratica di ascendenze naziste incredibilmente messa sulla poltrona continentale più importante.

Del resto, che volete pretendere da un baraccone fondato sul “pilota automatico”, ossia sulla rinuncia programmatica alla politica?

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Giovedì il parlamento UE dibatterà la sifuducia a von der Leyen

Ieri il il Parlamento UE ha discusso una mozione di sfiducia contro la Presidente della Commissione europea. La mozione è stata presentata da una eurodeputata rumena della destra, che ha accusato la von der Leyen di aver abusato del suo potere nella gestione della campagna di vaccinazione contro il Covid. Come esempi, vengono citati gli sms scomparsi dello scambio tra von der Leyen e il capo della Pfizer e l’assegnazione incontrollata degli acquisti di vaccini durante la pandemia.

La mozione di sfiducia porta la firma di circa 80 europarlamentari, un numero sufficiente per forzare il dibattito e il voto nell’assemblea plenaria giovedì prossimo. Se la mozione di sfiducia ottenesse la maggioranza dei 720 eurodeputati, l’intera Commissione dovrebbe dimettersi. Finora è successo solo nel 1999, al tempo di Santer, quando la Commissione europea dell’epoca fu costretta alla dimissioni anticipate e divenne presidente della Commissione Romano Prodi.

Con il volto teso la von der Leyen ha replicato alle accuse, ben consapevole che sta lottando per la sopravvivenza del suo potere per i prossimi quattro anni.

Le accuse contro la Presidente della Commissione europea sono tutt’altro che infondate. A maggio la Corte Europea aveva annullato la decisione della Commissione di annullare gli sms tra la von der Leyen e il boss della Pfizer, dando ragione all’inchiesta del New York Times, che aveva chiesto che venissero resi pubblici. La commissione non aveva spiegato in modo plausibile perché non fosse in possesso dei messaggi di testo, aveva affermato la sentenza.

La von der Leyen ha replicato alle accuse affermando che ci sono anche “preoccupazioni legittime” ma allo stesso tempo, in qualche modo l’ha “buttata in caciara”, definendo questa mozione di sfiducia il “più vecchio copione degli estremisti”, che i gruppi di destra al Parlamento europeo intendono creare un cuneo tra le istituzioni dell’UE alimentando le “teorie del complotto”, che i firmatari della mozione sono “oppositori della vaccinazione” ed infine ribadendo il refrain oggi di moda e valido per tutte le stagioni e per qualsiasi argomento, ossia che sono “difensori di Putin”. Insomma l’anatema al quale ricorrono tutti i politici di destra e “sinistra” quando sono messi alle corde.

Facendo forza sul suo ruolo internazionale in un contesto decisamente movimentato, la von der Leyen ha lanciato un appello ai deputati: “Non facciamo i giochi degli estremisti”. Per condurre negoziati commerciali con il presidente degli Stati Uniti Donald Trump o per sostenere l’Ucraina nella guerra contro la Russia, “la UE deve dare prova di forza. Questo può essere fatto solo attraverso l’unità”.

Ad aiutare la von der Leyen c’è il fatto che la mozione di sfiducia provenga dal campo della destra nell’europarlamento, con la quale però ci sono bei pezzi della “maggioranza Ursula” che non nascondono di voler interloquire.

I capigruppo parlamentari dei cristiano-democratici, dei socialdemocratici, dei liberali e dei verdi hanno detto ieri che non vogliono votare insieme ai gruppi parlamentari di destra, rendendo prevedibile che giovedì la mozione di sfiducia non raggiunga la necessaria maggioranza dei due terzi.

I leader dei socialdemocratici, dei verdi e dei liberali chiedono in cambio che von der Leyen si impegni in modo più esplicito a favore della coalizione “pro-europea” nell’europarlamento. La leader dei liberali, Valerie Hayer, ha chiesto alla Presidente della Commissione: “Chi sono i suoi veri alleati in questo Parlamento? Devi decidere. Nessuno di noi ha firmato questa mozione. Spero che tu l’abbia notato”.

Su questo aspetto è apparso più critico René Repasi, leader del gruppo della SPD al Parlamento europeo, che prima del dibattito in aula aveva dichiarato: “Chiunque pensi di poter governare l’Europa con maggioranze mutevoli si sbaglia”. Weber e von der Leyen devono riconoscere che il loro flirt con l’estrema destra è “a scapito di un’Europa stabile e capace di agire”. Il Presidente della Commissione deve tornare ad “accordi affidabili”.

Dopo il breve dibattito, von der Leyen ha lasciato direttamente la sala, livida in volto e con i suoi commissari al seguito. Appuntamento e resa dei conti sono attesi per giovedì.

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Le radici del privilegio di Elon Musk

C’era una volta una famiglia che non fuggiva dalla guerra, né dalla fame. No. Fuggiva verso il privilegio. Aveva un piano: raggiungere una terra dove il colore della pelle garantiva dominio, non sopravvivenza. Dove nascere bianchi significava comandare, possedere, esistere al di sopra.

Il capofamiglia, Joshua Haldeman, non era un uomo qualsiasi. Chiropratico canadese, appassionato di aviazione, sì – ma anche fervente sostenitore dell’estrema destra. Negli anni ’30 fu arrestato per simpatie filofasciste. Non un errore di gioventù, ma una convinzione ideologica profonda: quella dell’uomo bianco superiore, destinato a guidare le masse “inferiori”.

Sua moglie, Wyn Haldeman, tedesca, non era da meno. Nata in una famiglia di coloni tedeschi nella Namibia, all’epoca protettorato imperiale, proveniva da una stirpe che aveva tratto profitti diretti dal genocidio. Sì, genocidio: il massacro degli Herero e dei Nama, tra il 1904 e il 1908, in cui furono sterminati decine di migliaia di africani. Avvelenamento dei pozzi, deserti trasformati in campi di morte, fame come strumento di sterminio. Fu il primo genocidio del XX secolo, e tra i carnefici c’erano anche i suoi antenati.

E quando il nazismo crollò e l’Europa mostrò la sua vergogna, Joshua e Wyn non cercarono redenzione. Scelsero l’apartheid. Si trasferirono in Sudafrica, attratti da un sistema che legalizzava la segregazione, che dava tutto ai bianchi e niente agli altri. Un’utopia razzista mascherata da ordine sociale. Fu lì che nacque Errol, il figlio della supremazia.

Cresciuto in un sistema che premiava il colore, non il merito, Errol divenne uomo nell’età d’oro dell’élite bianca. Partecipò a un’impresa redditizia: una miniera di smeraldi, situata tra Sudafrica e Zambia. Una miniera scavata da mani nere, sfruttate, dimenticate. Gli smeraldi venivano venduti sul mercato globale. Il denaro, però, restava nelle mani bianche. Ma non solo pietre preziose: Errol commerciava anche cromo, un metallo indispensabile per l’industria mondiale, estratto tra abusi, miseria e sangue.

Nel 1971 nacque suo figlio. Un bambino bianco, ricco, nato a Pretoria, cuore pulsante del regime dell’apartheid, dove i neri non erano cittadini ma numeri, servi, forza lavoro senza voce.

Quel bambino non dovette attraversare deserti, né barconi. Non visse nei campi profughi, né affrontò i respingimenti. Si spostò da un continente all’altro con passaporti, valigie piene e conti bancari. Portava con sé un bagaglio invisibile, ma potentissimo: il privilegio ereditato dal colonialismo e dal razzismo legalizzato.

Negli Stati Uniti divenne l’uomo del futuro. Il visionario. L’imprenditore geniale. Il simbolo del “self-made man”. Ma quale self-made? Di che fatica parliamo, quando si parte con tutto?

Non si racconta che le sue fortune affondano le radici in miniere africane, in generazioni che hanno calpestato la dignità di interi popoli. Non si ricorda che fu la pelle bianca, non il merito, a spalancargli le prime porte.

E oggi, ironia amara, quello stesso uomo, tuona contro i migranti. Vuole muri, respingimenti, blocchi navali. Lui, che da migrante bianco è stato accolto e protetto, ora alza barricate contro i disperati del mondo.

Ma non è tutto. In un crescendo grottesco, rivendica persino la “restituzione delle terre ai bianchi” in Sudafrica. Non parla di campi coltivati, ma di miniere, di diamanti, di carbone: ricchezze strappate alla terra africana con la violenza, e mai restituite. È il ritorno mascherato dell’apartheid. Un revisionismo pericoloso, sostenuto da frange estreme, nostalgiche di un’epoca di dominio razziale.

E allora chiediamoci: in quale Paese del mondo le miniere appartengono a privati cittadini? In quale costituzione democratica si legittima la rapina delle risorse collettive da parte di pochi privilegiati?

C’è chi dice che sia un miracolo americano. Ma nessuno ricorda che, se oggi è uno degli uomini più ricchi del pianeta, è anche grazie a Nelson Mandela. Perché Mandela, nella sua grandezza e nel suo desiderio di riconciliazione, non confiscò le ricchezze accumulate sotto l’apartheid. Nazionalizzò le miniere, sì, ma lasciò intatti i patrimoni sporchi del sangue africano.

Così si chiude il cerchio. Dalla Namibia coloniale alle miniere sudafricane, fino alla Silicon Valley: è una traiettoria disegnata dal privilegio, dal razzismo sistemico, dall’impunità dei potenti.

Il suo nome è Elon Musk.

E allora, prima di parlarmi di meritocrazia, fatica e talento, guardate bene da dove comincia la sua storia.

Perché quando si nasce con tutto, si può arrivare ovunque.

Ma non si può, e non si deve, riscrivere la verità.

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Montrose - Rock candy

La pulizia etnica come business: il clan di Blair per il “ricollocamento” dei gazawi

Una lunga inchiesta apparsa sul Financial Times il 4 luglio, a firma di Stephen Foley, ha rivelato che la Boston Consulting Group (BCG), società di consulenza statunitense, ha lavorato alla modellazione finanziaria per la ricostruzione postbellica di Gaza, commissionata da sostenitori israeliani, con uno scenario che prevedeva il “ricollocamento volontario” dei palestinesi dall’enclave.

La BCG è già stata coinvolta in quello che non può più nemmeno essere definito uno scandalo, ma una pratica tra le tante del genocidio che viene portato avanti da Israele: quello dell’utilizzo dei centri di distribuzione per gli aiuti della Gaza Humanitarian Foundation (GHF) come campi in cui ‘mietere vittime‘ ammassate alla ricerca di un po’ di cibo.

La BCG ha negato di aver avuto parte nella costruzione di questa Organizzazione Non Governativa pensata e istituita tra USA e stato sionista, dicendo che aveva inizialmente dato solo del “supporto pro bono”, e che due soci senior dello studio non hanno dato informazioni complete sul contenuto del progetto. Per questo, sono stati in pratica obbligati a dimettersi, mentre sono cominciate indagini interne.

Tuttavia, alcune fonti interne che hanno parlato col Financial Times hanno dichiarato che la società di consulenza è stata coinvolta molto più di quanto sia disposta a riconoscere: avrebbe ricevuto 4 milioni di dollari nell’arco di 7 mesi, tra ottobre e fine maggio, e ben 12 suoi dipendenti avrebbero lavorato al progetto, in fase di continua evoluzione, chiamato ‘Aurora’.

In sostanza, dietro tale nome si trova il piano di trasformare Gaza in quella riviera turistica che Trump aveva già accennato mesi fa, e la BCG si sarebbe occupata di programmare le attività finanziarie collegate, compreso il pagamento di “pacchetti di ricollocazione” per ben 500 mila persone, del valore di 9 mila dollari (circa 5 miliardi di dollari in totale), per invogliare i gazawi a lasciare la propria terra.

Nel modello preparato si prevedeva che l’altro milione e mezzo di abitanti della Striscia difficilmente avrebbe scelto di tornare, senza però dire che ciò non deriva da una decisione libera e individuale, ma dal fatto che Gaza è stata ridotta a un cumulo di macerie dal terrorismo sionista, mentre l’apartheid non si è e non si sarebbe mai fermata, nemmeno in futuro.

Questa operazione di pulizia etnica veniva mostrata come conveniente anche dal punto di vista economico: il trasferimento dei palestinesi fuori dalla Striscia costerebbe 23 mila dollari in meno a persona, rispetto al fornire a ogni abitante di Gaza il supporto necessario nel corso della ricostruzione delle loro case e delle infrastrutture essenziali rase al suolo da Tel Aviv.

Anche se è vero che, mossi dal montare delle critiche verso l’attività della GHF, nella BCG hanno cominciato a muoversi dubbi anche sul senso del progetto Aurora, fino a tagliare i ponti con quel programma, è evidente che, dopo due anni di massacri continui e dichiarazioni anche piuttosto esplicite, non sarebbe dovuto servire molto sforzo a capire che la società si stava rendendo complice di pulizia etnica.

Sicuramente, anche Tony Blair lo sapeva bene, quando il think tank da lui istituito – il Tony Blair Institute (TBI), appunto – ha partecipato a una presentazione di una serie di diapositive intitolata The Great Trust, un progetto promosso da imprenditori israeliani per rendere Gaza un polo di attrazione di investimenti, con schemi commerciali basati su zone economiche speciali e isole artificiali come quelle di Dubai.

Va precisato che il Tony Blair Institute non ha redatto né dato approvazione alla presentazione citata, ma solo che due suoi membri hanno partecipato alle discussioni e alle chiamate per lo sviluppo del progetto. Bisogna però anche dire che, come per il BCG, decine di migliaia di morti rendevano abbastanza chiaro la finalità genocida di questo sforzo imprenditoriale.

Del resto, Blair è colui che è stato accusato di aver fatto distruggere documenti importanti che delineavano come illegale l’intervento in Iraq nel 2003, e non è dunque nuovo alla partecipazione a crimini contro l’umanità. Come allora, questi sono giustificati in virtù dell’utilità che gli viene attribuita nel sostenere la lotta dell’Occidente contro il mondo multipolare.

In un documento interno del TBI, intitolato Gaza Economic Blueprint, viene delineata anche la costruzione di un porto in acque profonde che fungerebbe da snodo centrale del corridoio commerciale che dovrebbe unire l’India con l’Europa, la famosa ‘Via del Cotone’ pensata per competere con quella cinese della Seta.

Al TBI è andata a lavorare dalla fine del 2023 anche Sanna Marin, l’ex prima ministra finlandese che ha rappresentato per qualche mese un esempio per il centrosinistra europeo, perché donna e... guerrafondaia. Dopo aver portato il suo paese nella NATO, millantando che la Russia è un pericolo esistenziale, si è poi dedicata all’organizzazione di Tony Blair, senza mai spendere una parola sul genocidio dei palestinesi.

Queste sono le porte girevoli della politica del nostro continente, che unita sostiene la pulizia etnica in Palestina mentre dimostra di essere sempre meno capace a governare un mondo sempre più complesso, e a esprimere valori in grado di raccogliere consenso tra masse di persone ormai consapevoli dei crimini sionisti.

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Chiuso il vertice BRICS+ di Rio, cautamente verso un nuovo ordine mondiale

Si è chiuso il 6 luglio, a Rio de Janeiro, il 17esimo summit dei paesi BRICS+. I suoi membri hanno firmato una dichiarazione congiunta che si intitola “Rafforzare la cooperazione del Sud Globale per una governance più inclusiva e sostenibile”. Come si legge sul sito dei BRICS+, il documento riflette “l’impegno a rafforzare il multilateralismo, a difendere il diritto internazionale e a impegnarsi per un ordine globale più equo”.

Molte testate giornalistiche hanno sottolineato l’atteggiamento cauto dei toni usati nel forum di cooperazione che ormai riunisce circa il 50% della popolazione mondiale e intorno al 40% del suo PIL. Ma a ben vedere, un movimento cauto verso il superamento dell’ordine mondiale unipolare occidentale non significa che sia meno deciso di altri più affrettati.

Innanzitutto, va sottolineato che l’incontro dei ministri degli Esteri dei BRICS+, svoltosi sempre nella metropoli brasiliana lo scorso aprile, non aveva raggiunto una dichiarazione congiunta. Se questa volta una tale dichiarazione c’è stata, di ben 31 pagine, questo significa che il messaggio che si vuole mandare è quello di unità, anche se si è preferito non imbarcarsi in dibattiti delicati.

A tenere banco, dall’inizio dell’anno a questa parte, è ancora il nodo dei dazi decisi dall’amministrazione Trump, che sta trattando con tanti paesi in maniera separata per nuovi accordi commerciali. Il tycoon ha recentemente affermato che è pronto a tariffe aggiuntive per quei governi che decidono di allineare le proprie posizioni a quelle dei BRICS.

Nel testo, vengono comunque ribadite “serie preoccupazioni per l’aumento di misure tariffarie e non tariffarie unilaterali che distorcono il commercio e sono incompatibili con le regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio”. In esso, vengono anche “condannati gli attacchi militari contro la Repubblica Islamica dell’Iran dal 13 giugno 2025”, ma non ci sono altri riferimenti a Israele o al ruolo avuto dagli USA.

Sull’Ucraina i BRICS+ condannano il terrorismo ucraino contro i civili durante gli attacchi a ponti e infrastrutture ferroviarie nelle regioni russe di Bryansk, Kursk e Voronezh. Ma anche sul conflitto in Est Europa, le parole si fermano qui. Più duro l’attacco all’occupazione sionista della Palestina, con la condanna verso “l’uso della fame come metodo di guerra” e “i tentativi di politicizzare o militarizzare l’assistenza umanitaria”.

Di nuovo, i BRICS+ hanno riaffermato il sostegno alla soluzione a due stati, col rispetto dei confini stabiliti nel 1967. Un’ipotesi che segue le determinazioni prese in sede ONU e il diritto internazionale, ma che nessuno (nemmeno a Rio, sicuramente) ancora pensa sia davvero una soluzione concretamente realizzabile.

Il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, al vertice avrebbe infatti affermato: “la Repubblica islamica dell’Iran ritiene che una soluzione giusta per la Palestina sia un referendum con la partecipazione di tutti gli abitanti originari, compresi ebrei, cristiani e musulmani, e che questa non sia una soluzione irrealistica o irraggiungibile”.

Sono tre i temi che sono stati discussi al vertice che, invece, risultano assai interessanti, nel quadro del progressivo sviluppo di un nuovo ordine mondiale che sia finalmente, e definitivamente, decolonizzato. Brasile e India hanno sostenuto la necessità della riforma dell’ONU, col sostegno di Cina e Russia, e con l’obiettivo finale abbastanza esplicito di ottenere un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza.

È stata promossa anche la riforma del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e della Banca Mondiale. Strumenti dell’ordine di Bretton Woods, ormai morto e sepolto, e che per decenni hanno espresso l’egemonia mondiale statunitense, ma che ormai si presentano sempre più come strumenti di ricatto economiche verso le economie emergenti.

Oltre a chiedere una giusta tassazione sui miliardari, allo stesso tempo è stato rilanciato anche il ruolo della Nuova Banca di Sviluppo (NDB), l’istituto fondato dai BRICS+ per essere “agente robusto e strategico di sviluppo e modernizzazione nel Sud del mondo”. Tra le sue funzioni anche quella di “espandere il finanziamento in valuta locale”.

La questione dedollarizzazione è stata citata da Lula. “La discussione – ha detto il presidente brasiliano – sulla necessità di una nuova moneta per l’export è estremamente importante”, anche se poi si è soffermato solo sull’Iniziativa di Pagamenti Transfrontalieri, messa in piedi dai BRICS+ per agevolare gli scambi tra i paesi membri.

Insomma, si tratta di un insieme di dichiarazioni che, seppur possano sembrare caute – ed effettivamente lo sono – sono dettate dalla guerra che l’Occidente sta muovendo al raggiungimento di un pieno multipolarismo. Ma colpiscono in pieno gli interessi materiali dei paesi imperialistici, USA o europei che siano.

Inoltre, associano allo sviluppo di una cooperazione economica nuova, anche il sostegno al diritto internazionale, e soprattutto una riforma degli organismi multilaterali già esistenti, in un evidente sforzo di restituire loro la legittimità che hanno perso con le strumentalizzazioni che ne hanno fatto le cancellerie occidentali.

Non che alcuni paesi, come la Cina, non stiano già pensando a organismi tutti nuovi, ma è chiaro che, con la loro azione, i BRICS+ si pongono come punto di riferimento per l’intero Sud Globale, e per chiunque voglia sviluppare relazioni libere dalle imposizioni dell’Occidente.

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