30/04/2025
Il 30 aprile 1975 il Vietnam è finalmente libero
di Federico Giuliani
Il 30 aprile 1975 il Vietnam è libero e indipendente. Esattamente 50 anni fa gli elicotteri Usa si alzavano in volo per portare via gli ultimi americani da Saigon, mentre le truppe nordvietnamite entravano nella città che sarebbe stata ribattezzata Ho Chi Min City. La guerra contro gli “imperialisti occidentali” era finalmente terminata. Ed era stata vinta. Dopo la Francia, infatti, anche gli Stati Uniti salutavano il Vietnam, un Paese diviso nel 1954 al termine della Prima Guerra d’Indocina (1946-1954) tra le forze coloniali francesi e i vietnamiti guidati da Ho Chi Minh, e che di lì a poco sarebbe stato riunificato sotto il nome di Repubblica Socialista del Vietnam con capitale Hanoi.
Saigon, che fino a pochi anni prima deteneva il ruolo consolidato di capitale del Vietnam non comunista, era appena entrata in una nuova era. Generali, soldati, politici e funzionari pubblici che avevano sempre dettato legge in città erano evaporati come neve al sole. I nordvietnamiti erano pronti a riconquistare questo centro urbano anche a costo di combattere isolato per isolato.
Non ce ne sarebbe stato bisogno perché i combattimenti tra le forze comuniste e le ultime difese del Vietnam del Sud si consumarono fuori dalla città. E poi perché l’ultimo presidente sudvietnamita, il generale Duong Van Minh, aveva ordinato all’esercito di deporre le armi.
La vittoria sui francesi
Dal 1975 in poi ogni 30 aprile in Vietnam si festeggia un doppio anniversario: quello della Liberazione del Sud e quello della Riunificazione Nazionale, ovvero una delle tappe più significative della storia moderna vietnamita. Per capire cosa era appena accaduto in questo Paese del Sud Est asiatico bisogna tornare indietro nel tempo.
La Francia colonizzò l’intera regione dell’Indocina (Vietnam, Laos, Cambogia) tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Nel 1940, con Parigi alle prese con l’occupazione nazista in Europa, il Giappone invase l’Indocina francese, lasciando formalmente al potere l’amministrazione coloniale europea. Nel frattempo emersero diversi movimenti di resistenza locali, compreso il Viet Minh, la Lega per l’indipendenza del Vietnam, un movimento comunista e nazionalista per liberare il Vietnam fondato da Ho Chi Minh.
Con la sconfitta del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale, il Viet Minh prese il controllo di Hanoi e il 2 settembre 1945, Ho Chi Minh proclamò l’indipendenza del Vietnam. La Francia non accettò l’indipendenza e cercò di riprendere il controllo del Paese. Seguirono otto anni di guerra e la clamorosa sconfitta di una potenza coloniale europea da parte di un esercito di liberazione asiatico.
La liberazione del Vietnam
Dopo la sconfitta francese nella battaglia di Dien Bien Phu vennero firmati gli Accordi di Ginevra. Il Vietnam veniva diviso temporaneamente lungo il 17esimo parallelo nel Vietnam del Nord (controllato dal Viet Minh comunista) e nel Vietnam del Sud (con un Governo anti comunista sostenuto da Francia e Stati Uniti). Nel 1956 si sarebbero dovute tenere elezioni nazionali per riunificare il Paese ma non successe niente del genere, in primis per l’opposizione del Sud (soprattutto statunitense) che temeva una schiacciante vittoria comunista.
Risultato: il sentimento anti occidentale crebbe fino ad arrivare alla guerra aperta tra il Vietnam del Nord e quello del Sud, ormai appoggiato dagli Usa, di fatto subentrati ai francesi e desiderosi di contenere l’espansione del comunismo in Asia. Washington avrebbe tuttavia miseramente fallito, così come anni prima avevano fallito i francesi. Il conflitto fu durissimo ma sfiancante. Nel 1973 gli Stati Uniti firmarono gli Accordi di Parigi con il Vietnam del Nord: gli americani si sarebbero ritirati in cambio di un cessate il fuoco e del ritorno dei prigionieri di guerra. Tuttavia, il conflitto continuò tra Nord e Sud Vietnam fino al 1975.
“I comunisti governavano ancora di fatto gran parte delle campagne e si erano infiltrati a ogni livello del Governo sudvietnamita, dal palazzo presidenziale in giù. Furono i soldi americani, non la lealtà, a guidare lo sforzo bellico sudvietnamita. Senza alcuna prospettiva di aiuto americano, l’esercito sudvietnamita crollò nella primavera del 1975”, scriveva il Time ricordando quegli anni. Il 30 aprile del 1975 Saigon cadde definitivamente. E il Vietnam si scopriva libero da ogni ingerenza occidentale.
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Il 30 aprile 1975 il Vietnam è libero e indipendente. Esattamente 50 anni fa gli elicotteri Usa si alzavano in volo per portare via gli ultimi americani da Saigon, mentre le truppe nordvietnamite entravano nella città che sarebbe stata ribattezzata Ho Chi Min City. La guerra contro gli “imperialisti occidentali” era finalmente terminata. Ed era stata vinta. Dopo la Francia, infatti, anche gli Stati Uniti salutavano il Vietnam, un Paese diviso nel 1954 al termine della Prima Guerra d’Indocina (1946-1954) tra le forze coloniali francesi e i vietnamiti guidati da Ho Chi Minh, e che di lì a poco sarebbe stato riunificato sotto il nome di Repubblica Socialista del Vietnam con capitale Hanoi.
Saigon, che fino a pochi anni prima deteneva il ruolo consolidato di capitale del Vietnam non comunista, era appena entrata in una nuova era. Generali, soldati, politici e funzionari pubblici che avevano sempre dettato legge in città erano evaporati come neve al sole. I nordvietnamiti erano pronti a riconquistare questo centro urbano anche a costo di combattere isolato per isolato.
Non ce ne sarebbe stato bisogno perché i combattimenti tra le forze comuniste e le ultime difese del Vietnam del Sud si consumarono fuori dalla città. E poi perché l’ultimo presidente sudvietnamita, il generale Duong Van Minh, aveva ordinato all’esercito di deporre le armi.
La vittoria sui francesi
Dal 1975 in poi ogni 30 aprile in Vietnam si festeggia un doppio anniversario: quello della Liberazione del Sud e quello della Riunificazione Nazionale, ovvero una delle tappe più significative della storia moderna vietnamita. Per capire cosa era appena accaduto in questo Paese del Sud Est asiatico bisogna tornare indietro nel tempo.
La Francia colonizzò l’intera regione dell’Indocina (Vietnam, Laos, Cambogia) tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Nel 1940, con Parigi alle prese con l’occupazione nazista in Europa, il Giappone invase l’Indocina francese, lasciando formalmente al potere l’amministrazione coloniale europea. Nel frattempo emersero diversi movimenti di resistenza locali, compreso il Viet Minh, la Lega per l’indipendenza del Vietnam, un movimento comunista e nazionalista per liberare il Vietnam fondato da Ho Chi Minh.
Con la sconfitta del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale, il Viet Minh prese il controllo di Hanoi e il 2 settembre 1945, Ho Chi Minh proclamò l’indipendenza del Vietnam. La Francia non accettò l’indipendenza e cercò di riprendere il controllo del Paese. Seguirono otto anni di guerra e la clamorosa sconfitta di una potenza coloniale europea da parte di un esercito di liberazione asiatico.
La liberazione del Vietnam
Dopo la sconfitta francese nella battaglia di Dien Bien Phu vennero firmati gli Accordi di Ginevra. Il Vietnam veniva diviso temporaneamente lungo il 17esimo parallelo nel Vietnam del Nord (controllato dal Viet Minh comunista) e nel Vietnam del Sud (con un Governo anti comunista sostenuto da Francia e Stati Uniti). Nel 1956 si sarebbero dovute tenere elezioni nazionali per riunificare il Paese ma non successe niente del genere, in primis per l’opposizione del Sud (soprattutto statunitense) che temeva una schiacciante vittoria comunista.
Risultato: il sentimento anti occidentale crebbe fino ad arrivare alla guerra aperta tra il Vietnam del Nord e quello del Sud, ormai appoggiato dagli Usa, di fatto subentrati ai francesi e desiderosi di contenere l’espansione del comunismo in Asia. Washington avrebbe tuttavia miseramente fallito, così come anni prima avevano fallito i francesi. Il conflitto fu durissimo ma sfiancante. Nel 1973 gli Stati Uniti firmarono gli Accordi di Parigi con il Vietnam del Nord: gli americani si sarebbero ritirati in cambio di un cessate il fuoco e del ritorno dei prigionieri di guerra. Tuttavia, il conflitto continuò tra Nord e Sud Vietnam fino al 1975.
“I comunisti governavano ancora di fatto gran parte delle campagne e si erano infiltrati a ogni livello del Governo sudvietnamita, dal palazzo presidenziale in giù. Furono i soldi americani, non la lealtà, a guidare lo sforzo bellico sudvietnamita. Senza alcuna prospettiva di aiuto americano, l’esercito sudvietnamita crollò nella primavera del 1975”, scriveva il Time ricordando quegli anni. Il 30 aprile del 1975 Saigon cadde definitivamente. E il Vietnam si scopriva libero da ogni ingerenza occidentale.
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Dazi, sconti e scontri. Per Trump non butta bene
Il caos dazi si complica, invece di sciogliersi. Dalla contea di Macomb, nel Michigan un tempo sede della concentrazione più alta al mondo di fabbriche automobilistiche, Donald Trump ha dovuto correggere in più punti il suo molto schematico sistema di tariffe punitive.
Sulle auto straniere era stato deciso un sovraccarico doganale del 25%, e altrettanto su acciaio e alluminio. Il problema diventato subito esplosivo è che in questo modo i componenti fondamentali provenienti dall’estero subivano una doppia imposizione straordinaria, che faceva aumentare il costo di produzione anche per gli autoveicoli fabbricati negli States.
Del resto è noto che produrre un’auto, oggi, significa assemblare parti costruite un po’ in tutto il mondo, così che non esiste più praticamente la possibilità concreta di avere un prodotto totalmente “made in” qualsiasi paese. Ricordiamo per esempio che il terremoto che provocò lo tsunami e il disastro nucleare di Fukushima (2011) bloccò per qualche tempo la produzione di chip e centraline che dovevano esser montate su un’infinità di modelli in tutto il mondo.
La parziale marcia indietro di Trump si traduce in una “dose scalare” di rimborsi – fino al 3,75% del valore delle vetture finali, e per il secondo anno al 2,5% del valore – in modo da dar tempo alle industrie di adattarsi al “nuovo corso”.
Ma è una sofferenza continua. Jeff Bezos, patron di Amazon, ha deciso di rendere pubblica la quota di aumento dei prezzi addebitabile ai dazi per ogni singolo prodotto venduto sulla sua piattaforma (che all’80% vende merci “made in China”), in modo da schivare le critiche e la disaffezione dei consumatori Usa.
La giovane portavoce della Casa Bianca lo ha additato pubblicamente come responsabile di un «atto ostile e politico». Come se Bezos fosse un normale “democratico” e non uno dei protagonisti delle “magnifiche sette” della new economy che si erano schierate con Trump subito dopo la sua elezione.
Bezos, va ricordato, si era esposto al punto di aver scritto un editoriale in cui annunciava di aver imposto un drastico cambio di linea al Washington Post, storico baluardo del giornalismo progressista Usa (memorabile il Watergate che costrinse Richard Nixon alle dimissioni), ora di sua proprietà.
Un editoriale che annullava oltretutto l’ultima foglia di fico messa sulla “libertà di stampa”: al WaPo c’è un padrone, come in tutti i giornali, e la linea la fa lui, non i giornalisti. Punto.
Ma non sono finite qui le pessime notizie per la nuova amministrazione “di rottura”. Proprio la politica dei dazi eccezionali, specie contro la Cina, sta preparando un enorme problema per i consumatori Usa meno abbienti.
Come chiariscono molti analisti seri, è nei supermercati che si va preparando lo shock per i consumatori statunitense, specie quelli che hanno votato sotto l’illusione “Maga” (Make America great again). Va ricordato, per esempio, che la sola catena di distribuzione WalMart – la più grande e capillare, un milione di dipendenti pagati pochissimo, dove puoi trovare dallo spazzolino al fucile mitragliatore – già venti anni fa rappresentava da sola il 12% del mercato di sbocco delle esportazioni cinesi. Allora prodotti “poveri” per lavoratori altrettanto poveri, ma nel paese più ricco del mondo...
Oggi la situazione è radicalmente cambiata (per la Cina, soprattutto), e quelle merci-salario indispensabili sono oggi fabbricate in molti altri paesi “in via di sviluppo”. Ma la politica dei dazi trumpiani è universale, per quanto differenziata. Quindi...
Poi, certo, si prova a nascondere i problemi sotto le promesse (un quasi accordo in arrivo con l’India, una revisione contrattata con la Cina, ecc.), ma questa è la parte più “vecchio stile”, comprensibile da chiunque non sia un tifoso ottenebrato dalla fede.
Sembra strano, vendendo l’amministrazione Usa oggi totalmente in mano ad imprenditori miliardari. Ma pare proprio che non si siano resi conto di vivere e prosperare in un “sistema” indipendente dalle volontà individuali e che, manomettendolo, avrebbero provocato scosse telluriche impossibili da controllare “as usual”.
Succede, se non capisci la differenza abissale tra controllare un’azienda e governare un Paese. Di quelle dimensioni, poi...
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Sulle auto straniere era stato deciso un sovraccarico doganale del 25%, e altrettanto su acciaio e alluminio. Il problema diventato subito esplosivo è che in questo modo i componenti fondamentali provenienti dall’estero subivano una doppia imposizione straordinaria, che faceva aumentare il costo di produzione anche per gli autoveicoli fabbricati negli States.
Del resto è noto che produrre un’auto, oggi, significa assemblare parti costruite un po’ in tutto il mondo, così che non esiste più praticamente la possibilità concreta di avere un prodotto totalmente “made in” qualsiasi paese. Ricordiamo per esempio che il terremoto che provocò lo tsunami e il disastro nucleare di Fukushima (2011) bloccò per qualche tempo la produzione di chip e centraline che dovevano esser montate su un’infinità di modelli in tutto il mondo.
La parziale marcia indietro di Trump si traduce in una “dose scalare” di rimborsi – fino al 3,75% del valore delle vetture finali, e per il secondo anno al 2,5% del valore – in modo da dar tempo alle industrie di adattarsi al “nuovo corso”.
Ma è una sofferenza continua. Jeff Bezos, patron di Amazon, ha deciso di rendere pubblica la quota di aumento dei prezzi addebitabile ai dazi per ogni singolo prodotto venduto sulla sua piattaforma (che all’80% vende merci “made in China”), in modo da schivare le critiche e la disaffezione dei consumatori Usa.
La giovane portavoce della Casa Bianca lo ha additato pubblicamente come responsabile di un «atto ostile e politico». Come se Bezos fosse un normale “democratico” e non uno dei protagonisti delle “magnifiche sette” della new economy che si erano schierate con Trump subito dopo la sua elezione.
Bezos, va ricordato, si era esposto al punto di aver scritto un editoriale in cui annunciava di aver imposto un drastico cambio di linea al Washington Post, storico baluardo del giornalismo progressista Usa (memorabile il Watergate che costrinse Richard Nixon alle dimissioni), ora di sua proprietà.
Un editoriale che annullava oltretutto l’ultima foglia di fico messa sulla “libertà di stampa”: al WaPo c’è un padrone, come in tutti i giornali, e la linea la fa lui, non i giornalisti. Punto.
Ma non sono finite qui le pessime notizie per la nuova amministrazione “di rottura”. Proprio la politica dei dazi eccezionali, specie contro la Cina, sta preparando un enorme problema per i consumatori Usa meno abbienti.
Come chiariscono molti analisti seri, è nei supermercati che si va preparando lo shock per i consumatori statunitense, specie quelli che hanno votato sotto l’illusione “Maga” (Make America great again). Va ricordato, per esempio, che la sola catena di distribuzione WalMart – la più grande e capillare, un milione di dipendenti pagati pochissimo, dove puoi trovare dallo spazzolino al fucile mitragliatore – già venti anni fa rappresentava da sola il 12% del mercato di sbocco delle esportazioni cinesi. Allora prodotti “poveri” per lavoratori altrettanto poveri, ma nel paese più ricco del mondo...
Oggi la situazione è radicalmente cambiata (per la Cina, soprattutto), e quelle merci-salario indispensabili sono oggi fabbricate in molti altri paesi “in via di sviluppo”. Ma la politica dei dazi trumpiani è universale, per quanto differenziata. Quindi...
Poi, certo, si prova a nascondere i problemi sotto le promesse (un quasi accordo in arrivo con l’India, una revisione contrattata con la Cina, ecc.), ma questa è la parte più “vecchio stile”, comprensibile da chiunque non sia un tifoso ottenebrato dalla fede.
Sembra strano, vendendo l’amministrazione Usa oggi totalmente in mano ad imprenditori miliardari. Ma pare proprio che non si siano resi conto di vivere e prosperare in un “sistema” indipendente dalle volontà individuali e che, manomettendolo, avrebbero provocato scosse telluriche impossibili da controllare “as usual”.
Succede, se non capisci la differenza abissale tra controllare un’azienda e governare un Paese. Di quelle dimensioni, poi...
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Kashmir: quinta notte di scontri al confine tra Pakistan e India
Per la quinta notte consecutiva i militari di India e Pakistan si sono scambiati colpi di arma da fuoco lungo la Linea di controllo (Loc), il confine de facto nella regione contesa del Kashmir.
Lo hanno riferito le forze armate di Nuova Delhi, segnalando sparatorie nei distretti di Kupwara e Baramulla e nel settore di Akhnoor. Le tensioni tra i due Paesi, entrambi dotati di arsenali nucleari, sono di nuovo esplose dopo l’attacco terroristico che il 22 aprile scorso ha provocato la morte di 26 persone (per lo più turisti) a Pahalgam, nel Territorio di Jammu e Kashmir occupato dall’India.
In seguito all’attentato si è aperta una nuova grave crisi diplomatica tra l’India e il Pakistan, in conflitto dal 1947 per il controllo del Kashmir, dopo che Nuova Delhi ha accusato esplicitamente Islamabad di sostenere il terrorismo anti-indiano nella regione.
Il 23 aprile il Comitato di gabinetto per la sicurezza (Ccs) indiano ha adottato cinque misure: la sospensione con effetto immediato del Trattato delle acque dell’Indo (Iwt) del 1960; la chiusura con effetto immediato del posto di controllo integrato di Attari (con la possibilità di rientro dal varco entro il primo maggio per i connazionali); l’esclusione a tempo indeterminato dei cittadini pachistani dal regime di visti dell’Associazione sud-asiatica per la cooperazione regionale (Saarc) e l’obbligo di lasciare l’India entro 48 ore per quanti ne erano in possesso; l’ingiunzione ai consiglieri militari dell’ambasciata del Pakistan, dichiarati persone non gradite, a lasciare l’India entro una settimana, con il contestuale richiamo dei consiglieri militari indiani; il ridimensionamento degli organici delle rispettive ambasciate da 55 a 30 unità entro il primo maggio.
Il 24 aprile è stato il Comitato per la sicurezza nazionale (Nsc) del Pakistan a riunirsi. Islamabad ha respinto le accuse e l’annuncio di Nuova Delhi sul trattato Iwt, facendo presente che quell’accordo “non contiene alcuna disposizione per la sospensione unilaterale” e avvertendo che “qualsiasi tentativo di interrompere o deviare il flusso d’acqua di proprietà del Pakistan ai sensi del Trattato sulle acque dell’Indo, nonché l’usurpazione dei diritti delle rive inferiori, sarà considerato un atto di guerra”.
Il Pakistan ha annunciato che “eserciterà il diritto di sospendere tutti gli accordi bilaterali con l’India, tra cui, a titolo esemplificativo ma non esaustivo, l’Accordo di Simla, finché l’India non desisterà dal suo comportamento manifesto di fomentare il terrorismo all’interno del Pakistan, commettere omicidi transnazionali e non aderire al diritto internazionale e alle risoluzioni delle Nazioni Unite sul Kashmir”. L’Accordo di Simla del 1972 è quello che definisce la linea di controllo (Loc), la demarcazione militare, non coincidente col confine internazionale, che separa il territorio kashmiro controllato dall’India da quello controllato dal Pakistan.
In risposta a misure definite “belligeranti”, il Pakistan, a sua volta, ha annunciato l’immediata chiusura del valico di frontiera di Wagah, e la sospensione dei visti Saarc per i cittadini indiani, con la richiesta di lasciare il Paese entro 48 ore, fatta eccezione per i pellegrini sikh. Anche il Pakistan ha dichiarato persone non gradite i consiglieri militari presso l’ambasciata indiana imponendo loro di lasciare il Paese entro il 30 aprile, data entro la quale il personale indiano dovrà scendere a 30 unità. Il Pakistan, inoltre, ha chiuso il suo spazio aereo alle compagnie aeree di proprietà indiana o gestite dall’India e ha sospeso tutti gli scambi commerciali, compresi quelli da e verso Paesi terzi attraverso il Pakistan.
L’Esercito indiano ha riferito che da parte pachistana è stato violato il cessate il fuoco per quattro giorni consecutivi, l’ultima volta nella notte tra il 27 e il 28 aprile. Le violazioni sarebbero avvenute in vari punti della linea di controllo e le truppe indiane hanno risposto “efficacemente”.
Per quanto riguarda le indagini, l’Agenzia investigativa nazionale (Nia) indiana ha elaborato tre identikit; secondo quanto riferito dalla polizia, i tre sospettati sarebbero tutti collegati al gruppo terroristico “Lashkar-e-Taiba” (“Esercito del bene” o “Esercito dei giusti”, attivo in Kashmir e protetto dal Pakistan) e almeno due sarebbero stranieri.
Finora le forze di sicurezza indiane hanno effettuato centinaia di fermi ed interrogatori ed hanno raso al suolo le abitazioni di diversi presunti terroristi.
Nuova Delhi ha ordinato alla portaerei Vikrant, inviata il 23 aprile in direzione delle acque territoriali del Pakistan, di tornare nel porto di Karwar.
Da parte sua il Ministro della Difesa pakistano Khawaja Asif ha però sostenuto che persiste la possibilità che si arrivi ad uno scontro militare diretto tra i due paesi. Le autorità del Pakistan affermano di temere un’incursione armata “imminente” da parte delle forze armate indiane.
Fonte
Lo hanno riferito le forze armate di Nuova Delhi, segnalando sparatorie nei distretti di Kupwara e Baramulla e nel settore di Akhnoor. Le tensioni tra i due Paesi, entrambi dotati di arsenali nucleari, sono di nuovo esplose dopo l’attacco terroristico che il 22 aprile scorso ha provocato la morte di 26 persone (per lo più turisti) a Pahalgam, nel Territorio di Jammu e Kashmir occupato dall’India.
In seguito all’attentato si è aperta una nuova grave crisi diplomatica tra l’India e il Pakistan, in conflitto dal 1947 per il controllo del Kashmir, dopo che Nuova Delhi ha accusato esplicitamente Islamabad di sostenere il terrorismo anti-indiano nella regione.
Il 23 aprile il Comitato di gabinetto per la sicurezza (Ccs) indiano ha adottato cinque misure: la sospensione con effetto immediato del Trattato delle acque dell’Indo (Iwt) del 1960; la chiusura con effetto immediato del posto di controllo integrato di Attari (con la possibilità di rientro dal varco entro il primo maggio per i connazionali); l’esclusione a tempo indeterminato dei cittadini pachistani dal regime di visti dell’Associazione sud-asiatica per la cooperazione regionale (Saarc) e l’obbligo di lasciare l’India entro 48 ore per quanti ne erano in possesso; l’ingiunzione ai consiglieri militari dell’ambasciata del Pakistan, dichiarati persone non gradite, a lasciare l’India entro una settimana, con il contestuale richiamo dei consiglieri militari indiani; il ridimensionamento degli organici delle rispettive ambasciate da 55 a 30 unità entro il primo maggio.
Il 24 aprile è stato il Comitato per la sicurezza nazionale (Nsc) del Pakistan a riunirsi. Islamabad ha respinto le accuse e l’annuncio di Nuova Delhi sul trattato Iwt, facendo presente che quell’accordo “non contiene alcuna disposizione per la sospensione unilaterale” e avvertendo che “qualsiasi tentativo di interrompere o deviare il flusso d’acqua di proprietà del Pakistan ai sensi del Trattato sulle acque dell’Indo, nonché l’usurpazione dei diritti delle rive inferiori, sarà considerato un atto di guerra”.
Il Pakistan ha annunciato che “eserciterà il diritto di sospendere tutti gli accordi bilaterali con l’India, tra cui, a titolo esemplificativo ma non esaustivo, l’Accordo di Simla, finché l’India non desisterà dal suo comportamento manifesto di fomentare il terrorismo all’interno del Pakistan, commettere omicidi transnazionali e non aderire al diritto internazionale e alle risoluzioni delle Nazioni Unite sul Kashmir”. L’Accordo di Simla del 1972 è quello che definisce la linea di controllo (Loc), la demarcazione militare, non coincidente col confine internazionale, che separa il territorio kashmiro controllato dall’India da quello controllato dal Pakistan.
In risposta a misure definite “belligeranti”, il Pakistan, a sua volta, ha annunciato l’immediata chiusura del valico di frontiera di Wagah, e la sospensione dei visti Saarc per i cittadini indiani, con la richiesta di lasciare il Paese entro 48 ore, fatta eccezione per i pellegrini sikh. Anche il Pakistan ha dichiarato persone non gradite i consiglieri militari presso l’ambasciata indiana imponendo loro di lasciare il Paese entro il 30 aprile, data entro la quale il personale indiano dovrà scendere a 30 unità. Il Pakistan, inoltre, ha chiuso il suo spazio aereo alle compagnie aeree di proprietà indiana o gestite dall’India e ha sospeso tutti gli scambi commerciali, compresi quelli da e verso Paesi terzi attraverso il Pakistan.
L’Esercito indiano ha riferito che da parte pachistana è stato violato il cessate il fuoco per quattro giorni consecutivi, l’ultima volta nella notte tra il 27 e il 28 aprile. Le violazioni sarebbero avvenute in vari punti della linea di controllo e le truppe indiane hanno risposto “efficacemente”.
Per quanto riguarda le indagini, l’Agenzia investigativa nazionale (Nia) indiana ha elaborato tre identikit; secondo quanto riferito dalla polizia, i tre sospettati sarebbero tutti collegati al gruppo terroristico “Lashkar-e-Taiba” (“Esercito del bene” o “Esercito dei giusti”, attivo in Kashmir e protetto dal Pakistan) e almeno due sarebbero stranieri.
Finora le forze di sicurezza indiane hanno effettuato centinaia di fermi ed interrogatori ed hanno raso al suolo le abitazioni di diversi presunti terroristi.
Nuova Delhi ha ordinato alla portaerei Vikrant, inviata il 23 aprile in direzione delle acque territoriali del Pakistan, di tornare nel porto di Karwar.
Da parte sua il Ministro della Difesa pakistano Khawaja Asif ha però sostenuto che persiste la possibilità che si arrivi ad uno scontro militare diretto tra i due paesi. Le autorità del Pakistan affermano di temere un’incursione armata “imminente” da parte delle forze armate indiane.
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ANP: per il futuro leader una successione pianificata sotto l’influenza occidentale
Ramallah. Le recenti riunioni del Consiglio Centrale (23-24 aprile) e del Comitato Esecutivo (26 aprile) dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) non sono state una sorpresa. Al di là dei luoghi comuni politici, questi incontri avevano un obiettivo chiaro: ottemperare ufficialmente alle pressioni arabe e occidentali attraverso una significativa ristrutturazione della leadership, in particolare istituendo la carica di Vicepresidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).
Come ampiamente previsto, Hussein al-Sheikh è stato nominato a questo ruolo di nuova creazione, un evento celebrato apertamente da alcuni stati arabi, ricevendo in particolare le congratulazioni del Ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti Abdullah bin Zayed.
L’ascesa di al-Sheikh non è un semplice rimpasto di posizioni, ma una mossa calcolata da parte di alcune forze esterne arabe e occidentali per progettare un processo di successione su misura per i propri interessi, inclusa la riduzione dei poteri del Presidente Mahmoud Abbas a un ruolo più simbolico.
Hussein al-Sheikh, che vanta ampi rapporti con “Israele” e gli Stati Uniti grazie al fatto che guida l’Autorità per gli Affari Civili dell’ANP – responsabile del coordinamento con “Israele” – è quindi diventato il successore designato di Abbas.
La sua influenza è cresciuta significativamente dopo il suo ingresso nel Comitato Centrale di Fatah nel 2009 e nel Comitato Esecutivo dell’OLP nel 2022, succedendo infine a Saeb Erekat come segretario.
Il consolidamento del potere di al-Sheikh ha coinciso con la sistematica emarginazione dei suoi rivali nell’arena politica palestinese, in particolare all’interno del movimento di Fatah. La sua ascesa è stata rafforzata dal forte sostegno arabo e dal sostegno diretto di Abbas, ulteriormente consolidato da una serie di cambiamenti nella leadership e nella sicurezza.
Il licenziamento del Primo Ministro Mohammad Shtayyeh e la sostituzione di importanti leader della sicurezza palestinese con fedelissimi della guardia personale di Abbas rientravano in questa più ampia ristrutturazione. Inoltre, migliaia di alti ufficiali militari hanno dovuto affrontare il “pensionamento” forzato nell’ambito delle riforme della sicurezza guidate da al-Sheikh.
La natura simbolica dell’ascesa di al-Sheikh è stata chiaramente dimostrata durante le recenti celebrazioni dell’Eid al-Fitr, quando ha guidato una delegazione di alto profilo, con un’elevata dose di sicurezza, alla tomba di Yasser Arafat – una pubblica affermazione del suo nuovo status politico e della legittimità della successione.
In modo critico, questa transizione di leadership orchestrata dall’esterno presenta implicazioni politiche più profonde, che vanno oltre un mero rimpasto amministrativo. Mette in luce la continua influenza araba e occidentale sugli affari interni palestinesi, sottolineando in particolare il mantenimento del controverso coordinamento per la sicurezza con “Israele”.
Fonte
Come ampiamente previsto, Hussein al-Sheikh è stato nominato a questo ruolo di nuova creazione, un evento celebrato apertamente da alcuni stati arabi, ricevendo in particolare le congratulazioni del Ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti Abdullah bin Zayed.
L’ascesa di al-Sheikh non è un semplice rimpasto di posizioni, ma una mossa calcolata da parte di alcune forze esterne arabe e occidentali per progettare un processo di successione su misura per i propri interessi, inclusa la riduzione dei poteri del Presidente Mahmoud Abbas a un ruolo più simbolico.
Hussein al-Sheikh, che vanta ampi rapporti con “Israele” e gli Stati Uniti grazie al fatto che guida l’Autorità per gli Affari Civili dell’ANP – responsabile del coordinamento con “Israele” – è quindi diventato il successore designato di Abbas.
La sua influenza è cresciuta significativamente dopo il suo ingresso nel Comitato Centrale di Fatah nel 2009 e nel Comitato Esecutivo dell’OLP nel 2022, succedendo infine a Saeb Erekat come segretario.
Il consolidamento del potere di al-Sheikh ha coinciso con la sistematica emarginazione dei suoi rivali nell’arena politica palestinese, in particolare all’interno del movimento di Fatah. La sua ascesa è stata rafforzata dal forte sostegno arabo e dal sostegno diretto di Abbas, ulteriormente consolidato da una serie di cambiamenti nella leadership e nella sicurezza.
Il licenziamento del Primo Ministro Mohammad Shtayyeh e la sostituzione di importanti leader della sicurezza palestinese con fedelissimi della guardia personale di Abbas rientravano in questa più ampia ristrutturazione. Inoltre, migliaia di alti ufficiali militari hanno dovuto affrontare il “pensionamento” forzato nell’ambito delle riforme della sicurezza guidate da al-Sheikh.
La natura simbolica dell’ascesa di al-Sheikh è stata chiaramente dimostrata durante le recenti celebrazioni dell’Eid al-Fitr, quando ha guidato una delegazione di alto profilo, con un’elevata dose di sicurezza, alla tomba di Yasser Arafat – una pubblica affermazione del suo nuovo status politico e della legittimità della successione.
In modo critico, questa transizione di leadership orchestrata dall’esterno presenta implicazioni politiche più profonde, che vanno oltre un mero rimpasto amministrativo. Mette in luce la continua influenza araba e occidentale sugli affari interni palestinesi, sottolineando in particolare il mantenimento del controverso coordinamento per la sicurezza con “Israele”.
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BRICS+ a Rio de Janeiro, per discutere di pace e dazi USA
Si è concluso ieri a Rio de Janeiro l’incontro dei ministri degli Esteri dei BRICS+, tra gli eventi che precedono e preparano il 17esimo vertice dei capi di stato e di governo dell’organizzazione che si terrà, sempre a Rio, il 6 e 7 luglio. È il primo incontro a cui ha partecipato anche l’Indonesia, la quale è diventata ufficialmente il decimo membro del gruppo quest’anno.
Il summit è stato dedicato al ruolo dei BRICS+ nel promuovere la pace e la stabilità a livello globale, e allo sviluppo di una risposta cooperativa alle politiche commerciali statunitensi. Il discorso di apertura dell’incontro è spettato ovviamente al padrone di casa, il ministro degli esteri brasiliano Mauro Vieira, che ha ribadito il peso sempre maggiore dell’organizzazione.
Vieira ha infatti sottolineato che “rappresentando quasi la metà dell’umanità e un’ampia diversità geografica e culturale, i BRICS+ sono in una posizione unica per promuovere la pace e la stabilità”. Ha poi rimarcato la necessità di un rinnovato impegno per il multilateralismo e l’importanza di procedere alla riforma del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, poco rappresentativo dei paesi emergenti.
Anche Wang Yi, ministro degli Esteri cinese, ne ha approfittato per ricordare che quest’anno ricorre l’80esimo anniversario della nascita delle Nazioni Unite, e che oggi lo scenario internazionale è però profondamente cambiato. In questa cornice, a suo avviso i BRICS+ possono assumere una posizione di traino verso la pace e lo sviluppo.
Il politico cinese ha affermato quattro punti: il sostegno della sicurezza universale, la promozione attiva della pace e del dialogo, il rafforzamento delle basi dello sviluppo e il rafforzamento della cooperazione pratica. Gli altri rappresentati dei BRICS+ hanno detto di sostenere le iniziative globali cinesi che vanno in questa direzione.
I BRICS+ hanno poi affermato che devono continuare a opporsi all’utilizzo di doppi standard e favorire la risoluzione pacifica dei conflitti. Non sono mancate parole di critica sul massacro continuo dei palestinesi portato avanti da Israele, e sull’ostacolo posto dai sionisti all’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza. Anche le varie crisi africane, dell’Ucraina e di Haiti sono state discusse durante il summit.
Dal punto di vista economico, l’obiettivo doveva essere quello di discutere una risposta coordinata ai dazi imposti da Trump e di difendere “la centralità dei negoziati commerciali multilaterali come asse principale di azione nel commercio”, aveva detto il diplomatico brasiliano Mauricio Lyrio. Tema che è stato accolto da tutti.
Tuttavia, alla fine del vertice non è stato prodotto alcun comunicato congiunto. C’è stata comunque una dichiarazione brasiliana con la quale è stato ribadito che tutti i ministri degli Esteri presenti a Rio esprimono “seria preoccupazione per la prospettiva di un’economia globale frammentata e per l’indebolimento del multilateralismo”.
Interessanti sono state poi le parole spese sul lato delle questioni monetarie. Il russo Serghei Lavrov, in un’intervista a margine dei lavori, ha detto che “con l’accelerazione della frammentazione dell’economia globale è naturale che i paesi del Sud e dell’Est del mondo stiano riducendo l’uso delle valute occidentali”. I BRICS+ vogliono dunque favorire l’uso delle valute nazionali negli scambi reciproci.
Per quanto riguarda lo sviluppo di una moneta unica del gruppo, Lavrov ha detto invece che è prematuro parlarne, e torneranno sul tema “quando si presenteranno le necessarie condizioni finanziarie ed economiche”. Ad ora, dice il politico russo, gli sforzi sono diretti a creare “un’infrastruttura di pagamento per le transazioni transfrontaliere tra i paesi del blocco”.
Il progetto cinese mBridge per espandere l’uso del renminbi digitale e bypassare il sistema di pagamenti SWIFT va in questa direzione, e rappresenta uno strumento nel processo di dedollarizzazione del mondo. Non a caso, Trump ha promesso ritorsioni tariffarie nei confronti dei BRICS+ qualora si dotassero di una propria valuta per contrastare il dominio del ‘biglietto verde’.
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Il summit è stato dedicato al ruolo dei BRICS+ nel promuovere la pace e la stabilità a livello globale, e allo sviluppo di una risposta cooperativa alle politiche commerciali statunitensi. Il discorso di apertura dell’incontro è spettato ovviamente al padrone di casa, il ministro degli esteri brasiliano Mauro Vieira, che ha ribadito il peso sempre maggiore dell’organizzazione.
Vieira ha infatti sottolineato che “rappresentando quasi la metà dell’umanità e un’ampia diversità geografica e culturale, i BRICS+ sono in una posizione unica per promuovere la pace e la stabilità”. Ha poi rimarcato la necessità di un rinnovato impegno per il multilateralismo e l’importanza di procedere alla riforma del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, poco rappresentativo dei paesi emergenti.
Anche Wang Yi, ministro degli Esteri cinese, ne ha approfittato per ricordare che quest’anno ricorre l’80esimo anniversario della nascita delle Nazioni Unite, e che oggi lo scenario internazionale è però profondamente cambiato. In questa cornice, a suo avviso i BRICS+ possono assumere una posizione di traino verso la pace e lo sviluppo.
Il politico cinese ha affermato quattro punti: il sostegno della sicurezza universale, la promozione attiva della pace e del dialogo, il rafforzamento delle basi dello sviluppo e il rafforzamento della cooperazione pratica. Gli altri rappresentati dei BRICS+ hanno detto di sostenere le iniziative globali cinesi che vanno in questa direzione.
I BRICS+ hanno poi affermato che devono continuare a opporsi all’utilizzo di doppi standard e favorire la risoluzione pacifica dei conflitti. Non sono mancate parole di critica sul massacro continuo dei palestinesi portato avanti da Israele, e sull’ostacolo posto dai sionisti all’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza. Anche le varie crisi africane, dell’Ucraina e di Haiti sono state discusse durante il summit.
Dal punto di vista economico, l’obiettivo doveva essere quello di discutere una risposta coordinata ai dazi imposti da Trump e di difendere “la centralità dei negoziati commerciali multilaterali come asse principale di azione nel commercio”, aveva detto il diplomatico brasiliano Mauricio Lyrio. Tema che è stato accolto da tutti.
Tuttavia, alla fine del vertice non è stato prodotto alcun comunicato congiunto. C’è stata comunque una dichiarazione brasiliana con la quale è stato ribadito che tutti i ministri degli Esteri presenti a Rio esprimono “seria preoccupazione per la prospettiva di un’economia globale frammentata e per l’indebolimento del multilateralismo”.
Interessanti sono state poi le parole spese sul lato delle questioni monetarie. Il russo Serghei Lavrov, in un’intervista a margine dei lavori, ha detto che “con l’accelerazione della frammentazione dell’economia globale è naturale che i paesi del Sud e dell’Est del mondo stiano riducendo l’uso delle valute occidentali”. I BRICS+ vogliono dunque favorire l’uso delle valute nazionali negli scambi reciproci.
Per quanto riguarda lo sviluppo di una moneta unica del gruppo, Lavrov ha detto invece che è prematuro parlarne, e torneranno sul tema “quando si presenteranno le necessarie condizioni finanziarie ed economiche”. Ad ora, dice il politico russo, gli sforzi sono diretti a creare “un’infrastruttura di pagamento per le transazioni transfrontaliere tra i paesi del blocco”.
Il progetto cinese mBridge per espandere l’uso del renminbi digitale e bypassare il sistema di pagamenti SWIFT va in questa direzione, e rappresenta uno strumento nel processo di dedollarizzazione del mondo. Non a caso, Trump ha promesso ritorsioni tariffarie nei confronti dei BRICS+ qualora si dotassero di una propria valuta per contrastare il dominio del ‘biglietto verde’.
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L’affare portuale a Panama sta per saltare, Li Ka-shing ha sbattuto contro un muro
Un esempio pratico di come la Cina sviluppa una politica economica non subordinata alle imprese private, ma che al contrario le subordina agli obiettivi. Usando le “regole del mercato”, addirittura. Ed anche qualche “esibizione muscolare”...
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Questa volta, l’affare portuale di Li Ka-shing rischia davvero di fallire.
L’Autorità cinese per la Regolazione del Mercato ha chiaramente richiesto che le parti coinvolte nella transazione non adottino alcun metodo per eludere la revisione. Senza l’approvazione, non possono procedere con l’operazione, altrimenti dovranno affrontare conseguenze legali.
Cosa significa? È un messaggio chiaro. Che sia Li Ka-shing, BlackRock o il nuovo entrante MSC Group, nessuno può monopolizzare il controllo globale del trasporto marittimo. Il tentativo di Li Ka-shing di vendere in blocco 43 porti esteri per liquidare e fuggire è ormai impossibile.
Perché l’Autorità cinese per la Regolazione del Mercato ha lanciato questo segnale? Principalmente perché Li Ka-shing non si rassegna e vuole ancora vendere. Inoltre, il gruppo CK Hutchison sta cercando di contrastare la revisione antitrust, giocando la carta della “strategia della cicala dorata che si libera del suo bozzolo” strategia astuta per sfuggire a una situazione difficile). Dopo l’avvio dell’indagine antitrust da parte delle autorità, il gruppo ha annunciato la scissione di parte delle sue attività. Come? Separando le attività di PCCW, controllate dal figlio maggiore Victor Li, per quotarle a Londra.
Perché questa scissione? Primo, per eludere l’indagine antitrust. Se lo accusi di monopolio, lui divide tutto in piccole società. Una parte del patrimonio familiare rimane sotto Li Ka-shing, l’altra viene trasferita al figlio Victor Li, che non è cittadino cinese e gestisce attività estere, soprattutto nel settore delle telecomunicazioni in Europa. Ad esempio, la più grande compagnia telefonica britannica è stata acquisita da Li Ka-shing. In questo modo, può nascondere gran parte del patrimonio e contrastare l’indagine.
Secondo, per trasferire attività. Il patrimonio di Li Ka-shing si divide in tre macro aree: immobiliare (principalmente in Cina e Hong Kong), energia (in Canada e Regno Unito, dove controlla la terza più grande compagnia petrolifera canadese, Husky Energy, e il 30% della rete elettrica britannica) e porti. È il primo operatore portuale al mondo, con oltre 50 terminal, tra cui il porto di Yantian in Cina, Rotterdam, i porti del Canale di Panama e del Canale di Suez, e altri in Medio Oriente, Europa e Australia.
Se BlackRock o MSC acquisissero questi 43 porti, diventerebbero colossi globali del trasporto marittimo. BlackRock, in particolare, è considerato un “braccio” del governo USA. Trump vorrebbe usarlo per controllare Panama e Suez, e sta già spingendo per il passaggio gratuito di navi militari e commerciali americane. Inoltre, con le basi a Singapore e possibili accordi con la Russia per le rotte artiche, gli USA potrebbero riprendere il controllo globale delle vie marittime, minacciando la Cina.
Per questo la Cina ha condotto esercitazioni militari con l’Egitto (“Falco della Civiltà-2025”): per contrastare i piani di Trump su Suez e sostenere l’Egitto contro le pressioni USA. Li Ka-shing, in questo scenario, non può essere lasciato libero di agire contro gli interessi nazionali. Il suo affare portuale è ormai insostenibile.
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Il collegamento suicida tra Kiev e la UE
Per fare la pace, come per fare la guerra, occorre essere almeno in due. E al momento – nel complesso rapporto multilaterale tra Russia, Ucraina, Stati Uniti, Unione Europea (con la Nato che non si sa più bene a chi obbedisca) – non sembra che siano in molti a volerla davvero.
Strepiti trumpiani a parte, con il segretario di Stato Rubio che un giorno garantisce che “questa è la settimana decisiva” e subito dopo minaccia il ritiro degli Usa da ogni contrattazione, fin qui si sono visti solo “segnali” lanciati per verificare la disponibilità altrui.
E ad essere onesti bisogna ammettere che questi segnali sono fin qui arrivati solo da Mosca. Prima con una tregua unilaterale di 30 ore in occasione della Pasqua (quest’anno coincidevano quella di rito cattolico e quella ortodossa), ora con la proposta di tre giorni di cessate il fuoco intorno al 9 maggio, ottantesimo anniversario della conquista sovietica del Reichstag a Berlino, la morte di Hitler e la fine della guerra in Europa.
La risposta ucraina è stata un “niet” mascherato da rilancio: “almeno trenta giorni o niente”, “questa serve solo a garantire le parate di Putin”.
A livello mediatico occidentale, il tema di un “cessate il fuoco” ha di fatto sostituito quello di una trattativa, venendo posto addirittura come ostacolo/precondizione di eventuali trattative tra le parti. Non è inutile ricordare che nella Storia delle guerre moderne non c’è praticamente alcun precedente di sospensione dei combattimenti nel mentre si negozia. Anzi, in genere si è smesso di sparare quando è stato raggiunto almeno un qualche grado di accordo.
In concreto, però la situazione sembra piuttosto lontana dall’addivenire a un pur minimo compromesso (lo ammette placidamente anche l’ex ministro degli esteri ucraino, Kuleba, ormai allocato in sedi più confortevoli). I diversi “piani” presentati sono quanto mai distanti.
La Reuters ha pubblicato i termini dell’attuale proposta Usa, presentata da Witkoff agli europei nei giorni scorsi:
Anche il portavoce di Putin, Peskov, ha osservato che “se l’Ucraina si ritirasse dalle quattro regioni di Donetsk, Lugansk, Zaporozhye e Kherson”, la Russia interromperebbe immediatamente la guerra. Ma questo richiederebbe che l’Ucraina si ritiri spontaneamente dalle città di Kherson e Zaporozhye, il che è praticamente da escludere.
Ne frattempo si moltiplicano i segnali contrari provenienti dagli alti livelli della junta ucraina. Il Segretario del Comitato per la Sicurezza Nazionale della Verkhovna Rada, Roman Kostenko, ha dichiarato in una recente intervista: “In caso di congelamento delle ostilità, l’Ucraina deve intensificare le attività in Russia e compiere una serie di omicidi politici”.
Uno strano modo di intendere il “cessate il fuoco” che lo limita alla linea del fronte mentre si sviluppa un’offensiva esplicitamente terroristica... il che, paradossalmente, rafforza l’intento russo di “denazificare” l’Ucraina fino a spegnere certe “tentazioni”.
Oppure, come spiega un ufficiale russo a un gruppo di analisti del suo paese:
Un nuovo rapporto polacco sostiene inoltre che Varsavia sta proponendo di chiudere il Mar Baltico al traffico russo.
La Polonia ha proposto di chiudere il Mar Baltico alla Russia con il pretesto di proteggere le turbine eoliche offshore, riporta Polish Defense 24.
Tra le opzioni ci sono:
– installazione di attrezzature speciali sulle turbine eoliche per il “controllo di sicurezza”, ma in realtà per guidare i missili antinave NSM;
– l’impiego di “organizzazioni di sicurezza private” ben armate con il supporto della Marina polacca.
Ciò richiederà la creazione di più di una dozzina di centri di monitoraggio speciali che, secondo gli autori, dovrebbero essere operativi giorno e notte per tutto l’anno.
Persino gli autori del piano non sanno se riusciranno a distinguere i turisti, i diportisti e i pescatori che potrebbero finire nei pressi dei parchi eolici, dai “possibili sabotatori russi”.
Solo pochi giorni fa l’Estonia – il micro-Stato da cui proviene la neo “ministra degli esteri europea”, Kaja Kallas – ha suggerito di affondare le navi russe accusate di “violare” le regole stabilite arbitrariamente dagli stessi paesi baltici.
Non pare proprio che da questo lato del “fronte”, insomma, ci sia gente che arde dal desiderio di evitare l’escalation verso la guerra totale...
Al punto da far apparire persino Trump come quasi ragionevole quando si è trovato ad ammettere che la più grande concessione che la Russia possa fare all’Ucraina è quella di non prendersi l’intero Paese.
Un riconoscimento indiretto del fatto che senza un coinvolgimento di tutto l’Occidente la guerra in Ucraina è segnata. Ma un coinvolgimento diretto sarebbe anche la fine di tutti...
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Strepiti trumpiani a parte, con il segretario di Stato Rubio che un giorno garantisce che “questa è la settimana decisiva” e subito dopo minaccia il ritiro degli Usa da ogni contrattazione, fin qui si sono visti solo “segnali” lanciati per verificare la disponibilità altrui.
E ad essere onesti bisogna ammettere che questi segnali sono fin qui arrivati solo da Mosca. Prima con una tregua unilaterale di 30 ore in occasione della Pasqua (quest’anno coincidevano quella di rito cattolico e quella ortodossa), ora con la proposta di tre giorni di cessate il fuoco intorno al 9 maggio, ottantesimo anniversario della conquista sovietica del Reichstag a Berlino, la morte di Hitler e la fine della guerra in Europa.
La risposta ucraina è stata un “niet” mascherato da rilancio: “almeno trenta giorni o niente”, “questa serve solo a garantire le parate di Putin”.
A livello mediatico occidentale, il tema di un “cessate il fuoco” ha di fatto sostituito quello di una trattativa, venendo posto addirittura come ostacolo/precondizione di eventuali trattative tra le parti. Non è inutile ricordare che nella Storia delle guerre moderne non c’è praticamente alcun precedente di sospensione dei combattimenti nel mentre si negozia. Anzi, in genere si è smesso di sparare quando è stato raggiunto almeno un qualche grado di accordo.
In concreto, però la situazione sembra piuttosto lontana dall’addivenire a un pur minimo compromesso (lo ammette placidamente anche l’ex ministro degli esteri ucraino, Kuleba, ormai allocato in sedi più confortevoli). I diversi “piani” presentati sono quanto mai distanti.
La Reuters ha pubblicato i termini dell’attuale proposta Usa, presentata da Witkoff agli europei nei giorni scorsi:
▪️ Entrambe le parti avvieranno immediatamente i negoziati sull’attuazione tecnica di un cessate il fuoco permanente.In un’intervista rilasciata a Face the Nation, il ministro degli esteri russo Lavrov ha categoricamente respinto l’idea del trasferimento dell’impianto nucleare di Zaporižžja agli Stati Uniti, ribadendo le principali richieste della Russia:
▪️ L’Ucraina rinuncia ad aderire alla NATO, ma può diventare membro dell’Unione Europea.
▪️ Le garanzie di sicurezza per l’Ucraina saranno fornite da un contingente militare di Stati europei, al quale possono aderire volontariamente anche i Paesi non europei.
▪️ Gli Stati Uniti riconoscono de jure la Crimea come territorio russo e de facto riconoscono il controllo della Russia sulla regione di Luhansk e sulle parti “occupate” delle regioni di Donbass, Zaporozhye e Kherson.
▪️ L’Ucraina riprende il controllo sulle aree “occupate” della regione di Kharkiv.
▪️ L’Ucraina riprende il controllo della diga di Kakhovka e della centrale nucleare di Zaporižžja. La centrale sarà gestita dagli americani e l’elettricità sarà distribuita “a entrambe le parti”.
▪️ L’Ucraina otterrà il passaggio senza ostacoli lungo il Dnepr e il controllo sulla penisola di Kinburn
▪️ Gli Stati Uniti e l’Ucraina stanno raggiungendo un accordo sulla cooperazione economica e sullo sviluppo delle risorse minerarie.
▪️ L’Ucraina riceverà il pieno ripristino e un indennizzo finanziario.
▪️ Le sanzioni contro la Russia, imposte dal 2014, saranno revocate.
▪️ Gli Stati Uniti coopereranno con la Russia nei settori energetico e industriale.
▪️ L’Ucraina deve rinunciare ad aderire alla NATO e rimanere neutrale.Sia l’Ucraina che gli Stati Uniti continuano a sostenere che Kiev dovrebbe essere in grado di mantenere una rilevante forza militare, il che è inammissibile per la Russia.
▪️ Kiev è obbligata a smettere di distruggere legislativamente e fisicamente tutto ciò che è russo in Ucraina: lingua, media, cultura, tradizioni e chiesa ortodossa.
▪️ Le regioni di Crimea, Sebastopoli, DPR, LPR, Kherson e Zaporizhia devono essere riconosciute a livello internazionale come territorio russo.
▪️ Tutte le sanzioni contro la Russia devono essere revocate, le cause legali e i mandati di arresto annullati, i beni congelati restituiti.
▪️ Mosca deve ricevere affidabili garanzie di sicurezza contro le minacce create dalle attività ostili della NATO, dell’Unione Europea e dei loro singoli Stati membri ai suoi confini occidentali.
▪️ Il compito della smilitarizzazione e della denazificazione dell’Ucraina non viene rimosso dall’agenda.
▪️ Tutti gli obblighi di Kiev derivanti dall’accordo di pace devono essere sanciti dalla legge, disporre di meccanismi di attuazione ed essere permanenti (il che implica nuove elezioni a Kiev e la cancellazione dei “divieti” a trattare con Mosca).
Anche il portavoce di Putin, Peskov, ha osservato che “se l’Ucraina si ritirasse dalle quattro regioni di Donetsk, Lugansk, Zaporozhye e Kherson”, la Russia interromperebbe immediatamente la guerra. Ma questo richiederebbe che l’Ucraina si ritiri spontaneamente dalle città di Kherson e Zaporozhye, il che è praticamente da escludere.
Ne frattempo si moltiplicano i segnali contrari provenienti dagli alti livelli della junta ucraina. Il Segretario del Comitato per la Sicurezza Nazionale della Verkhovna Rada, Roman Kostenko, ha dichiarato in una recente intervista: “In caso di congelamento delle ostilità, l’Ucraina deve intensificare le attività in Russia e compiere una serie di omicidi politici”.
Uno strano modo di intendere il “cessate il fuoco” che lo limita alla linea del fronte mentre si sviluppa un’offensiva esplicitamente terroristica... il che, paradossalmente, rafforza l’intento russo di “denazificare” l’Ucraina fino a spegnere certe “tentazioni”.
Oppure, come spiega un ufficiale russo a un gruppo di analisti del suo paese:
“Negoziati, negoziati, negoziati... Trump questo, Zeleboba quello. Tutto questo circo non serve a nulla. Non abbiamo raggiunto i nostri obiettivi. Gli Ukrops non si considerano ancora sconfitti. Né loro né noi siamo pronti a “scambiare” i loro territori.Brutalmente esplicito, ma in fondo è un militare... il problema è che dal lato europeo si sta facendo esattamente quel che si prevede per il prossimo futuro, anche se “l’Europa è impreparata”.
Inoltre, se non portiamo la questione alla sua logica conclusione, l’Ukrops si modernizzerà, aumenterà il personale (compresi i giovani. O meglio, prima di tutto) e continuerà la guerra. Solo che le nostre perdite in quella fase saranno molto più elevate, sia tra il personale militare che tra i civili, e ci saranno ordini di grandezza maggiori di distruzione di aree popolate e di strutture industriali/infrastrutturali. Non fatevi illusioni.
Oltre a tutto il resto, molto probabilmente gli europei, che a quel punto avranno ricostruito le loro economie su “rotaie militari” [il piano ReArm Europe, ndr], verranno ad attaccarci. E dubito che gli americani resteranno in disparte.
Quindi non abbiamo altra scelta se non quella di farlo ora e fino alla fine.
Ora siamo in guerra direttamente con gli Ukrops. Gli altri, sebbene abbiano messo le loro zampe puzzolenti, lo fanno per lo più indirettamente. Con il nuovo assetto sarà diverso.
Pronti o non pronti... siamo già in guerra. E l’iniziativa è dalla nostra parte. Anche la mobilitazione. Anche loro non sono pronti quanto potrebbero esserlo tra un paio d’anni, quando avranno fatto scorte, introdurranno la coscrizione obbligatoria, ecc..
Gli Uke hanno carenza di personale in questo momento. Dobbiamo andare a fondo della questione. Toglietevi gli occhiali rosa! Anche noi siamo stanchi, ma loro lo sono ancora di più. Un motivo in più per spremere le meningi.
Altrimenti, i morti non ci perdoneranno. Né lo perdoneranno coloro che si sono battuti per il Paese tra il 1941 e il 1945. Anche allora non eravamo pronti, ed eravamo anche stanchi morti, ma abbiamo resistito fino alla fine. E abbiamo camminato fino alla fine. Se non ce l’avessimo fatta allora, cosa sarebbe successo dopo? Qualcosa come “l’impensabile”, inclusa la Wehrmacht, che aveva riacquistato la sua capacità combattiva? E quali sarebbero state le nostre perdite allora?
Un nuovo rapporto polacco sostiene inoltre che Varsavia sta proponendo di chiudere il Mar Baltico al traffico russo.
La Polonia ha proposto di chiudere il Mar Baltico alla Russia con il pretesto di proteggere le turbine eoliche offshore, riporta Polish Defense 24.
Tra le opzioni ci sono:
– installazione di attrezzature speciali sulle turbine eoliche per il “controllo di sicurezza”, ma in realtà per guidare i missili antinave NSM;
– l’impiego di “organizzazioni di sicurezza private” ben armate con il supporto della Marina polacca.
Ciò richiederà la creazione di più di una dozzina di centri di monitoraggio speciali che, secondo gli autori, dovrebbero essere operativi giorno e notte per tutto l’anno.
Persino gli autori del piano non sanno se riusciranno a distinguere i turisti, i diportisti e i pescatori che potrebbero finire nei pressi dei parchi eolici, dai “possibili sabotatori russi”.
Solo pochi giorni fa l’Estonia – il micro-Stato da cui proviene la neo “ministra degli esteri europea”, Kaja Kallas – ha suggerito di affondare le navi russe accusate di “violare” le regole stabilite arbitrariamente dagli stessi paesi baltici.
Non pare proprio che da questo lato del “fronte”, insomma, ci sia gente che arde dal desiderio di evitare l’escalation verso la guerra totale...
Al punto da far apparire persino Trump come quasi ragionevole quando si è trovato ad ammettere che la più grande concessione che la Russia possa fare all’Ucraina è quella di non prendersi l’intero Paese.
Un riconoscimento indiretto del fatto che senza un coinvolgimento di tutto l’Occidente la guerra in Ucraina è segnata. Ma un coinvolgimento diretto sarebbe anche la fine di tutti...
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