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18/05/2025

Oltre il muro del suono: da Louie, Louie all’avanguardia

di Sandro Moiso

Thurston Moore, Sonic Life. Un memoir, Baldini+Castoldi, Milano 2024, pp. 687, 25 euro

Sulla carta geografica degli Stati Uniti è possibile tracciare un fitto reticolo di città e località che hanno segnato inconfutabilmente lo sviluppo della musica americana. Dalla musica hillybilly della parte meridionale della catene montuosa degli Appalachi, che si estende per quasi 3.300 chilometri alle spalle della costa atlantica dal fiume San Lorenzo in Canada fino all’Alabama, al blues del delta del Mississippi, passando per città come New Orleans, Los Angeles, San Francisco, Austin, Minneapolis, Detroit, Akron, Chicago, Seattle, Kansas City, Memphis, Saint Louis, Athens, Boston, Nashville non è possibile separare geografia, società e storia dalla musica prodotta in loco e poi riversatasi in concerti, sale da ballo, dischi a 78 giri e microsolco, radio, cd, cassette e Tv, prima degli States e poi, quasi sempre, in seguito in gran parte del mondo, non soltanto occidentale, nel corso del ‘900.

Molte di queste città, come molti lettori già sapranno, saranno rese famose, soprattutto a partire dalla seconda metà del XX secolo, quel cinquantennio che ha fatto parlare, allungandone indebitamente i tempi, di secolo americano, quando la produzione culturale e immateriale statunitense riuscirà ad occupare gran parte dell’immaginario collettivo planetario, grazie allo sviluppo dell’industria cinematografica e alla diffusione su larga scala di nuove musiche giovanili derivanti dal rock’n’roll e dai suoi antenati, il blues e la country music. Musiche paradossalmente originatesi nel cuore del proletariato bianco e nero e della piccola proprietà terriera, spesso passata nelle mani callose dei discendenti degli schiavi o degli immigrati più poveri e disgraziati.

Una cultura popolare o pop che ha letteralmente sbancato il mercato delle produzioni musicali, grazie sia alla forza del dollaro e della potenza uscita vincitrice dal secondo conflitto mondiale che all’originalità e capacità creative dei suoi interpreti, maggiori e minori. Non si è trattato però soltanto di una colonizzazione culturale, così come alcuni tradizionalisti e conservatori, di entrambi gli schieramenti di destra o di sinistra avrebbero voluto spiegare il fenomeno liquidandolo con troppe semplificazioni, comprese quelle della sempre troppo osannata scuola di Francoforte e del suo maggior interprete: Theodor W. Adorno.

E non c’entra soltanto l’invenzione del disco microsolco a 45 giri, dei giradischi portatili e della diffusione delle radio commerciali che, sì, c’entrano ma che non avrebbero avuto modo di svilupparsi e diffondersi su scala così ampia se non avessero costituito un prodotto originale di una potenza che si presentava non soltanto sul piano finanziario, economico, politico e militare, ma anche tecnologico e, proprio per questo ultimo fatto, aperta alle sperimentazioni, anche le più strambe, da cui fosse possibile cogliere nuovi elementi da introdurre sul mercato delle merci. Dimostrazione concreta dell’affermazione di Marx, contenuta nel Capitale, secondo cui è la potenza dominante e più avanzata a indicare la via che le altre, in assenza di cambiamento radicale del modo di produzione, dovranno sicuramente seguire: «Il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare a quello sviluppato l’immagine del suo avvenire».

Non è quindi per caso che, tra tutte le città elencate prima, sia stata lasciata fuori New York, proprio per la rilevanza che questa ha assunto sia sul piano finanziario, per la presenza di Wall Street, che politico e culturale. In cui tutti gli aspetti elencati fino ad ora hanno finito col rimescolarsi in continuazione come in un grande calderone in cui aspiranti stregoni di ogni tipo hanno tentato di riversare i loro, sogni, desideri, esperienze e lati spesso oscuri dell’anima.

Una città lontana, però, dal punto di vista musicale, sia dalle estati dell’amore degli hippie che dal jazz tradizionale, in cui anche la musica folk, che proprio lì trovò la culla per la sua rinascita e che per ben poco tempo si fermò alla riproposizione dei temi classici d’origine, finì col diventare, con l’avvento di Bob Dylan nei locali del Greenwich, qualcosa che avrebbe trasformato il concetto stesso che ne costituiva la base, guarda caso elettrificandolo nel giro di pochi anni.

Una città in cui John Lennon, insieme a Yoko Ono, avrebbe trovato prima rifugio e poi la morte per mano di un fan, trasformando la moglie giapponese non soltanto in “vedova storica” del rock delle origini, ma anche, e forse soprattutto, in autentica sciamana e fonte di ispirazione per le successive avanguardie sviluppatesi nella Grande Mela1.

Una città di contraddizioni e luoghi simbolici diversi: dalle periferie proletarie di Newark al quartiere nero “per eccellenza” di Harlem; dagli accattoni e tossici della Bowery ai folksinger di Washington Square; dal Bronx devastato e povero alle Twin Tower, in una città che, come ha dimostrato l’attacco dell’11 settembre 2001, raccoglieva e, probabilmente, raccoglie ancora in sé, nel bene e nel male, tutti gli elementi dell’americanismo e della cultura americana.

A raccontarcene la storia musicale, culturale e, quindi, sociale degli ultimi sessant’anni (1963-2023) ci ha pensato Thurston Moore (n. 1958), chitarrista e fondatore dei Sonic Youth, nella monumentale autobiografia uscita in lingua originale nel 2023 e successivamente (2024) pubblicata in Italia per Baldini+Castoldi: Sonic Life. A partire dalla sua personale scoperta nel 1963, a cinque anni e grazie al fratello che allora ne aveva dieci, di quel classico del rock più semplice ed ipnotico rappresentato da Louie, Louie dei Kingsmen, destinato ad essere ripreso da centinaia di altri gruppi beat, garage e punk, americani e non.

Un preludio alla scoperta della scena punk che di lì a pochi anni si sarebbe sviluppata, con i suoi ritmi ripetitivi, la scarsa preparazione musicale dei suoi esecutori e il suono delle chitarre elettriche portate all’estremo secondo la legge che di lì a poco, per bocca e liuti elettrici dei giovani membri della band Red Kross, avrebbe rigidamente stabilito che «notes and chords mean nothing (to me)» (Born Innocent, 1981).

Ed è in questo contesto, in cui le band e gli artisti di riferimento non possono che esser i Velvet Underground con Lou Reed, John Cale e l’algida Nico, i New York Dolls e in seguito Patti Smith e i Television di Tom Verlaine e poi ancora i Suicide di Alan Vega, che prenderà corpo uno dei più significativi gruppi del rock dagli anni Ottanta del Novecento al primo decennio del XXI secolo: i Sonic Youth.

Gruppo il cui suono chitarristico, guidato dagli strumenti a sei corde di Thurston Moore e Lee Ranaldo (n.1956) e marcato dal basso di Kim Gordon (n.1953) e dalla batteria di Steve Shelley (n.1962), raccoglierà in sé tutta la lezione del frat rock di Louie Louie, del punk, del garage ma anche delle avanguardie jazz, elettroniche e contemporanee, in una autentica catastrofe sonora che anticiperà di quasi un ventennio il rumore assordante del crollo delle torri gemelle nel settembre del 2001.

Tutto sarà “scritto” e anticipato in una serie di album, e soprattutto di concerti, che via via lasceranno il pubblico sempre più tramortito, estasiato o smarrito. Un rituale che tra i solchi dei dischi oppure sui palchi di mezzo mondo portava alle orecchie degli ascoltatori il frastuono delle catastrofi a venire, anticipato tutto nella ripresa, fin dai primi dischi, di un altro grande tormentone del rock più degenerato: I Wanna Be Your Dog di Iggy Pop e dei suoi “dannati” Stooges (Detroit, 1969).

Una storia del rock passato, presente e futuro che, fino al furto delle medesime, saliva sul parco insieme ad un arsenale di chitarre elettriche che, dalle Fender di ogni tipo, alle Gibson fino alle Gretsch e Rickenbacker, riassumeva l’esperienza elettrica trasformandola definitivamente in quel corpo elettrico cantato già da Walt Whitman nelle sue Foglie d’erba: «I sing the body electric…» (1855 prima versione – 1892 ultima e definitiva).

Sì, perché occorre aver sperimentato sulla propria pelle e sul proprio corpo le vibrazioni universali emesse dal quartetto, soprattutto nel periodo compreso tra gli album Evol (1986), Daydream Nation (1988), Sister (1987) e Bad Moon Rising (1985) (titolo quest’ultimo che rinvia inevitabilmente ad un altro incomparabile gruppo del rock proletario e ipnotico come pochi altri, i Creedence Clearwater Revival), cosa significasse a cavallo tra anni Ottanta e Novanta essere esposti al bombardamento sonoro proveniente dagli amplificatori e dagli strumenti, spesso preparati in precedenza con “scordature” o cacciaviti cacciati tra le corde, dei Sonic Youth.

Un’astronave che decollava, con i motori a tutto regime, in fuga da un pianeta alieno, il frastuono terrorizzante di un bombardamento aereo su una città o quello dell’artiglieria sul campo di battaglia, il rumore delle sfere che si infrangono silenziosamente, soltanto per mancanza d’aria attraverso cui trasmettere le onde sonore prodotte dal loro scontro. Oppure di menti andate in frantumi. Per questo motivo si sono tralasciati qui i rimandi possibili, ma inadeguati, ai grandi improvvisatori della West Coast, Grateful Dead in testa, poiché nel suono del gruppo newyorkese non ci sono buone vibrazioni.

L’epoca dei Beach Boys e della loro Good Vibrations era già morta e sepolta all’epoca. Al suo posto si era aperta quella della guerra dei mondi e Thurston e soci lo annunciavano senza mezzi termini e, forse, per questo Neil Young li volle insieme a lui nel tour che trasmise in diretta dal palco il rumore dei bombardamenti su Baghdad ai tempi della prima guerra del Golfo. Neil Young che nei suoi assolo migliori e più acidi aveva portato il folk rock verso le stesse sponde, senza osare però mai superare il muro del suono che il gruppo di New York avrebbe infranto fin dagli esordi.

Esordi che, ripercorrendo le pagine dell’autobiografia di Moore, non scaturivano esattamente dal nulla e non soltanto per via dell’ambiente newyorkese più legato al CBGB (il locale sorto nel Lower Est Side che vide tra le sue pareti e sul suo palco svilupparsi la scena punk e new wave della Big Apple), con i concerti di Patti Smith e dei Television descritti al loro interno, ma anche in quell’avanguardia sperimentale che, da Glenn Branca (1948-2018), con The Ascension e Lesson N° 1, a Loren MazzaCane Connors (n.1949), con le sue sinfonie per cento chitarre elettriche, che avevano subito accolto Thurston Moore e Lee Ranaldo all’interno delle loro orchestre tutt’altro che da camera, aveva fatto della chitarra elettrica ciò che Beethoven, Haydn e, più tardi, Wagner avevano fatto con strumenti ad arco, fiati e timpani2.

Per un lungo tratto del loro percorso, prima della crisi e dello scioglimento legato anche alla frattura intervenuta nella coppia Thurston Moore/Kim Gordon, costituiranno davvero “l’avanguardia” con una scelta consapevole che li vedrà impegnati nella realizzazione di una serie di dischi incisi con composizioni e musicisti d’avanguardia, da Yoko Ono a Mats Gustafsson e molti altri, e che, proprio per questo, vedrà aggiungersi un quinto membro, Jim O’Rourke (n.1969), anche lui impegnato da tempo negli stessi territori musicali in compagnia del “vecchio genio” dei texani Red Krayola, Mayo Thompson (n.1944), operativo in quell’ambito fin dalla fine degli anni Sessanta. Una scelta artistica e sonora che Thurston Moore ha continuato a perseguire oltre e al di fuori degli stessi Sonic Youth, così come hanno continuato a fare sia Kim Gordon che Lee Ranaldo, senza però eguagliarne i risultati.

Tutto questo e molto altro ancora ci narrano le memorie dell’autore trasformando, proprio per questo motivo, Sonic Life in uno dei testi più preziosi, utili e interessanti per comprendere la storia e l’evoluzione della musica degli ultimi quarant’anni. 

Note

1) Sul significato della morte di John Lennon, si veda D. Gabutti, Pop. John Lennon e le culture della società opulenta in D. Gabutti, Ottanta. Dieci anni che sconvolsero il mondo, Neri Pozza Ediore, Vicenza 2025, pp. 55-63.

2) A proposito di Wagner e chitarre elettriche si veda qui

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17/05/2025

Love Lies Bleeding (2024) di Rose Glass - Minirece

Trump e gli Houthi, una “vittoria” per nascondere una sconfitta

Ha suscitato autentica sorpresa, qualche giorno fa, l’improvvisa affermazione di Donald Trump sugli Houthi (AnsarAllah) dello Yemen: “si sono arresi, non siamo più in guerra con loro”. Sorprendente non solo perché gli stessi guerriglieri non confermavano la notizia, ma soprattutto perché nelle stesse ore lanciavano un paio di missili verso Israele, che pure aveva giurato di aver azzerato quanto meno le infrastrutture portuali del paese.

Che cos’è accaduto, insomma? Un articolo del New York Times, qualche giorno dopo, ha fornito dettagli ancora più sorprendenti.

Trump era già abbastanza “frustrato” per l’assenza di risultati evidenti nell’operazione Rough Rider, finalizzata appunto ad indebolire sostanzialmente la capacità operativa di Ansar Allah di colpire le navi in transito nello stretto di Bab el Mandeb, all’ingresso del Mar Rosso e verso il canale di Suez (costringendo così le navi del solo Occidente a fare il periplo del continente africano).

Soltanto nel primo mese di attacchi – condotti impegnando due portaerei, bombardieri B-2 e caccia, nonché difese aeree Patriot e Thaad – erano andati perduti ben sette droni Predator da 30 milioni l’uno e due caccia F/A-18 Super Hornet, caduti dal ponte in due diverse occasioni, quando la portaerei aveva dovuto fare manovre di “evasione” in piena velocità per evitare di essere colpita da un missile yemenita.

I Predator sono droni di grandi dimensioni, ricchi di tecnologia di rilevamento elettronico, e doverne limitare l’utilizzo riduce enormemente la conoscenza dei punti da attaccare più rilevanti per le difese Houthi (è risaputo che in questo tipo di guerra le batterie antiaeree o missilistiche, anche se tecnologicamente un po’ “datate”, sono comunque mobili. Insomma, non stanno lì ad aspettare di essere individuate e colpite).

La somma delle perdite, in soli 30 giorni, è così arrivata ad un miliardo di dollari. Una cifra in fondo piccola nel bilancio del Pentagono, ma certamente sproporzionata se spesa per combattere un nemico così “minimo” come Ansarallah...

Il peggio però è arrivato nei giorni scorsi quando, secondo funzionari “ben informati” sentiti dal NYT, un numero non specificato di caccia F-35 e F-16 è stato quasi abbattuto dalle difese aeree Houthi. Il che era assolutamente imprevisto, dato che quelle batterie antiaeree di fabbricazione russa sono una fornitura “di seconda mano” da parte dell’Iran.

Un rischio alto corso per ottenere risultati in fondo irrilevanti, visto che le stesse agenzie di intelligence Usa hanno verificato che i danni inferti agli Houthi erano facilmente riparabili, e in poco tempo.

Al dunque, però, Trump avrebbe chiesto un rapporto sui “progressi” compiuti con i bombardamenti, non avendo alcuna intenzione di restare impelagato in un mini-conflitto dagli alti costi contro un nemico considerato “minimo”.

E qui arriva il vero scoop del New York Times: in 30 giorni gli Stati Uniti non erano nemmeno riusciti a stabilire la “superiorità aerea” sugli Houthi.

Bisogna districarsi nelle trappole del linguaggio specialistico militare, altrimenti si prendono lucciole per lanterne. È chiaro infatti che gli Houthi non dispongono di aviazione, quindi la “supremazia” Usa nei cieli non è nemmeno in discussione.

“Superiorità” però significa – in quel linguaggio – possibilità di operare a piacimento, senza alcun disturbo né rischio (come l’aviazione israeliana che bombarda Gaza o la Cisgiordania, insomma). Le perdite subite e i rischi di doverne registrare anche di più gravi, invece, escludono che questa condizione sia stata realizzata o facile da conseguire a breve termine.

Per operare in relativa tranquillità, insomma, l’aviazione Usa ha dovuto condurre attacchi “stand off”, ossia da molto lontano, e dunque con precisione inevitabilmente minore (ridotta ulteriormente dalla carenza di Predator, più facili da abbattere).

In fondo, dice il NYT, è la stessa tattica che hanno dovuto adottare i jet israeliani quando hanno attaccato l’Iran. Anche il quel caso la propaganda di Tel Aviv aveva celebrato “successi” favolosi, parlando addirittura di “azzeramento” delle difese contraeree di Tehran. Ma pare che le cose stiano un po’ diversamente.

La “resilienza” Houthi, condotta oltretutto con mezzi di “seconda mano”, dimostra che attacchi portati troppo da vicino avrebbero un costo molto alto.

Così “tante munizioni di precisione sono state utilizzate, specialmente quelle avanzate a lungo raggio, che alcuni pianificatori di emergenza del Pentagono stavano diventando sempre più preoccupati per le scorte complessive e le implicazioni per qualsiasi situazione in cui gli Stati Uniti potrebbero dover respingere un tentativo di invasione di Taiwan da parte della Cina”, racconta il NYT.

Il che apre interrogativi molto più complicati per qualunque pianificazione militare futura. Se gli Stati Uniti non sono in grado di condurre operazioni in sicurezza vicino allo spazio aereo dello Yemen, con le sue cosiddette difese aeree “rudimentali”. E gli F-35 – definiti “i caccia più avanzati mai assemblati” – non sono in grado di operare in sicurezza senza essere rilevati da una difesa aerea in fondo “arretrata” come quella Houthi, come gestirebbero i celebrati F-35 e B-2 (sia statunitensi che israeliani) la rete di difesa aerea iraniana, molto più estesa e più avanzata?

Di fatto, sta diventando chiaro che l‘Occidente neoliberista ha passato decenni a costruire un’intera dottrina di guerra che sta diventando obsoleta – basata su armi hi-tech, ad alto costo, che non possono essere prodotte su larga scala. Armi però contrastabili con efficacia anche da sistemi meno avanzati ma dal costo nettamente minore, e quindi impiegabili in numero significativamente maggiore.

Un esempio concreto si è avuto nella risposta iraniana ai bombardamenti israeliani: una massa di droni lenti e poco costosi che ha “saturato” le capacità del celebrato sistema Iron Dome di Tel Aviv, aprendo così la strada a normali missili balistici che arrivavano sui bersagli un attimo dopo, quando le batterie contraeree erano ormai “scariche”.

Ovvio che gli alti comandi militari occidentali stiano ragionando su come aggiornare armamenti e dotazioni. Ma ogni cambio di paradigma, anche quelli militari, ha bisogno di tempo, soldi, idee.

E non si trovano schioccando le dita...

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Romania - Il candidato presidente Simion accusa Macron di ingerenze elettorali

“La Francia si è intromessa nelle elezioni romene”. Queste sono le parole rilasciate giovedì da George Simion, candidato dell’Alleanza per l’unione dei romeni (Aur, partito di destra) favorito per le elezioni presidenziali in Romania, per le quali è previsto il ballottaggio in questo fine settimana.

Le “tendenze dittatoriali” di Macron

In un’intervista alla televisione CNews, Simion ha accusato il presidente francese Emmanuel Macron e l’ambasciatore francese a Bucarest Nicolas Warnery di ingerenze nei confronti del processo elettorale romeno: “amo la Francia e il popolo francese, ma non mi piacciono le tendenze dittatoriali di Emmanuel Macron. La Francia si è intromessa nelle elezioni romene”, ha detto Simion.

“L’ambasciatore francese ha parlato con il presidente della Corte costituzionale romena, che ha annullato le elezioni, e ha visitato le regioni del Paese per convincere gli imprenditori a sostenere il mio avversario, Nicusor Dan”, ha proseguito il candidato presidente.

Il golpe elettorale in Romania

La Romania è stata al centro di un vero e proprio golpe elettorale “made in Ue” quando la Corte Costituzionale decise all’unanimità di annullare le elezioni presidenziali, lo scorso autunno.

Le elezioni avevano visto l’ex primo ministro socialdemocratico Marcel Ciolacu classificarsi solo al terzo posto, con vincitore a sorpresa Calin Georgescu, candidato “indipendente” finché non disturbava l’establishment europeo, poi improvvisamente diventato di “ultradestra” (come era sempre stato), ma soprattutto antieuropeista e favorevole a un processo di pace con la Federazione russa.

“Non siamo l’Iran, dove un ayatollah decide chi può candidarsi. Ma anche in Francia, alcuni giudici hanno di fatto escluso Marine Le Pen. In Romania, le elezioni sono state annullate senza spiegazioni”, ha rincarato la dose Simion.

La democrazia liberale da mettere in soffitta

Come segnalato nell’ultimo editoriale di questo giornale, la democrazia liberale per come conosciuta negli decenni in Europa sta diventando un orpello da mettere in soffitta perché impedisce al grande capitale di allocare le proprie risorse in modo profittevole e rispondere alla frammentazione del mercato mondiale, scosso dalla crisi tutta occidentale del 2007/2008 e messo duramente alla prova dalla triade pandemia (2020), fuga Usa dall’Afghanistan (2021) e intervento russo in Ucraina (2022).

“Fingete di criticare Putin, ma usate gli stessi argomenti”, ha concluso Simion, mettendo a nudo l’ipocrisia di un sistema democratico europeo oramai alla frutta, con giudici che cecchinano candidati poco graditi (il caso di Marine Le Pen in Francia), governi che si impegnano in spese multimiliardarie senza passare dai pur inutili parlamenti (riarmo europeo), restringono spazi di dissenso sociale (dl sicurezza in Italia), ecc.

Il criterio non è “ideologico”, ma strettamente politico. Non importa se sei di destra, di centro o di estrema sinistra; se non condividi la triade guerra-austerità-riarmo devi esser messo fuori gioco.

L’interesse europeo per il fronte orientale

Il fronte orientale europeo è uno dei focolai caldissimi nel riordino dei rapporti di forza internazionali, su cui crediamo si giochi il salto di qualità dell’assetto dell’Unione europea per come conosciuta da Maastricht a oggi, con i guerrafondai di ultradestra baltici elevati ai vertici della commissione (Kallas, Kubilius, ecc), e i “pacifisti” di altri paesi (gli ultradestri ungheresi e rumeni, il socialdemocratico slovacco Fitso, ecc.) messi all’indice.

L’ingerenza francese in Romania deve essere intesa in questa partita di carattere generale, così come fu quella statunitense in Ucraina ai tempi del “fuck Eu” della Nuland.

Ossia il tentativo da parte della borghesia europea, di cui Macron è un fedele rappresentate, di tenere insieme un sistema politico-economico europeo, profondamente antipopolare, la cui tenuta è “stressata” dalle molteplici crisi internazionali.

Ma che, in assenza di un’alternativa, sta scegliendo di superare la democrazia liberale per mantenere intatti, o difendere alla “bell’e meglio”, i propri interessi di classe. Quelli dei padroni.

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Spese militari al 2% del PIL (forse)... ma è solo l’inizio

Arrivando al vertice informale dei ministri degli Esteri della NATO, svoltosi il 14 e 15 maggio nella città turca di Antalya, Antonio Tajani ha dichiarato ufficialmente che l’Italia ha raggiunto la soglia del 2% del PIL in spese militari. Anzi, ha detto che il governo ha già inviato il documento che attesta questo traguarda a Mark Rutte, segretario dell’alleanza atlantica.

Il ministro italiano ha detto che Giorgia Meloni avrebbe voluto annunciarlo al summit NATO del 24 e 25 giugno, di cui l’incontro di Antalya è un passaggio preparatorio. Ma alla fine Tajani ha preferito fregiarsene subito, durante un’occasione che aveva al centro, oltre all’espansione della produzione e il rafforzamento di deterrenza e difesa, anche l’aumento delle spese militari.

Nelle parole di Tajani c’è sicuramente la volontà di mostrarsi sulla buona strada rispetto agli impegni presi, arrivando alla soglia di spesa fissata ormai nel 2014. Ma andando più a fondo è anche una mossa di un governo che sa di non avere molto spazio fiscale, e che a fine giugno la NATO deciderà obiettivi finanziari molto più onerosi.

Infatti, nemmeno un mese fa Rutte, di ritorno da un incontro a Washington con il presidente statunitense Donald Trump, aveva annunciato la volontà di fissare una nuova soglia di spesa al 5% del PIL, da raggiungere gradualmente entro il 2032. Del resto, si prevede che entro la fine del 2025 tutti i paesi dell’alleanza raggiungeranno il 2%, e perciò si vuole spingere l’acceleratore sulla deriva bellicista.

L’idea sarebbe quella di toccare il 3,5% del PIL per la difesa in senso stretto – i core military requirements, elaborati secondo i criteri di calcolo di spesa attualmente in uso tra i membri dell’alleanza atlantica – e l’1,5% in più generiche spese per la sicurezza, i broader defence related investments, la cui definizione dovrà essere contrattata, e che sicuramente sarà tema del vertice NATO di fine giugno all’Aja.

Su questa divisione di spesa Tajani non è molto d’accordo, e ha affermato di ritenere più equilibrato un investimento del 3% nella difesa in senso stretto e del 2% nella sicurezza. La soglia del 2% raggiunta in questi giorni, annunciata da Tajani e poi anche da Crosetto, quasi sicuramente è stata raggiunta conteggiando nel totale un insieme di spese non propriamente militari.

L’osservatorio Milex ha calcolato per il 2025 una spesa militare italiana secondo i criteri NATO di poco superiore ai 35 miliardi: mancano 10 miliardi all’appello per raggiungere la soglia del 2% del PIL. Probabilmente oggi sono state conteggiate anche le pensioni militari, le spese della Guardia costiera e della Guardia di finanza, e forse altri fondi del ministero dell’Università e dell’Industria.

C’è chi valuta che, nelle spese militari largamente intese, il governo voglia considerare anche quelle per il Ponte sullo Stretto di Messina, di cui è stata dichiarata l’importanza strategica. Quello di Tajani è un annuncio che mostra la buona volontà italiana nella militarizzazione dell’economia, ma che serve anche a mandare un messaggio rispetto alla trattativa che riguarderà i paesi NATO nei prossimi mesi.

L’obiettivo, ad ogni modo, è condiviso: sollevare gli Stati Uniti da parte del peso della spesa per l’alleanza atlantica. Passare dal burden shifting, ossia dal semplice spostamento degli oneri, al burden sharing, ovvero la condivisione di essi, stando al contenuto di una lettera inviata da Rutte ai membri della NATO, anticipata dalla rivista tedesca Der Spiegel.

Un percorso che asseconderebbe i desideri di Washington, ma che rappresenta anche la giustificazione del progresso nell’edificazione di una compiuta difesa europea. Proprio ieri, 16 maggio, si è svolta a Roma la quarta riunione dell’E5, un formato di cooperazione informale tra i ministri della Difesa di Italia, Francia, Germania, Polonia e Regno Unito.

L’obiettivo di questo tipo di forum, si legge sul sito della Difesa italiana, è quello di promuovere una “maggiore autonomia strategica dell’Europa nella gestione delle proprie questioni di sicurezza, pur mantenendo saldi legami con la NATO e con l’Unione Europea”. Ne fanno infatti parte i cinque grandi attori del complesso militare-industriale europeo.

Le prime tre economie della UE, il bastione del fronte orientale di Unione Europea e NATO, e il Regno Unito. Sono questi gli attori che si candidano a guidare un nuovo sistema integrato delle difese del Vecchio Continente, come strumento strategico fondamentale in questa fase della competizione globale. Per questo il 2% è solo l’inizio...

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Perché Trump sta tradendo l'India?

Generazione Romantica

Generazione Romantica, dal titolo internazionale Caught by the Tides – ovvero “catturati dalle maree irrefrenabili” – è l’ultima opera del celebre regista cinese Jia Zhangke.

È la storia, principalmente di due città, Datong e Fenjie, e di due vite, quelle di Qiao Qiao e Guao Binche.

Più che intrecciarsi, le esistenze dei due protagonisti si sfiorano, nel turbinio dei cambiamenti – “le maree irrefrenabili” appunto – della Cina degli ultimi 25 anni.

La narrazione filmica è una sorta di danza del tempo dove storia collettiva e storia individuale sono i due costanti livelli dello sviluppo della trama: questi due piani della storia dialogano costantemente, creando un affresco in cui il privato e il collettivo si fondono, si combinano e si “giustappongono” con uno sviluppo cronologico che segna cambiamenti epocali e lascia solchi profondi come le rughe dei due personaggi a fine pellicola.

Le due città sono al centro di grandi cambiamenti: la prima è un paese “ex” minerario dello Shanxi che sembra destinato al declino, la seconda dello Chongqing che subisce le conseguenze della costruzione delle “Tre dighe”.

Le vite dei due personaggi principali sono in costante dialettica con i cambiamenti che attraversano la società in cui vivono, in una gamma di reazioni che va dall’adattamento passivo a ciò che sembra essere lo spirito del tempo, cercando di trovare una propria strategia di successo all’attiva reazione rispetto alle conseguenze della pandemia.

Da sempre Jia ha portato avanti un racconto personale e stratificato della Cina, tanto nel documentario quanto nella finzione.

Il senso di appartenenza alla terra e alla nazione attraversa l’intera sua filmografia, sostenuto da una costante ricerca delle immagini più evocative per raccontarla: una ricerca formale attenta e poetica, con una continua esplorazione di immagini capaci di raccontare la trasformazione del paese e delle persone che al loro interno si muovono. Frame e sequenze che sono talvolta “fossili” e testimoniano un mondo che non c’è più.

L’attenzione verso l’immagine e la cura nella sua costruzione propone allo spettatore una riflessione sul mezzo cinematografico stesso e la sua “storicità”: la capacità di rappresentare una realtà che muta così come cambiano i mezzi per rappresentarla.

In un’intervista ha raccontato che il titolo provvisorio del film era L’uomo con la macchina digitale, in omaggio al grande Dziga Vertov. Le immagini sgranate, tipiche del digitale dei primi anni 2000, accompagnano le sequenze iniziali e rievocano l’estetica del suo primo periodo: marcano una distanza profonda con l’oggi, uno scarto evidente tra i primordi post-analogici e quelli attuali. Non a caso, ritroviamo anche gli stessi attori: i due protagonisti, Qiaoqiao (Zhao Tao) e Bin (Li Zhubin), erano già apparsi ventidue anni fa in Plaisirs inconnus.

La protagonista femminile Qiaoqiao incarna il sentimento d’una Cina che, nei primi anni Duemila, si affaccia con slancio alla contemporaneità, pensando di trovare una propria possibilità di successo individuale in quelle che sembrano essere le attività che offre una società in profonda trasformazione e sviluppa inevitabilmente quelle storture che scaturiscono dalla volontà della dirigenza politica di sfruttare il modo di produzione capitalista e l’entrata nel mercato mondiale globalizzato, come opportunità di modernizzazione impetuosa per risalire nella gerarchia delle potenze.

Qiaoqiao si muove, danza, attraversa spazi e tempi con il corpo e l’anima di una nazione che si “apre” al ritmo del mondo e che sembra in preda alla colonizzazione dei valori occidentali verso un individualismo sfrenato, ma che ritrova un forte senso della collettività attraverso lo sforzo con cui si affronta l’emergenza pandemica del Covid-19.

Il formato cinematografico qui oscilla tra documentario e finzione, rendendo ibrido il mezzo cinematografico tra l’inserimento di video, filmati in 35 mm e un formato che oscilla tra il 4:3 o in 16:9, rompendo la “linearità” della rappresentazione e per così dire de-costruendone l’omogeneità attraverso il recupero di immagini attingendo ad un archivio stratificato di ciò che non si è utilizzato in lavori precedenti.

Le musiche che accompagnano le immagini – brani pop cinesi e internazionali, come i Pet Shop Boys di Au-delà des montagnes – rafforzano questa dimensione di esperienza collettiva. Il tutto si inserisce in un contesto storico preciso: l’ingresso della Cina nella World Trade Organization, evento periodizzante di un cambiamento epocale, le Olimpiadi e poi il Covid-19.

Un epoca di transizione dove il passato non viene raccontato direttamente, ma si trova sullo sfondo e dentro il cambiamento che viene rappresentato: un’istituzione culturale operaia di epoca maoista che si trasforma progressivamente fino ad essere “irriconoscibile”, o le macerie degli edifici demoliti contenenti numerosi segni della vita passata, accanto a quelli più moderni che stanno sorgendo.

Ciò che viene rappresentato contiene ciò che è stato e ciò che sarà, in un gioco tra potenzialità ed effettività, mutamento e fissità che attraversa tutto il film.

Tra questi, la costruzione della Diga delle Tre Gole, conclusa nel 2006. Attraversando il fiume Yangtze, la diga è diventata nel tempo una potente metafora della trasformazione radicale della Cina moderna.

In questo contesto si colloca Still Life (2006), film cruciale nella filmografia di Jia, vincitore del Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia. La pellicola racconta con estrema sensibilità le vicende di persone costrette ad abbandonare le proprie case per fare spazio al bacino della diga, restituendo allo spettatore una riflessione intima e politica sulla perdita di uno spazio.

Se da un lato la dimensione visiva assume una funzione narrativa centrale, il silenzio dei personaggi rappresenta un tratto distintivo e ricorrente nel cinema di Jia Zhang-ke, che nel film assume quasi la valenza dell’incomunicabilità se ognuno percorre l’illusione della propria affermazione individuale attraverso il successo economico e non si riconosce in una volontà comune.

Qiaoqiao, come già accennato, incarna simbolicamente la Cina e le sue trasformazioni. Mentre Bin le invia un messaggio invitandola a cercare fortuna altrove, lei resta ferma, e costante ai cambiamenti del Paese che si prepara a mostrarsi al mondo con le Olimpiadi di Pechino del 2008.

Il tempo del film si dilata fino alla pandemia da Covid-19, tutto cambia radicalmente: il silenzio si fa più profondo, il formato dell’immagine muta, vivido, e l’estetica raffinata delle prime parti viene progressivamente abbandonata, sostituita da uno stile che richiama la freddezza delle videocamere di sorveglianza. La pandemia bussa alle porte mentre Qiaoqiao, ora impiegata in un supermercato, lavora indossando una mascherina. La realtà si fa sempre più spersonalizzata, meccanica, quasi robotica – riflesso di un mondo ormai distante dalle sue origini.

La terza e ultima parte del film, ambientata durante la pandemia da Covid-19, si chiude con l’incontro finale tra Qiaoqiao e Bin. In una scena tanto semplice quanto densa di significato, i due si tolgono la mascherina, lasciando affiorare sul volto i segni visibili del tempo passato.

È un momento sospeso, fragile, che non offre una vera riconciliazione, ma restituisce piuttosto la sensazione di aver attraversato un mondo trasformato, ormai irriconoscibile, dove nonostante questa mutazione, i personaggi continuano a esistere, a muoversi con discrezione, come figure comuni “trascinate dalle maree” della Storia, proprio come chiunque altro.

Generazione romantica si cristallizza così in una forma instabile, evanescente, come una pellicola che fluttua nel tempo e nella memoria. Non si tratta di un racconto chiuso, né di una narrazione che cerca risposte, ma di un film che abita lo spazio incerto tra ciò che è stato e ciò che resta, proiettato verso ciò che sarà.

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A Istanbul si tratta, anche se all'“Europa” non piace

Parte la trattativa, anche se media e governanti europei fanno il tifo contro fino a negarla. A Istanbul, stamattina, si siedono le delegazioni russa, statunitense e ucraina, una di fronte all’altra, per la prima volta dal marzo 2022, quando solo l’intervento di Boris Johnson (primo ministro britannico) impedì che si arrivasse ad un cessate il fuoco ed a una prima bozza di accordo.

Molto tempo è passato, al punto che il nuovo premier di Londra – il sedicente “laburista” Keir Starmer – non è assolutamente in grado di influire sulla nuova trattativa, anche se gli piacerebbe moltissimo farla fallire.

La Russia presenta la stessa squadra di tre anni fa (Vladimir Medinsky come capo della delegazione), a sottolineare che da quel punto bisogna ripartire. Completamente diverso invece il team ucraino, guidato dal ministro della difesa Rustem Umerov, insieme a una dozzina di vice-funzionari, viste le numerose sostituzioni imposte ai vertici di Kiev da una guerra dall’andamento catastrofico. L’allora onnipotente Dmitri Kuleba, per esempio, è sparito dai radar...

A far capire che il gioco è serio è stato l’arrivo a Istanbul del segretario di Stato americano Marco Rubio, e non dovrebbe esser lì per fare il turista... Probabile che anche il suo omologo russo, Lavrov, stia per fare altrettanto.

Vedremo gli sviluppi, anche se per il momento sia gli statunitensi che i russi ostentano aspettative piuttosto basse.

Gli europei, invece, fanno a gara per dire che “la trattativa non c’è”, naturalmente per colpa di Putin che non si è presentato a Istanbul dopo aver proposto lui stesso data e sede.

Qui è necessario smettere di seguire i media europoidi e attenersi alle consolidate abitudini della diplomazia internazionale. Da che mondo è mondo, infatti, una trattativa tra due paesi in guerra è impostata dagli “sherpa”, ovvero da quei funzionari incaricati di preparare il terreno curando tutti i dettagli, registrando i punti di blocco, le possibilità di mediazione, isolando gli ostacoli insormontabili, ecc.

Solo dopo – quando quasi tutto è stato fissato in documenti – intervengono anche fisicamente i capi di stato per sciogliere gli ultimi nodi ed eventualmente firmare i “trattati”.

Immaginarsi Putin, Trump e Zelenskij chini per ore e giorni intorno alle mappe, a disputare sulle centinaia di metri in più o in meno da fissare come “confini”, oppure sulle quantità di armi che in futuro potranno essere stipate in Ucraina, ecc., è pura fantasia. Come sa ogni giornalista di medio livello che in vita sua abbia seguito, sia pure a distanza, una trattativa...

Ciò nonostante tutti hanno cercato di spiegare che questa sarebbe stata la scena clou “se Putin avesse voluto davvero la pace”. Una bestialità falsaria che è stata addirittura fatta propria da Giorgia Meloni in Parlamento...

La partita a Istanbul ha solo due giocatori veri: Russia e Stati Uniti. Perché le “garanzie” davvero strategiche sono quelle che Mosca chiede da almeno venti anni (da quando fu respinta la sua richiesta di adesione alla Nato!). Ossia l’arresto dell’espansione ad Est dell’alleanza atlantica e soprattutto il posizionamento delle testate nucleari a distanza di sicurezza dai confini russi.

E per quanto Francia e Gran Bretagna si pavoneggino con la loro piccola dotazione nucleare, tutti capiscono che non è quella la prima preoccupazione dei vertici russi.

Poi, certo, questa coppia di sciagurati può ancora provocare casini indescrivibili (tipo l’annuncio di Macron di voler posizionare in Polonia i pochi bombardieri nucleari francesi), finalizzati unicamente a far fallire ogni trattativa e continuare la guerra per procura. Ma non ci sono molti dubbi sul fatto che, se Russia e Usa trovano un punto di equilibrio credibile e duraturo, quello diventerà “legge” per tutti.

Il resto sono chiacchiere per giornalisti servi o boccaloni.

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