Un Rapporto del Cnel presentato il 4 dicembre scorso descrive in termini estremamente preoccupanti i dati sull’emigrazione giovanile dal nostro paese verso altri paesi europei. Il Rapporto intendeva in realtà analizzare l’attrattività dell’Italia per i giovani di altri paesi ma il riscontro è stato sia negativo che pesante. Tra l’altro i risultati sono impietosi anche analizzando il fattore umano sia in termini di “capitale umano” che di valore perduto vero e proprio.
Solo nel 2024 sono stati 78mila i giovani che hanno lasciato l’Italia. Rispetto agli ingressi di giovani immigrati – provenienti però da altre economie avanzate della fascia d’età 18-34 anni – il saldo è decisamente negativo: -61mila.
Il Rapporto del Cnel allarga poi lo sguardo ad un periodo che va – significativamente – dal 2011 al 2024. Il 2011 è infatti l’anno della crisi del debito. In questi tredici anni sono emigrati dall’Italia in 630mila – di cui il 49% dalle regioni del Nord e il 35% dal Meridione –, il che corrisponde al 7% dei giovani residenti in Italia. Anche in questo caso il saldo migratorio è negativo di 441mila giovani.
Lo studio ha poi quantificato anche il valore del capitale umano emigrato dal nostro Paese nel periodo 2011-2024 e il valore perduto ammonta a 159,5 miliardi di euro, stimato sul saldo migratorio e come costo sostenuto dalle famiglie e, per la sola istruzione, dal settore pubblico, per crescere ed educare i giovani italiani che sono poi emigrati all’estero.
In termini di Pil, il valore del capitale umano uscito nell’arco temporale 2011-2024 è pari al 7,5%. Il paradosso è che con la denatalità – nel 2025 toccheremo un nuovo minimo storico dall’Unità d’Italia probabilmente scendendo sotto i 350mila neonati – e con il progressivo invecchiamento della popolazione, i giovani sono da considerare una risorsa che rischia di scarseggiare per ogni ipotesi di sviluppo futuro del Paese.
C’è poi il dato del capitale umano e qui, analizzando la platea di chi ha lasciato l’Italia tra i giovani emigrati nel triennio 2022-2024, emerge che il 42,1% è composto da laureati, in aumento rispetto al 33,8% dell’intero periodo 2011-2024. Ragione per cui non è un paradosso che punte più alte di questa emigrazione “di valore” si registrino nelle regioni più ricche come Trentino (50,7%), Lombardia (50,2%), Friuli-Venezia Giulia (49,8%), Emilia-Romagna (48,5%) e Veneto (48,1%).
Nei tredici anni del periodo 2011-2024 ci sono stati solo 55mila arrivi in Italia di giovani dalle prime dieci economie avanzate verso cui invece emigrano i giovani italiani (Austria, Belgio, Francia, Germania, Irlanda, Paesi Bassi, Regno Unito, Spagna, Svizzera e Usa). Nello stesso periodo ben 486mila giovani italiani sono emigrati in quei Paesi.
La prima destinazione rimane il Regno Unito (26,5%), seguito da Germania (21,2%), Svizzera (13%), Francia (10,9%) e Spagna (8,2%).
Per quanto riguarda la migrazione interna al nostro paese, nel 2011-2024 si sono trasferiti dal Meridione al Centro-Nord 484mila giovani italiani. Tra loro 240mila sono andati nelle regioni del Nord Ovest, 163mila nel Nord-Est e 80mila nel Centro. Il deflusso record è quello dalla Campania, pari a 158mila, seguita da Sicilia con 116mila e Puglia con 103mila. L’afflusso maggiore riguarda la Lombardia con 192mila ingressi, alla quale seguono Emilia-Romagna (106mila) e Piemonte (41mila).
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Da ciascuno secondo le proprie possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni
08/12/2025
La controriforma della giustizia. La posta in gioco
“Questa riforma è un grimaldello – afferma la già Magistrato Maria Longo, durante la sua esposizione online – per far saltare tutto l’assetto istituzionale dello Stato e il suo assetto democratico”.
Dopo l’azione del ministro Calderoli di far rientrare dalla finestra la sua legge per l’Autonomia Differenziata, procedendo nonostante l’illegittimità dichiarata della Corte Costituzionale e l’annullamento dalla Consulta, questo Governo procede nel suo progetto rifondativo dell’ordinamento della Repubblica (1).
Questa, non a caso, è stata definita una Contro-Riforma. Va conosciuta e compresa come tale, anche in previsione del referendum di primavera, indetto per la prima volta da un Governo della Repubblica e non dalla sua opposizione assopita e sbandante.
È infatti Antonio Madera del Comitato Emilia Romagna per il ritiro di ogni Autonomia Differenziata ad affermare che: “Senza una posizione chiara anche sull’Autonomia Differenziata (2), da parte di quella opposizione che si rifà ai nostri valori, certamente si perdono anche le prossime elezioni”.
La ricerca, da parte della Presidente del Consiglio (smettiamola di chiamarla Premier) è un mandato popolare indiscusso. Ottenere la libertà di poter agire indiscutibilmente, in cielo in terra ed in ogni luogo, per il bene degli italiani. Magari, come già avviene con la stampa, esautorando anche il lavoro parlamentale.
Il Governo Meloni in realtà, è alla ricerca di una maggioranza plebiscitaria popolare, per lo più inconsapevole del pericolo non solo istituzionale, che sta correndo.
Per illustrare i principi della Contro-Riforma e a sostegno della sua pericolosità, vi proponiamo questo confronto informato, tenuto tra noi che non essendo la classica spiegazione tecnica e didattica, abbiamo deciso di rendere pubblico. Vi proponiamo, inoltre, questo video animato che ne riassume i punti guida.
“La relazione della già magistrato Maria Longo” – 1° parte
Riteniamo sia nostro dovere rendere reale ciò che, impropriamente, viene enunciato dal ministro Carlo Nordio come la Riforma che velocizzerà i tempo processuali; impedirà ingerenze della magistratura nelle sfere politiche; ridurrà la pressione delle correnti interne al CSM, ed altre amenità. In realtà sono tutti principi finalizzati a nascondere la volontà di controllare uno dei tre principali ordinamenti democratici dello Stato Costituzionale.
Un tentativo, che a fatica era già stato respinto e sogno del pluri-indagato Silvio Berlusconi, graziato soprattutto per scadenza dei termini dei tempi processuali. Un progetto, tassello fondamentale, del Piano Solo elaborato dalla P2 di Licio Gelli(3) che altro aveva in mente al rispetto e riconoscimento della Democrazia Costituzionale nata dalla lotta di liberazione.
Nell’attuare questa riforma della Giustizia, il Governo non ha neanche il coraggio politico di dire apertamente che è un’azione attuata contro la magistratura e contro la loro indipendenza e autonomia. E che la velocizzazione dell’iter processuale, in realtà è una falsità. Al contrario, lo renderà ancora più farraginoso e lento.
“Dubbie perplessità a confronto” – 2° Parte
La posta in gioco è molto alta per la tenuta della nostra Repubblica Costituzionale e senza mezze parole la già Magistrato, dott.sa Maria Longo, ci ricorda che: “Qui abbiamo un esecutivo che ha disposto una modifica costituzionale, esorbitando dai propri poteri, esautorandone totalmente il Parlamento. Non un emendamento è stato preso in considerazione e ha inciso e vuole incidere, in modo estremo sull’autonomia ed indipendenza della magistratura”.
Bisogna essere consapevoli che l’Autonomia Differenziata, la Giustizia e il Premierato, rappresentano le tre riforme decisive attuate da questa maggioranza Trumpiana, per scardinare l’attuale ordinamento Costituzionale.
Obiettivo infatti, di questa azione contro la magistratura, è anche rafforzare, con la possibile vittoria al referendum, la propria posizione in previsione della prossima riforma sul Premierato, tanto voluta da Giorgia Meloni. Un progetto che ridurrà la figura del Presidente della Repubblica, organo supremo di controllo dei principi costituzionali.
Rendendo innocui i suoi principi, si otterrebbe così definitivamente sotto controllo della maggioranza di Governo, i tre organi fondativi ed indipendenti della Repubblica nata dopo la liberazione dalla dittatura antidemocratica e anticostituzionale.
Un processo attivo e spudorato, che mira ad instaurare un sistema politico illiberale, adatto e tollerato soltanto da chi dimostrerà fedeltà alla nuova linea a-democratica. Un progetto tutt’altro che rispettoso, anche del principio nazionalista e liberal-democratico, che la stessa Meloni ha per anni rivendicato e che gli ha permesso di giungere sino al Governo del nostro paese.
Riassumendo: oltre al Super Poliziotto come PM, si avranno reati che saranno perseguiti ed altri no e per di più con un’azione penale non più di fatto obbligatoria. Ovviamente si farà riferimento a reati contro il patrimonio (furti, scippi etc.), ma ad esempio, con difficoltà se non mai avranno priorità reati riguardante la corruzione o il coinvolgimento di membri del Governo e ad esso legati. In pratica non avremo più una legge uguale per tutti.
“Con questa Riforma, ci siamo giocati il fatto – conclude la ex Magistrato Maria Longo – che per i giudici, soggetti soltanto alla legge, la loro pronuncia di sentenza non potrà che essere condizionato da un’indagine sbilanciata”.
Dato che questo referendum non prevede il raggiungimento del quorum, si riuscirà a far comprendere la sua pericolosità a tutti i cittadini che si recheranno alle urne a votare?
Note
1 – https://www.affariregionali.it/it/il-ministro/comunicati/autonomia-ministro-calderoli-pubblica-le-pre-intese-con-le-4-regioni/
2 – https://alkemianews.it/2025/11/19/sanita-emilia-romagna-stop-ai-pazienti-da-fuori/
3 – https://www.piolatorre.it/public/r/l-ombra-della-p2-di-gelli-su-riforme-e-democrazia-illiberale-1-4195/
Fonte
Dopo l’azione del ministro Calderoli di far rientrare dalla finestra la sua legge per l’Autonomia Differenziata, procedendo nonostante l’illegittimità dichiarata della Corte Costituzionale e l’annullamento dalla Consulta, questo Governo procede nel suo progetto rifondativo dell’ordinamento della Repubblica (1).
Questa, non a caso, è stata definita una Contro-Riforma. Va conosciuta e compresa come tale, anche in previsione del referendum di primavera, indetto per la prima volta da un Governo della Repubblica e non dalla sua opposizione assopita e sbandante.
È infatti Antonio Madera del Comitato Emilia Romagna per il ritiro di ogni Autonomia Differenziata ad affermare che: “Senza una posizione chiara anche sull’Autonomia Differenziata (2), da parte di quella opposizione che si rifà ai nostri valori, certamente si perdono anche le prossime elezioni”.
La ricerca, da parte della Presidente del Consiglio (smettiamola di chiamarla Premier) è un mandato popolare indiscusso. Ottenere la libertà di poter agire indiscutibilmente, in cielo in terra ed in ogni luogo, per il bene degli italiani. Magari, come già avviene con la stampa, esautorando anche il lavoro parlamentale.
Il Governo Meloni in realtà, è alla ricerca di una maggioranza plebiscitaria popolare, per lo più inconsapevole del pericolo non solo istituzionale, che sta correndo.
Per illustrare i principi della Contro-Riforma e a sostegno della sua pericolosità, vi proponiamo questo confronto informato, tenuto tra noi che non essendo la classica spiegazione tecnica e didattica, abbiamo deciso di rendere pubblico. Vi proponiamo, inoltre, questo video animato che ne riassume i punti guida.
“La relazione della già magistrato Maria Longo” – 1° parte
Riteniamo sia nostro dovere rendere reale ciò che, impropriamente, viene enunciato dal ministro Carlo Nordio come la Riforma che velocizzerà i tempo processuali; impedirà ingerenze della magistratura nelle sfere politiche; ridurrà la pressione delle correnti interne al CSM, ed altre amenità. In realtà sono tutti principi finalizzati a nascondere la volontà di controllare uno dei tre principali ordinamenti democratici dello Stato Costituzionale.
Un tentativo, che a fatica era già stato respinto e sogno del pluri-indagato Silvio Berlusconi, graziato soprattutto per scadenza dei termini dei tempi processuali. Un progetto, tassello fondamentale, del Piano Solo elaborato dalla P2 di Licio Gelli(3) che altro aveva in mente al rispetto e riconoscimento della Democrazia Costituzionale nata dalla lotta di liberazione.
Nell’attuare questa riforma della Giustizia, il Governo non ha neanche il coraggio politico di dire apertamente che è un’azione attuata contro la magistratura e contro la loro indipendenza e autonomia. E che la velocizzazione dell’iter processuale, in realtà è una falsità. Al contrario, lo renderà ancora più farraginoso e lento.
“Dubbie perplessità a confronto” – 2° Parte
La posta in gioco è molto alta per la tenuta della nostra Repubblica Costituzionale e senza mezze parole la già Magistrato, dott.sa Maria Longo, ci ricorda che: “Qui abbiamo un esecutivo che ha disposto una modifica costituzionale, esorbitando dai propri poteri, esautorandone totalmente il Parlamento. Non un emendamento è stato preso in considerazione e ha inciso e vuole incidere, in modo estremo sull’autonomia ed indipendenza della magistratura”.
Bisogna essere consapevoli che l’Autonomia Differenziata, la Giustizia e il Premierato, rappresentano le tre riforme decisive attuate da questa maggioranza Trumpiana, per scardinare l’attuale ordinamento Costituzionale.
Obiettivo infatti, di questa azione contro la magistratura, è anche rafforzare, con la possibile vittoria al referendum, la propria posizione in previsione della prossima riforma sul Premierato, tanto voluta da Giorgia Meloni. Un progetto che ridurrà la figura del Presidente della Repubblica, organo supremo di controllo dei principi costituzionali.
Rendendo innocui i suoi principi, si otterrebbe così definitivamente sotto controllo della maggioranza di Governo, i tre organi fondativi ed indipendenti della Repubblica nata dopo la liberazione dalla dittatura antidemocratica e anticostituzionale.
Un processo attivo e spudorato, che mira ad instaurare un sistema politico illiberale, adatto e tollerato soltanto da chi dimostrerà fedeltà alla nuova linea a-democratica. Un progetto tutt’altro che rispettoso, anche del principio nazionalista e liberal-democratico, che la stessa Meloni ha per anni rivendicato e che gli ha permesso di giungere sino al Governo del nostro paese.
Riassumendo: oltre al Super Poliziotto come PM, si avranno reati che saranno perseguiti ed altri no e per di più con un’azione penale non più di fatto obbligatoria. Ovviamente si farà riferimento a reati contro il patrimonio (furti, scippi etc.), ma ad esempio, con difficoltà se non mai avranno priorità reati riguardante la corruzione o il coinvolgimento di membri del Governo e ad esso legati. In pratica non avremo più una legge uguale per tutti.
“Con questa Riforma, ci siamo giocati il fatto – conclude la ex Magistrato Maria Longo – che per i giudici, soggetti soltanto alla legge, la loro pronuncia di sentenza non potrà che essere condizionato da un’indagine sbilanciata”.
Dato che questo referendum non prevede il raggiungimento del quorum, si riuscirà a far comprendere la sua pericolosità a tutti i cittadini che si recheranno alle urne a votare?
Note
1 – https://www.affariregionali.it/it/il-ministro/comunicati/autonomia-ministro-calderoli-pubblica-le-pre-intese-con-le-4-regioni/
2 – https://alkemianews.it/2025/11/19/sanita-emilia-romagna-stop-ai-pazienti-da-fuori/
3 – https://www.piolatorre.it/public/r/l-ombra-della-p2-di-gelli-su-riforme-e-democrazia-illiberale-1-4195/
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Tutte le azioni della Nato contro la Russia
di Jeffrey Sachs
Dall’indipendenza di Kiev in poi, gli Stati Uniti&Co. hanno fatto fallire ogni tentativo di accordo tra i due Stati ex-Urss, pur di strappare l’ex Repubblica sovietica all’influenza del Cremlino
La guerra in Ucraina è il culmine di un crollo trentennale dell’ordine di sicurezza europeo.
Lungi dall’essere inevitabile o predeterminata, è nata da uno smantellamento sistematico dei principi che hanno radicato l’accordo post Guerra Fredda: la neutralità degli Stati posizionati tra blocchi militari, l’impegno di USA e Germania a non espandere la NATO verso Est, nell’ex sfera Sovietica, e la dottrina dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) secondo cui la sicurezza deve esser indivisibile, ovvero che nessuno Stato può rafforzare la propria sicurezza a scapito di un altro.
Contrariamente alle narrazioni occidentali dominanti che descrivono la Russia come l’aggressore unilaterale, è assodato che le amministrazioni statunitensi successive al crollo dell'URSS, supportate nei momenti chiave dall’Unione Europea, hanno allontanato l’Ucraina dalla sua neutralità costituzionalmente sancita, trascinandola in uno scontro geopolitico. In diversi momenti, dal 1990, 1994, 2008, 2014, 2015, 2021 e 2022 fino a oggi, sono esistite esplicite vie diplomatiche (exit ramps) che avrebbero potuto garantire la sovranità dell’Ucraina, proteggere la sicurezza europea e impedire la guerra. Ogni volta, sono state respinte dall’Occidente.
Quando l’Ucraina ottenne l’indipendenza nel 1991, la neutralità fu un pilastro dell’accordo politico. La Dichiarazione di Sovranità Statale del 1990 affermava che il Paese intendeva esser uno “Stato permanentemente neutrale” che non si sarebbe unito a blocchi militari. Tale principio divenne legge: l’articolo 18 della Costituzione del 1996, impegna lo Stato alla neutralità e al non allineamento. L’opinione pubblica ucraina rafforzò tale posizione. Dagli anni '90 fino a inizi 2014, la maggioranza s’è sempre opposta all’adesione alla NATO.
Dal 1989 al 1991, i leader occidentali hanno ripetutamente assicurato ai funzionari sovietici che la NATO non si sarebbe espansa verso Est se Mosca avesse accettato la riunificazione tedesca, come ben documentato in archivi declassificati. Il 9 febbraio 1990, il Segretario di Stato americano Baker disse a Gorbaciov: “La giurisdizione della NATO non si sposterà di un pollice verso Est”. Il Ministro degli Esteri tedesco Genscher dichiarò nel gennaio 1990: “Non ci sarà un’espansione del territorio della Nato verso Est”.
L’Atto finale di Helsinki (1975) e la Carta di Parigi (1990) stabilivano che la sicurezza in Europa doveva esser collettiva, non a somma zero. La Carta per la sicurezza europea dell’OSCE del 1999 riaffermò: “Nessuno Stato accrescerà la propria sicurezza a scapito della sicurezza di altri Stati”. L’allargamento NATO, in particolare in Ucraina, violava tale principio.
Nel 1994, l’Ucraina restituì alla Russia il controllo dell’arsenale nucleare di epoca sovietica in base al Memorandum di Budapest, in un contesto di sicurezza definito da tre condizioni:
1) l’Ucraina sarebbe rimasta neutrale;
2) la NATO non si sarebbe espansa verso l’Ucraina;
3) la sicurezza europea si sarebbe basata sui principi dell’OSCE, non sulla politica di blocco.
La tragedia è che, col passare degli anni ’90, la strategia statunitense s’è conformata alla logica articolata da Brzezinski ne La grande scacchiera (1997): “Senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero eurasiatico”. “Se Mosca riprende il controllo dell’Ucraina la Russia riacquista i mezzi per diventare un potente Stato imperiale”. Tale pensiero ha da allora plasmato la prospettiva strategica statunitense. L’obiettivo era quindi quello d’incorporare l’Ucraina nella NATO.
Nel 2004, USA e Unione Europea sostennero la Rivoluzione Arancione, fornendo assistenza finanziaria a gruppi della società civile attraverso il Fondo Nazionale per la Democrazia, USAID e varie fondazioni. Poi, nel 2008, al vertice NATO di Bucarest, e nonostante la forte opposizione di Germania e Francia, gli USA costrinsero la NATO a dichiarare: “Ucraina e Georgia diventeranno membri”. La Cancelliera tedesca Merkel ammise poi: “Dal punto di vista ucraino, questa sarebbe stata una dichiarazione di guerra per Putin”. Ma l’opinione pubblica rimase in larga maggioranza contraria all’adesione: il candidato presidenziale Viktor Yanukovich vinse le elezioni del 2009/10 su una piattaforma di neutralità e la sua amministrazione approvò una legge che codificava l’Ucraina come Stato non appartenente ad alcun blocco.
Tuttavia, le forze pro-NATO in Ucraina e Occidente videro l’opportunità quando nel 2013 Yanukovich rinviò la firma d’un accordo d’associazione con l’Unione Europea, che scatenò proteste di massa alimentate dagli USA. L’apparato statunitense per il Cambio di Regime entrò in azione.
Il 21 febbraio 2014 l’Unione Europea mediò un accordo con Yanukovich, basato su riforme costituzionali, governo d’unità nazionale ed elezioni anticipate. Invece, nel giro di poche ore, gruppi armati occuparono edifici governativi e Yanukovich fuggì, ma certo non si dimise. Il Parlamento lo rimosse senza procedure costituzionali e gli USA diedero il sostegno al Regime di fatto: l’Unione Europea rimase in silenzio e lasciò che il deep State (Stato Occulto) statunitense prendesse il comando.
Il nuovo governo adottò politiche nazionaliste e dichiarò un’operazione militare “antiterrorismo” contro le proteste nelle regioni orientali etnicamente russe. Ciò militarizzò una disputa politica e rese impossibile un compromesso. La nuova classe politica iniziò a parlare d’espellere la Russia dalla sua base navale in Crimea. Alla fine, la Russia s’impossessò della Crimea, adducendo preoccupazioni per la sicurezza nazionale relative alla Flotta del Mar Nero.
Per fermare i combattimenti a Est, la Russia contribuì a mediare l’accordo di Minsk II. Tale intesa, approvata all’unanimità dalla Risoluzione 2202 del Consiglio di Sicurezza ONU, prevedeva un cessate il fuoco, l’autonomia (“status speciale”) per Donetsk e Lugansk, riforme costituzionali per proteggere la minoranza etnica russa e il ritiro delle armi pesanti. L’Ucraina si rifiutò di attuare l’accordo, soprattutto l’autonomia per il Donbass. La Merkel ammise poi che l’accordo aveva lo scopo di “dare tempo all’Ucraina” per rafforzare la propria forza militare.
Tra il 2015 e il 2021, l’Ucraina è divenuta di fatto un alleato NATO, grazie a esercitazioni congiunte, nuove strutture di comando conformi agli standard dell’Alleanza, missioni di addestramento con USA e Regno Unito, integrazione dell’intelligence e, soprattutto, miliardi di dollari in trasferimenti di armi. Nel 2021, l’Ucraina aveva il più grande esercito d’Europa al di fuori della Russia.
Nel dicembre 2021, la Russia ha presentato due bozze di trattato, una per gli USA e l’altra per l’Unione Europea, invitando l’Occidente a rinunciare all’adesione dell’Ucraina alla NATO, ritirare le armi NATO dai confini russi, tornare ai livelli di dispiegamento del 1997 e ripristinare i principi di sicurezza indivisibili dell’OSCE.
Gli USA si sono rifiutati di negoziare con la Russia sull’allargamento sostenendo che la “politica delle porte aperte” della NATO non fosse affar suo. Il fallimento del tentativo ha portato la Russia a lanciare l’Operazione Militare Speciale. Nel 2023, il Segretario Generale NATO Stoltenberg ha così riassunto la situazione: “Il contesto era che Putin, nell’autunno 2021, aveva dichiarato, e di fatto inviato, una bozza di trattato che voleva che la NATO firmasse, di promettere che non ci sarebbe stato un ulteriore allargamento. Era una precondizione per non invadere l’Ucraina. Ovviamente non l’abbiamo firmato. Così è andato in guerra per impedire alla NATO di avvicinarsi ai suoi confini. Ha ottenuto l’esatto opposto”.
In breve, la guerra in Ucraina non è stata il risultato di antichi odi o un improvviso atto d’aggressione, bensì il risultato prevedibile d’una serie di decisioni di USA e UE che hanno smantellato la neutralità ucraina, respinto la diplomazia con la Russia e subordinato la sicurezza dell’Ucraina a una fallimentare strategia geopolitica occidentale. Una soluzione duratura alla guerra richiede un ritorno ai principi che hanno guidato il periodo successivo alla Guerra Fredda: la neutralità dell’Ucraina, la sicurezza indivisibile dell’Europa e una vera diplomazia tra Unione Europea e Russia.
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Dall’indipendenza di Kiev in poi, gli Stati Uniti&Co. hanno fatto fallire ogni tentativo di accordo tra i due Stati ex-Urss, pur di strappare l’ex Repubblica sovietica all’influenza del Cremlino
La guerra in Ucraina è il culmine di un crollo trentennale dell’ordine di sicurezza europeo.
Lungi dall’essere inevitabile o predeterminata, è nata da uno smantellamento sistematico dei principi che hanno radicato l’accordo post Guerra Fredda: la neutralità degli Stati posizionati tra blocchi militari, l’impegno di USA e Germania a non espandere la NATO verso Est, nell’ex sfera Sovietica, e la dottrina dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) secondo cui la sicurezza deve esser indivisibile, ovvero che nessuno Stato può rafforzare la propria sicurezza a scapito di un altro.
Contrariamente alle narrazioni occidentali dominanti che descrivono la Russia come l’aggressore unilaterale, è assodato che le amministrazioni statunitensi successive al crollo dell'URSS, supportate nei momenti chiave dall’Unione Europea, hanno allontanato l’Ucraina dalla sua neutralità costituzionalmente sancita, trascinandola in uno scontro geopolitico. In diversi momenti, dal 1990, 1994, 2008, 2014, 2015, 2021 e 2022 fino a oggi, sono esistite esplicite vie diplomatiche (exit ramps) che avrebbero potuto garantire la sovranità dell’Ucraina, proteggere la sicurezza europea e impedire la guerra. Ogni volta, sono state respinte dall’Occidente.
Quando l’Ucraina ottenne l’indipendenza nel 1991, la neutralità fu un pilastro dell’accordo politico. La Dichiarazione di Sovranità Statale del 1990 affermava che il Paese intendeva esser uno “Stato permanentemente neutrale” che non si sarebbe unito a blocchi militari. Tale principio divenne legge: l’articolo 18 della Costituzione del 1996, impegna lo Stato alla neutralità e al non allineamento. L’opinione pubblica ucraina rafforzò tale posizione. Dagli anni '90 fino a inizi 2014, la maggioranza s’è sempre opposta all’adesione alla NATO.
Dal 1989 al 1991, i leader occidentali hanno ripetutamente assicurato ai funzionari sovietici che la NATO non si sarebbe espansa verso Est se Mosca avesse accettato la riunificazione tedesca, come ben documentato in archivi declassificati. Il 9 febbraio 1990, il Segretario di Stato americano Baker disse a Gorbaciov: “La giurisdizione della NATO non si sposterà di un pollice verso Est”. Il Ministro degli Esteri tedesco Genscher dichiarò nel gennaio 1990: “Non ci sarà un’espansione del territorio della Nato verso Est”.
L’Atto finale di Helsinki (1975) e la Carta di Parigi (1990) stabilivano che la sicurezza in Europa doveva esser collettiva, non a somma zero. La Carta per la sicurezza europea dell’OSCE del 1999 riaffermò: “Nessuno Stato accrescerà la propria sicurezza a scapito della sicurezza di altri Stati”. L’allargamento NATO, in particolare in Ucraina, violava tale principio.
Nel 1994, l’Ucraina restituì alla Russia il controllo dell’arsenale nucleare di epoca sovietica in base al Memorandum di Budapest, in un contesto di sicurezza definito da tre condizioni:
1) l’Ucraina sarebbe rimasta neutrale;
2) la NATO non si sarebbe espansa verso l’Ucraina;
3) la sicurezza europea si sarebbe basata sui principi dell’OSCE, non sulla politica di blocco.
La tragedia è che, col passare degli anni ’90, la strategia statunitense s’è conformata alla logica articolata da Brzezinski ne La grande scacchiera (1997): “Senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero eurasiatico”. “Se Mosca riprende il controllo dell’Ucraina la Russia riacquista i mezzi per diventare un potente Stato imperiale”. Tale pensiero ha da allora plasmato la prospettiva strategica statunitense. L’obiettivo era quindi quello d’incorporare l’Ucraina nella NATO.
Nel 2004, USA e Unione Europea sostennero la Rivoluzione Arancione, fornendo assistenza finanziaria a gruppi della società civile attraverso il Fondo Nazionale per la Democrazia, USAID e varie fondazioni. Poi, nel 2008, al vertice NATO di Bucarest, e nonostante la forte opposizione di Germania e Francia, gli USA costrinsero la NATO a dichiarare: “Ucraina e Georgia diventeranno membri”. La Cancelliera tedesca Merkel ammise poi: “Dal punto di vista ucraino, questa sarebbe stata una dichiarazione di guerra per Putin”. Ma l’opinione pubblica rimase in larga maggioranza contraria all’adesione: il candidato presidenziale Viktor Yanukovich vinse le elezioni del 2009/10 su una piattaforma di neutralità e la sua amministrazione approvò una legge che codificava l’Ucraina come Stato non appartenente ad alcun blocco.
Tuttavia, le forze pro-NATO in Ucraina e Occidente videro l’opportunità quando nel 2013 Yanukovich rinviò la firma d’un accordo d’associazione con l’Unione Europea, che scatenò proteste di massa alimentate dagli USA. L’apparato statunitense per il Cambio di Regime entrò in azione.
Il 21 febbraio 2014 l’Unione Europea mediò un accordo con Yanukovich, basato su riforme costituzionali, governo d’unità nazionale ed elezioni anticipate. Invece, nel giro di poche ore, gruppi armati occuparono edifici governativi e Yanukovich fuggì, ma certo non si dimise. Il Parlamento lo rimosse senza procedure costituzionali e gli USA diedero il sostegno al Regime di fatto: l’Unione Europea rimase in silenzio e lasciò che il deep State (Stato Occulto) statunitense prendesse il comando.
Il nuovo governo adottò politiche nazionaliste e dichiarò un’operazione militare “antiterrorismo” contro le proteste nelle regioni orientali etnicamente russe. Ciò militarizzò una disputa politica e rese impossibile un compromesso. La nuova classe politica iniziò a parlare d’espellere la Russia dalla sua base navale in Crimea. Alla fine, la Russia s’impossessò della Crimea, adducendo preoccupazioni per la sicurezza nazionale relative alla Flotta del Mar Nero.
Per fermare i combattimenti a Est, la Russia contribuì a mediare l’accordo di Minsk II. Tale intesa, approvata all’unanimità dalla Risoluzione 2202 del Consiglio di Sicurezza ONU, prevedeva un cessate il fuoco, l’autonomia (“status speciale”) per Donetsk e Lugansk, riforme costituzionali per proteggere la minoranza etnica russa e il ritiro delle armi pesanti. L’Ucraina si rifiutò di attuare l’accordo, soprattutto l’autonomia per il Donbass. La Merkel ammise poi che l’accordo aveva lo scopo di “dare tempo all’Ucraina” per rafforzare la propria forza militare.
Tra il 2015 e il 2021, l’Ucraina è divenuta di fatto un alleato NATO, grazie a esercitazioni congiunte, nuove strutture di comando conformi agli standard dell’Alleanza, missioni di addestramento con USA e Regno Unito, integrazione dell’intelligence e, soprattutto, miliardi di dollari in trasferimenti di armi. Nel 2021, l’Ucraina aveva il più grande esercito d’Europa al di fuori della Russia.
Nel dicembre 2021, la Russia ha presentato due bozze di trattato, una per gli USA e l’altra per l’Unione Europea, invitando l’Occidente a rinunciare all’adesione dell’Ucraina alla NATO, ritirare le armi NATO dai confini russi, tornare ai livelli di dispiegamento del 1997 e ripristinare i principi di sicurezza indivisibili dell’OSCE.
Gli USA si sono rifiutati di negoziare con la Russia sull’allargamento sostenendo che la “politica delle porte aperte” della NATO non fosse affar suo. Il fallimento del tentativo ha portato la Russia a lanciare l’Operazione Militare Speciale. Nel 2023, il Segretario Generale NATO Stoltenberg ha così riassunto la situazione: “Il contesto era che Putin, nell’autunno 2021, aveva dichiarato, e di fatto inviato, una bozza di trattato che voleva che la NATO firmasse, di promettere che non ci sarebbe stato un ulteriore allargamento. Era una precondizione per non invadere l’Ucraina. Ovviamente non l’abbiamo firmato. Così è andato in guerra per impedire alla NATO di avvicinarsi ai suoi confini. Ha ottenuto l’esatto opposto”.
In breve, la guerra in Ucraina non è stata il risultato di antichi odi o un improvviso atto d’aggressione, bensì il risultato prevedibile d’una serie di decisioni di USA e UE che hanno smantellato la neutralità ucraina, respinto la diplomazia con la Russia e subordinato la sicurezza dell’Ucraina a una fallimentare strategia geopolitica occidentale. Una soluzione duratura alla guerra richiede un ritorno ai principi che hanno guidato il periodo successivo alla Guerra Fredda: la neutralità dell’Ucraina, la sicurezza indivisibile dell’Europa e una vera diplomazia tra Unione Europea e Russia.
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Proteste ad Oslo per il “Nobel” alla Machado
Diverse organizzazioni pacifiste norvegesi hanno annunciato una manifestazione a Oslo per il 9 dicembre, poche ore prima che la leader dell’opposizione venezuelana María Corina Machado riceva il Premio Nobel per la Pace.
L’appello alla protesta è stato diffuso in una dichiarazione che esorta la popolazione a rifiutare il premio conferito a Machado, accusandola di non rappresentare i valori di pace sociale richiesti dal premio.
Le organizzazioni sostengono che il Premio Nobel abbia ignorato, a loro avviso, il principio di autodeterminazione dei popoli latinoamericani e affermano che la decisione è motivata da interessi politici esterni.
“Mi preoccupa che tu non abbia dedicato il Nobel al tuo popolo, ma all’aggressore del Venezuela” ha scritto il Premio Nobel per la Pace Perez D’Esquivel in una lettera aperta inviata il 13 ottobre scorso alla Machado. “Penso, Corina, che tu debba analizzare e capire dove ti trovi, se sei solo un'altra pedina del colonialismo degli Stati Uniti, sottomessa ai suoi interessi di dominio, il che non potrà mai essere per il bene del tuo popolo. Come oppositrice del governo di Maduro, le tue posizioni e scelte generano molta incertezza; ricorri al peggio quando chiedi che gli Stati Uniti invadano il Venezuela” afferma Perez D’Esquivel.
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L’appello alla protesta è stato diffuso in una dichiarazione che esorta la popolazione a rifiutare il premio conferito a Machado, accusandola di non rappresentare i valori di pace sociale richiesti dal premio.
Le organizzazioni sostengono che il Premio Nobel abbia ignorato, a loro avviso, il principio di autodeterminazione dei popoli latinoamericani e affermano che la decisione è motivata da interessi politici esterni.
“Mi preoccupa che tu non abbia dedicato il Nobel al tuo popolo, ma all’aggressore del Venezuela” ha scritto il Premio Nobel per la Pace Perez D’Esquivel in una lettera aperta inviata il 13 ottobre scorso alla Machado. “Penso, Corina, che tu debba analizzare e capire dove ti trovi, se sei solo un'altra pedina del colonialismo degli Stati Uniti, sottomessa ai suoi interessi di dominio, il che non potrà mai essere per il bene del tuo popolo. Come oppositrice del governo di Maduro, le tue posizioni e scelte generano molta incertezza; ricorri al peggio quando chiedi che gli Stati Uniti invadano il Venezuela” afferma Perez D’Esquivel.
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07/12/2025
Cartoline cinesi ep. 1 – Ferro e led
di Jack Orlando
Una cosa che faceva particolarmente ridere, ma anche un po’ schifo, ai cinesi che vedevano per la prima volta i soldati della spedizione portoghese del 1513, erano le barbe.
Gli sbandati, gli ubriaconi e i briganti portavano la barba, ma nessuno l’aveva così folta né così riccia, più simile al manto di una bestia che di un uomo trasandato. Il modo in cui mangiavano invece gli faceva orrore, vagli a dar torto.
Di certo non si aspettavano di averci a che fare, con loro e altri europei, per quattro secoli a venire. E che nel tempo barbe e visi spigolosi avrebbero suscitato sempre meno ilarità; annunciando morte, sfruttamento e rapina.
Ora le vecchine lungo il marciapiede ridono delle barbe del gruppetto di laowai, stranieri, gesticolano indicandosi le guance e vociano assolutamente incuranti dell’abisso linguistico che le separa dai loro interlocutori, né dei loro sguardi interrogativi.
Nessuno ormai può ignorare la Cina, eppure fuori dai circuiti canonici di Pechino, Hong Kong, Shangai è ancora abbastanza difficile vedere facce da occidente. La qual cosa è assai spesso motivo di risate e generale euforia.
Durante il Secolo delle umiliazioni c’era poco da sghignazzare in faccia a un occidentale. Il vanto di una cultura millenaria e raffinata, di una consolidata attitudine allo scambio e all’interazione con l’altro non avevano presa sulle facce barbute.
L’efficienza, specialmente militare, era l’unica cosa che comprendevano e l’interesse era rivolto verso le ricchezze che potevano riportare alle proprie coorti.
Gli stivali delle truppe d’Europa hanno globalizzato il mercato mondiale al prezzo di un olocausto seriale. Vite in cambio di oro, sangue per tessuti, lacrime per spezie e orfani per terreni.
E la Cina ha conosciuto a fondo e per lungo tempo cosa significasse avere a che fare con gli europei.
Il Secolo delle umiliazioni è terminato, per la precisione nel 1949, con la vittoria della rivoluzione comunista del presidente Mao e un costo spaventoso in termini di vite umane, un tributo pesante pagato al dio dell’autodeterminazione, cui se ne aggiungeranno parecchi altri alle Parche della modernizzazione. Ma oggi le vecchiette possono ridere delle facce dei laowai e proverebbero ben poca impressione davanti alle piccole città da cui sono arrivati.
Chongqiing è infatti una megalopoli grande pressappoco quanto l’Austria, con oltre trenta milioni d’abitanti. Diversi paesi europei hanno una popolazione totale più ridotta di questa.
Un macroscopico labirinto di cemento, vetro e acciaio, inondato dai neon e dal vociare dei megafoni. Le piazze possono inaspettatamente essere il tetto di un palazzo e una strada asfaltata corre trenta piani sopra un’altra, sottopassaggi diventano centri commerciali che a loro volta sfociano in stazioni metro e lungofiumi.
Delirio architettonico pluridimensionale.
La città si codifica in livelli differenti e perennemente intrecciati, mostra i suoi grattacieli e li fa svettare in pirotecnici giochi di luci e droni, ogni sera tra le 20:00 e le 23:00 circa, come le altre città; a beneficio degli occhi un popolo che a quanto pare ha sviluppato una fissazione per tutto ciò che è luminoso.
E allo stesso tempo nasconde nel loro ventre alveari di vita produttiva, gettati alla rinfusa tra lusso e abbandono, dove lo stesso edificio ospita alberghi, condomini, cliniche, discoteche e dio sa cos’altro, tanto da poterci vivere senza mai conoscere completamente la destinazione d’uso del proprio palazzo.
Non è semplicemente lo sviluppo economico a intagliare le forme e, fortunatamente, non tutte le metropoli del paese sono così tortuose. Le antiche fortificazioni fluviali dei diversi centri di Chongqing si inerpicavano lungo la collina a gradoni attraverso case a palafitta, diaojiaolou, producendosi in vicoli, scale e terrazzamenti dove le finestre delle case affacciavano per lo più verso l’interno nei tentacolari budelli della costruzione. Un ventre di undici piani. Botteghe e mense sopperivano alla carenza di spazi domestici vivibili, i bagni erano – e spesso ancora sono – pubblici. Una forma di vita collettiva e alvearica che conservava il germe di quella che è oggi l’esperienza di massa.
Hongyadong è un esemplare di questa forma, anche se è difficile definirlo originale visto che i suoi edifici hanno appena un ventennio. Diventato obsoleto e fatiscente, dopo essere stato per secoli fortezza, mercato e condominio; con i suoi abitanti trasferiti in nuovi edifici popolari, il complesso è stato abbattuto e poi ricostruito ampliando la pianta originaria.
L’attraversamento di Hongyadong non ha nulla dell’esperienza storica, almeno per lo standard europeo settato sulla conservazione museale, che rimane allibito da un dedalo di scale e viuzze che ora traboccano di merci, di corpi in cerca di consumo e di schiere di ragazzine in finti abiti tradizionali che si mettono in posa per farsi un photobook nella vecchia rocca ora invasa dalle luci.
L’occhio è soggetto alla pressione di una contraddizione poliforme che inonda lo spazio visivo. La cura maniacale dello spazio pubblico, di cui pure sembra esserci un discreto orgoglio, è frustrata dalla decisa incuria degli spazi privati. La pianificazione, cardine che determina lo sviluppo economico del paese è assi difficile da vedere, tanto più che la città non ha mai lo stesso volto, nemmeno in relazione allo scorrere della giornata.
L’alba trova una giungla di cemento che è una sinfonia di grigi. Vecchi grattacieli condominiali della classe operaia, fatiscenti pachidermi decorati dai motori dei condizionatori e improbabili gabbie alle finestre.
Di case e palazzine basse quasi non è rimasto traccia in questo intricato omaggio all’industria pesante. Chongqing vanta una vita millenaria: centro nevralgico del commercio fluviale per gran parte della storia cinese, finisce ad essere la capitale della Repubblica di Cina del generalissimo Chiang Kay-shek durante la guerra antigiapponese e arriva agli anni ’50 del doporivoluzione vedendosi destinata al ruolo di fulcro dell’industria pesante della nazione e motore trainante dell’economia delle regioni centro-meridionali; ha poco più di un milione di abitanti, sopravvissuti ai bombardamenti giapponesi, alla fame e alla guerra civile; in meno di dieci anni la popolazione è più che triplicata, nutrita da immigrati delle campagne divenuti operai.
Quando diventa prefettura autonoma, nel 1997, assorbe le masse sfollate dai villaggi estinti dalla costruzione della Diga delle Tre Gole. Esplode demograficamente, superando la terza decina di milioni, e urbanisticamente: i palazzoni operai si vedono superare dallo slancio megalomane della speculazione del XXI secolo, acciaio e vetro, forme variabili a soddisfare il gusto degli architetti. Anch’essi però vestono grigio, riflettendo i toni dei tre fiumi e del cielo, che pare accordarsi da sé alla scala cromatica.
È dalle 20:00 in poi che la città cambia volto, sfida il tramonto accendendo quasi ogni singolo edificio con giochi di luci che deformano lo skyline fino a renderlo irriconoscibile, un’epifania di estetica alla Blade Runner per l’occhio europeo.
Spettacolo insolito, forse l’immagine più evidente dell’evoluzione cittadina, che ha mutato pelle ancora una volta e, dismessa la tuta dell’operaio di fonderia, veste quella dell’ingegnere Hi-Tech: è a questo che si è votata ora Chongqin, uno degli epicentri dello Sviluppo delle Nuove Forze Produttive di Qualità; definizione sinomarxiana per il processo di ricerca del primato mondiale in fatto di sviluppo tecnologico e intelligenza artificiale.
Gli abitanti hanno smesso di respirare l’aria ammorbata dalle ciminiere, sono uno dei centri propulsivi del ceto medio continentale e hanno convertito, con un gigantesco contributo pubblico, le vecchie fabbriche dismesse in coworking, pub alla moda e centri culturali. Le statue di Mao sorvegliano lo scorrere incessante di una vita che, da quest’altro lato del mondo avevamo imparato ad associare all’eccezionalità newyorkese.
Non è scontato vedere in giro falci e martello e altri emblemi del partito, nonostante la tradizione radicalmente maoista della città. Ciò che compare di più sono gli striscioni rossi di propaganda che sottolineano la campagna statale di ringiovanimento delle aree rurali.
È fuori dalle metropoli invece che è presente il partito, ramificato in sedi e attività parastatali che innervano il tessuto delle campagne. Per governare gli squilibri dello sviluppo economico, dopo aver attinto a piene mani dall’inurbamento – anche forzato – dei contadini; ora si è imposta una linea politica fatta di limitazioni alla libertà di movimento degli abitanti, che non possono più trasferirsi facilmente in città, per prevenire fenomeni di spopolamento, e di investimenti in tecnologie produttive e infrastrutture di servizio alla popolazione.
Fatto il ceto medio, ora si rifanno le campagne.
Interessante che tutto ciò venga messo sotto l’etichetta di Ringiovanimento. Per la prima volta questo paese vede ora una leggera flessione demografica e l’aumento dei suoi anziani, tendenziale effetto dello sviluppo economico che produce benessere e aspirazioni extrafamiliari.
Per avere un’intuizione di cos’è lo spirito di questo paese c’è da considerare lo sguardo di un novantenne: un uomo nato in un paese martoriato dal colonialismo, sotto il tallone di ferro dell’occupazione nipponica. Diventato bambino nel mezzo della guerra civile e fattosi uomo nella costruzione della nazione socialista. Un uomo che ha visto le carestie spezzare intere province e la disciplina collettiva muovere masse e innalzare città. I cui capelli sono ingrigiti tra nubi di smog mentre il suo paese diveniva la fabbrica del mondo, e oggi arriva al capolinea con i figli in carriera e i nipoti ben nutriti in una metropoli sfavillante, frammento di una potenza nazionale che impone al mondo di osservarla finalmente con occhi diversi.
La parabola che l’Occidente ha coperto in quasi tre secoli, lui l’ha attraversata dritta nel solo arco di una vita.
Tre ore di led accecanti e proiezioni pantagrueliche come sfondo dello svago notturno si concludono attorno alle 23:00, quando la città si congeda alla vista lasciando accese manciate di insegne e sporadiche finestre nei grattacieli, ora sinistramente neri come le torri di Mordor, a sorreggere un cielo che ha da tempo scordato l’esistenza delle stelle.
Ma in basso, sotto i lampioni delle strade, prosegue incessante la vita collettiva: carretti che grigliano spiedini e locali che servono noodles in brodo lavorano a pieno regime, bar karaoke sono ben lontani dal cacciare l’ultimo cliente ubriaco, minimarket e laboratori notturni non spengono mai la luce.
Fonte
Una cosa che faceva particolarmente ridere, ma anche un po’ schifo, ai cinesi che vedevano per la prima volta i soldati della spedizione portoghese del 1513, erano le barbe.
Gli sbandati, gli ubriaconi e i briganti portavano la barba, ma nessuno l’aveva così folta né così riccia, più simile al manto di una bestia che di un uomo trasandato. Il modo in cui mangiavano invece gli faceva orrore, vagli a dar torto.
Di certo non si aspettavano di averci a che fare, con loro e altri europei, per quattro secoli a venire. E che nel tempo barbe e visi spigolosi avrebbero suscitato sempre meno ilarità; annunciando morte, sfruttamento e rapina.
Ora le vecchine lungo il marciapiede ridono delle barbe del gruppetto di laowai, stranieri, gesticolano indicandosi le guance e vociano assolutamente incuranti dell’abisso linguistico che le separa dai loro interlocutori, né dei loro sguardi interrogativi.
Nessuno ormai può ignorare la Cina, eppure fuori dai circuiti canonici di Pechino, Hong Kong, Shangai è ancora abbastanza difficile vedere facce da occidente. La qual cosa è assai spesso motivo di risate e generale euforia.
Durante il Secolo delle umiliazioni c’era poco da sghignazzare in faccia a un occidentale. Il vanto di una cultura millenaria e raffinata, di una consolidata attitudine allo scambio e all’interazione con l’altro non avevano presa sulle facce barbute.
L’efficienza, specialmente militare, era l’unica cosa che comprendevano e l’interesse era rivolto verso le ricchezze che potevano riportare alle proprie coorti.
Gli stivali delle truppe d’Europa hanno globalizzato il mercato mondiale al prezzo di un olocausto seriale. Vite in cambio di oro, sangue per tessuti, lacrime per spezie e orfani per terreni.
E la Cina ha conosciuto a fondo e per lungo tempo cosa significasse avere a che fare con gli europei.
Il Secolo delle umiliazioni è terminato, per la precisione nel 1949, con la vittoria della rivoluzione comunista del presidente Mao e un costo spaventoso in termini di vite umane, un tributo pesante pagato al dio dell’autodeterminazione, cui se ne aggiungeranno parecchi altri alle Parche della modernizzazione. Ma oggi le vecchiette possono ridere delle facce dei laowai e proverebbero ben poca impressione davanti alle piccole città da cui sono arrivati.
Chongqiing è infatti una megalopoli grande pressappoco quanto l’Austria, con oltre trenta milioni d’abitanti. Diversi paesi europei hanno una popolazione totale più ridotta di questa.
Un macroscopico labirinto di cemento, vetro e acciaio, inondato dai neon e dal vociare dei megafoni. Le piazze possono inaspettatamente essere il tetto di un palazzo e una strada asfaltata corre trenta piani sopra un’altra, sottopassaggi diventano centri commerciali che a loro volta sfociano in stazioni metro e lungofiumi.
Delirio architettonico pluridimensionale.
La città si codifica in livelli differenti e perennemente intrecciati, mostra i suoi grattacieli e li fa svettare in pirotecnici giochi di luci e droni, ogni sera tra le 20:00 e le 23:00 circa, come le altre città; a beneficio degli occhi un popolo che a quanto pare ha sviluppato una fissazione per tutto ciò che è luminoso.
E allo stesso tempo nasconde nel loro ventre alveari di vita produttiva, gettati alla rinfusa tra lusso e abbandono, dove lo stesso edificio ospita alberghi, condomini, cliniche, discoteche e dio sa cos’altro, tanto da poterci vivere senza mai conoscere completamente la destinazione d’uso del proprio palazzo.
Non è semplicemente lo sviluppo economico a intagliare le forme e, fortunatamente, non tutte le metropoli del paese sono così tortuose. Le antiche fortificazioni fluviali dei diversi centri di Chongqing si inerpicavano lungo la collina a gradoni attraverso case a palafitta, diaojiaolou, producendosi in vicoli, scale e terrazzamenti dove le finestre delle case affacciavano per lo più verso l’interno nei tentacolari budelli della costruzione. Un ventre di undici piani. Botteghe e mense sopperivano alla carenza di spazi domestici vivibili, i bagni erano – e spesso ancora sono – pubblici. Una forma di vita collettiva e alvearica che conservava il germe di quella che è oggi l’esperienza di massa.
Hongyadong è un esemplare di questa forma, anche se è difficile definirlo originale visto che i suoi edifici hanno appena un ventennio. Diventato obsoleto e fatiscente, dopo essere stato per secoli fortezza, mercato e condominio; con i suoi abitanti trasferiti in nuovi edifici popolari, il complesso è stato abbattuto e poi ricostruito ampliando la pianta originaria.
L’attraversamento di Hongyadong non ha nulla dell’esperienza storica, almeno per lo standard europeo settato sulla conservazione museale, che rimane allibito da un dedalo di scale e viuzze che ora traboccano di merci, di corpi in cerca di consumo e di schiere di ragazzine in finti abiti tradizionali che si mettono in posa per farsi un photobook nella vecchia rocca ora invasa dalle luci.
L’occhio è soggetto alla pressione di una contraddizione poliforme che inonda lo spazio visivo. La cura maniacale dello spazio pubblico, di cui pure sembra esserci un discreto orgoglio, è frustrata dalla decisa incuria degli spazi privati. La pianificazione, cardine che determina lo sviluppo economico del paese è assi difficile da vedere, tanto più che la città non ha mai lo stesso volto, nemmeno in relazione allo scorrere della giornata.
L’alba trova una giungla di cemento che è una sinfonia di grigi. Vecchi grattacieli condominiali della classe operaia, fatiscenti pachidermi decorati dai motori dei condizionatori e improbabili gabbie alle finestre.
Di case e palazzine basse quasi non è rimasto traccia in questo intricato omaggio all’industria pesante. Chongqing vanta una vita millenaria: centro nevralgico del commercio fluviale per gran parte della storia cinese, finisce ad essere la capitale della Repubblica di Cina del generalissimo Chiang Kay-shek durante la guerra antigiapponese e arriva agli anni ’50 del doporivoluzione vedendosi destinata al ruolo di fulcro dell’industria pesante della nazione e motore trainante dell’economia delle regioni centro-meridionali; ha poco più di un milione di abitanti, sopravvissuti ai bombardamenti giapponesi, alla fame e alla guerra civile; in meno di dieci anni la popolazione è più che triplicata, nutrita da immigrati delle campagne divenuti operai.
Quando diventa prefettura autonoma, nel 1997, assorbe le masse sfollate dai villaggi estinti dalla costruzione della Diga delle Tre Gole. Esplode demograficamente, superando la terza decina di milioni, e urbanisticamente: i palazzoni operai si vedono superare dallo slancio megalomane della speculazione del XXI secolo, acciaio e vetro, forme variabili a soddisfare il gusto degli architetti. Anch’essi però vestono grigio, riflettendo i toni dei tre fiumi e del cielo, che pare accordarsi da sé alla scala cromatica.
È dalle 20:00 in poi che la città cambia volto, sfida il tramonto accendendo quasi ogni singolo edificio con giochi di luci che deformano lo skyline fino a renderlo irriconoscibile, un’epifania di estetica alla Blade Runner per l’occhio europeo.
Spettacolo insolito, forse l’immagine più evidente dell’evoluzione cittadina, che ha mutato pelle ancora una volta e, dismessa la tuta dell’operaio di fonderia, veste quella dell’ingegnere Hi-Tech: è a questo che si è votata ora Chongqin, uno degli epicentri dello Sviluppo delle Nuove Forze Produttive di Qualità; definizione sinomarxiana per il processo di ricerca del primato mondiale in fatto di sviluppo tecnologico e intelligenza artificiale.
Gli abitanti hanno smesso di respirare l’aria ammorbata dalle ciminiere, sono uno dei centri propulsivi del ceto medio continentale e hanno convertito, con un gigantesco contributo pubblico, le vecchie fabbriche dismesse in coworking, pub alla moda e centri culturali. Le statue di Mao sorvegliano lo scorrere incessante di una vita che, da quest’altro lato del mondo avevamo imparato ad associare all’eccezionalità newyorkese.
Non è scontato vedere in giro falci e martello e altri emblemi del partito, nonostante la tradizione radicalmente maoista della città. Ciò che compare di più sono gli striscioni rossi di propaganda che sottolineano la campagna statale di ringiovanimento delle aree rurali.
È fuori dalle metropoli invece che è presente il partito, ramificato in sedi e attività parastatali che innervano il tessuto delle campagne. Per governare gli squilibri dello sviluppo economico, dopo aver attinto a piene mani dall’inurbamento – anche forzato – dei contadini; ora si è imposta una linea politica fatta di limitazioni alla libertà di movimento degli abitanti, che non possono più trasferirsi facilmente in città, per prevenire fenomeni di spopolamento, e di investimenti in tecnologie produttive e infrastrutture di servizio alla popolazione.
Fatto il ceto medio, ora si rifanno le campagne.
Interessante che tutto ciò venga messo sotto l’etichetta di Ringiovanimento. Per la prima volta questo paese vede ora una leggera flessione demografica e l’aumento dei suoi anziani, tendenziale effetto dello sviluppo economico che produce benessere e aspirazioni extrafamiliari.
Per avere un’intuizione di cos’è lo spirito di questo paese c’è da considerare lo sguardo di un novantenne: un uomo nato in un paese martoriato dal colonialismo, sotto il tallone di ferro dell’occupazione nipponica. Diventato bambino nel mezzo della guerra civile e fattosi uomo nella costruzione della nazione socialista. Un uomo che ha visto le carestie spezzare intere province e la disciplina collettiva muovere masse e innalzare città. I cui capelli sono ingrigiti tra nubi di smog mentre il suo paese diveniva la fabbrica del mondo, e oggi arriva al capolinea con i figli in carriera e i nipoti ben nutriti in una metropoli sfavillante, frammento di una potenza nazionale che impone al mondo di osservarla finalmente con occhi diversi.
La parabola che l’Occidente ha coperto in quasi tre secoli, lui l’ha attraversata dritta nel solo arco di una vita.
Tre ore di led accecanti e proiezioni pantagrueliche come sfondo dello svago notturno si concludono attorno alle 23:00, quando la città si congeda alla vista lasciando accese manciate di insegne e sporadiche finestre nei grattacieli, ora sinistramente neri come le torri di Mordor, a sorreggere un cielo che ha da tempo scordato l’esistenza delle stelle.
Ma in basso, sotto i lampioni delle strade, prosegue incessante la vita collettiva: carretti che grigliano spiedini e locali che servono noodles in brodo lavorano a pieno regime, bar karaoke sono ben lontani dal cacciare l’ultimo cliente ubriaco, minimarket e laboratori notturni non spengono mai la luce.
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Giochi di guerra italiani nel deserto del Qatar
di Antonio Mazzeo
Il 20 novembre scorso si sé conclusa presso il poligono di Al Qalayil l’esercitazione militare internazionale “Ferocious Falcon 6”, condotta dal ministero della Difesa italiano con personale di Esercito, Marina, Aeronautica e Arma dei Carabinieri, insieme alle forze armate di Francia, Gran Bretagna, Qatar, Stati Uniti e Turchia.
“Giunta alla sesta edizione, l’esercitazione è stata organizzata dalle autorità militari del Qatar e, per l’Italia, dal Comando Operativo di Vertice Interforze (COVI)”, spiega lo Stato Maggiore della Difesa. “L’obiettivo è stato quello di incrementare l’integrazione, l’interoperabilità e la capacità di risposta congiunta nell’area del Golfo”.
I war games sono consistiti in operazioni di “integrazione dei posti di comando” e attività addestrative a fuoco. Nello specifico, uomini e mezzi della Brigata Meccanizzata “Aosta” (con comando e sede in Sicilia) hanno svolto esercitazioni di combattimento in ambiente desertico, con l’impiego di piattaforme terrestri di nuova generazione. In parallelo, l’Aeronautica Militare ha simulato attacchi impiegando i cacciabombardieri “Eurofighter” e i grandi aerei cargo KC-767A per il rifornimento in volo.
“Ferocious Falcon 6” si è conclusa con un seminario internazionale dedicato alle principali sfide militari contemporanee; gli ufficiali italiani sono intervenuti nel panel sulla Guerra Elettronica, “illustrando gli strumenti per la protezione dello spettro elettromagnetico”.
Alla giornata finale erano presenti i vertici delle forze armate qatarine e le delegazioni militari dei Paesi partecipanti (per l’Italia il vicecomandante del COVI, l’ammiraglio Giacinto Sciandra). Ospite d’onore il ministro della Difesa Guido Crosetto, in visita ufficiale in Qatar e negli Emirati Arabi Uniti per rafforzare la cooperazione nel settore militare.
A Doha, Crosetto ha incontrato lo sceicco Saoud bin Abdulrahman Al Thani, vice premier e ministro della Difesa del Qatar.
“Il Qatar è un mediatore che ha svolto un ruolo di primo piano nella crisi di Gaza e sta attualmente mediando in altre crisi, confermandosi un partner capace e affidabile nei processi di dialogo e di de-escalation, in grado di fornire un contributo significativo alla stabilità regionale”, ha enfatizzato Guido Crosetto a conclusione del meeting con Al Thani. “È emersa una comune volontà di consolidare i già profondi legami di amicizia, di lavorare insieme per la pace in Medio Oriente e di rafforzare l’eccellente cooperazione in corso tra le nostre forze armate e l’industria della difesa”.
Ancora più complessa l’esercitazione bilaterale “NASR 2025” condotta nelle prime due settimane di novembre dall’Esercito Italiano e dalle Qatar Emiri Land Forces, ancora una volta nel poligono desertico di Al Qalayil.
La “NASR 2025”, sotto la supervisione dello Stato Maggiore dell’Esercito, ha visto la partecipazione di oltre 500 militari della Brigata Meccanizzata “Aosta” e di altri reparti provenienti da tutta Italia.
“L’attività addestrativa è culminata con un’esercitazione di Gruppo Tattico pluriarma in un contesto warfighting a guida 6° Reggimento bersaglieri, con l’impiego delle nuove piattaforme blindo “Centauro 2” del 6° Reggimento Lancieri di “Aosta”, col supporto di fuoco dei Reggimenti di Artiglieria 8° “Pasubio” e 52° “Torino”, del 4° Guastatori e 6° Pionieri, del 185° Reggimento Paracadutisti e degli aeromobili a pilotaggio remoto (droni) del 3° Reggimento Supporto Targeting “Bondone””, riporta in nota lo Stato Maggiore dell’Esercito.
I war games con le forze terrestri dell’Emirato sono state un’importante occasione per testare e proporre al florido mercato del Medio Oriente alcuni dei nuovi sistemi d’arma prodotti dalle aziende leader del comparto militare industriale nazionale.
“Durante tutto il periodo di permanenza in Qatar è stata condotta, a cura del Comando Valutazione e Innovazione dell’Esercito (COMVIE), un’intensa attività di sperimentazione sul campo di una serie di tecnologie attualmente ritenute di forte interesse per l’incremento delle capacità operative della Forza Armata”, spiegano i vertici dell’Esercito.
In particolare, in occasione delle esercitazioni a fuoco sono stati impiegati, oltre ai blindo da combattimento 8×8 “Centauro 2” del Consorzio CIO (IVECO-Oto Melara), i nuovi munizionamenti di artiglieria a lunga gittata per obici da 155mm “Vulcano”, prodotti negli stabilimenti di Leonardo SpA. “Organizzata dal IV Reparto Logistico dell’Esercito, l’attività di validazione ha messo in luce l’efficacia del munizionamento, che può attingere obiettivi posti a oltre settanta chilometri di distanza”, aggiunge lo Stato Maggiore. “Nella versione a guida GPS a lungo raggio, il “Vulcano” ha messo in evidenza l’eccezionale precisione sui punti determinati da un Team di Forze Speciali del 185° Reggimento Acquisizione Obiettivi”.
In occasione di “NASR 2025” sono stati massicciamente impiegati pure i nuovi obici semoventi PZH 2000 da 155/52mm, che l’Esercito italiano ha acquistato dal consorzio tedesco formato dalle aziende Krauss-Maffei Weggmann e Rheinmetall. Verificata sul campo di battaglia anche “l’efficacia” dello scambio rapido delle informazioni e l’integrazione dei sistemi di Comando e Controllo (C2) e di gestione del fuoco di diversa tipologia, schierati in Qatar, a Bracciano (Roma) e nel poligono di Monte Romano (Viterbo), grazie ai collegamenti satellitari digitali realizzati dal 2° Reggimento Trasmissioni Alpino di stanza a Bolzano.
Anche la Marina Militare italiana ha rafforzato la propria presenza in Qatar nel corso dell’ultimo anno. A metà giugno, la fregata missilistica “Antonio Marceglia” (unità del progetto multi-missione italo-francese FREMM, realizzata da Fincantieri SpA) ha effettuato una sosta tecnico-logistica nel porto di Doha. “L’importanza di questo passaggio in Qatar è cruciale: tra i Paesi europei, l’Italia è il primo partner commerciale dell’emirato, dove le aziende tricolori sono protagoniste da tempo”, scrive con malcelata enfasi lo Stato Maggiore della Marina.
La sosta nella capitale qatarina si è rivelata strategica per promuovere obici e cannoni navali, sistemi radar e tecnologie elettroniche Made in Italy. “Questa nave è ambasciatrice di tecnologia, know how, eccellenza del Sistema-Paese Italia”, ha dichiarato Paolo Toschi, ambasciatore d’Italia in Qatar, in visita alla fregata missilistica. “Il confronto tra il mondo militare italiano e quello qatariano è una costante della crescita del legame fra i due Paesi, con un percorso unito di interscambi, esercitazioni, confronti, programmi educativi e, naturalmente, progetti industriali di rilievo”.
A marzo 2025 era stata un’altra fregata multi-missione FREMM – la “Luigi Rizzo” – ad approdare a Doha. “La sosta di Nave Rizzo è un’importante occasione per favorire lo scambio di esperienze, rafforzare i legami istituzionali e promuovere un dialogo costruttivo sui temi della difesa e della sicurezza”, riportava con l’immancabile enfasi il Comando della Marina Militare italiana. “La presenza della Fregata in Qatar è parte delle attività di cooperazione internazionale della Difesa. L’obiettivo è rafforzare la sinergia con le forze armate del Qatar nelle operazioni di sicurezza marittima, con particolare attenzione alla protezione delle rotte commerciali e alla stabilità regionale”.
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Il 20 novembre scorso si sé conclusa presso il poligono di Al Qalayil l’esercitazione militare internazionale “Ferocious Falcon 6”, condotta dal ministero della Difesa italiano con personale di Esercito, Marina, Aeronautica e Arma dei Carabinieri, insieme alle forze armate di Francia, Gran Bretagna, Qatar, Stati Uniti e Turchia.
“Giunta alla sesta edizione, l’esercitazione è stata organizzata dalle autorità militari del Qatar e, per l’Italia, dal Comando Operativo di Vertice Interforze (COVI)”, spiega lo Stato Maggiore della Difesa. “L’obiettivo è stato quello di incrementare l’integrazione, l’interoperabilità e la capacità di risposta congiunta nell’area del Golfo”.
I war games sono consistiti in operazioni di “integrazione dei posti di comando” e attività addestrative a fuoco. Nello specifico, uomini e mezzi della Brigata Meccanizzata “Aosta” (con comando e sede in Sicilia) hanno svolto esercitazioni di combattimento in ambiente desertico, con l’impiego di piattaforme terrestri di nuova generazione. In parallelo, l’Aeronautica Militare ha simulato attacchi impiegando i cacciabombardieri “Eurofighter” e i grandi aerei cargo KC-767A per il rifornimento in volo.
“Ferocious Falcon 6” si è conclusa con un seminario internazionale dedicato alle principali sfide militari contemporanee; gli ufficiali italiani sono intervenuti nel panel sulla Guerra Elettronica, “illustrando gli strumenti per la protezione dello spettro elettromagnetico”.
Alla giornata finale erano presenti i vertici delle forze armate qatarine e le delegazioni militari dei Paesi partecipanti (per l’Italia il vicecomandante del COVI, l’ammiraglio Giacinto Sciandra). Ospite d’onore il ministro della Difesa Guido Crosetto, in visita ufficiale in Qatar e negli Emirati Arabi Uniti per rafforzare la cooperazione nel settore militare.
A Doha, Crosetto ha incontrato lo sceicco Saoud bin Abdulrahman Al Thani, vice premier e ministro della Difesa del Qatar.
“Il Qatar è un mediatore che ha svolto un ruolo di primo piano nella crisi di Gaza e sta attualmente mediando in altre crisi, confermandosi un partner capace e affidabile nei processi di dialogo e di de-escalation, in grado di fornire un contributo significativo alla stabilità regionale”, ha enfatizzato Guido Crosetto a conclusione del meeting con Al Thani. “È emersa una comune volontà di consolidare i già profondi legami di amicizia, di lavorare insieme per la pace in Medio Oriente e di rafforzare l’eccellente cooperazione in corso tra le nostre forze armate e l’industria della difesa”.
Ancora più complessa l’esercitazione bilaterale “NASR 2025” condotta nelle prime due settimane di novembre dall’Esercito Italiano e dalle Qatar Emiri Land Forces, ancora una volta nel poligono desertico di Al Qalayil.
La “NASR 2025”, sotto la supervisione dello Stato Maggiore dell’Esercito, ha visto la partecipazione di oltre 500 militari della Brigata Meccanizzata “Aosta” e di altri reparti provenienti da tutta Italia.
“L’attività addestrativa è culminata con un’esercitazione di Gruppo Tattico pluriarma in un contesto warfighting a guida 6° Reggimento bersaglieri, con l’impiego delle nuove piattaforme blindo “Centauro 2” del 6° Reggimento Lancieri di “Aosta”, col supporto di fuoco dei Reggimenti di Artiglieria 8° “Pasubio” e 52° “Torino”, del 4° Guastatori e 6° Pionieri, del 185° Reggimento Paracadutisti e degli aeromobili a pilotaggio remoto (droni) del 3° Reggimento Supporto Targeting “Bondone””, riporta in nota lo Stato Maggiore dell’Esercito.
I war games con le forze terrestri dell’Emirato sono state un’importante occasione per testare e proporre al florido mercato del Medio Oriente alcuni dei nuovi sistemi d’arma prodotti dalle aziende leader del comparto militare industriale nazionale.
“Durante tutto il periodo di permanenza in Qatar è stata condotta, a cura del Comando Valutazione e Innovazione dell’Esercito (COMVIE), un’intensa attività di sperimentazione sul campo di una serie di tecnologie attualmente ritenute di forte interesse per l’incremento delle capacità operative della Forza Armata”, spiegano i vertici dell’Esercito.
In particolare, in occasione delle esercitazioni a fuoco sono stati impiegati, oltre ai blindo da combattimento 8×8 “Centauro 2” del Consorzio CIO (IVECO-Oto Melara), i nuovi munizionamenti di artiglieria a lunga gittata per obici da 155mm “Vulcano”, prodotti negli stabilimenti di Leonardo SpA. “Organizzata dal IV Reparto Logistico dell’Esercito, l’attività di validazione ha messo in luce l’efficacia del munizionamento, che può attingere obiettivi posti a oltre settanta chilometri di distanza”, aggiunge lo Stato Maggiore. “Nella versione a guida GPS a lungo raggio, il “Vulcano” ha messo in evidenza l’eccezionale precisione sui punti determinati da un Team di Forze Speciali del 185° Reggimento Acquisizione Obiettivi”.
In occasione di “NASR 2025” sono stati massicciamente impiegati pure i nuovi obici semoventi PZH 2000 da 155/52mm, che l’Esercito italiano ha acquistato dal consorzio tedesco formato dalle aziende Krauss-Maffei Weggmann e Rheinmetall. Verificata sul campo di battaglia anche “l’efficacia” dello scambio rapido delle informazioni e l’integrazione dei sistemi di Comando e Controllo (C2) e di gestione del fuoco di diversa tipologia, schierati in Qatar, a Bracciano (Roma) e nel poligono di Monte Romano (Viterbo), grazie ai collegamenti satellitari digitali realizzati dal 2° Reggimento Trasmissioni Alpino di stanza a Bolzano.
Anche la Marina Militare italiana ha rafforzato la propria presenza in Qatar nel corso dell’ultimo anno. A metà giugno, la fregata missilistica “Antonio Marceglia” (unità del progetto multi-missione italo-francese FREMM, realizzata da Fincantieri SpA) ha effettuato una sosta tecnico-logistica nel porto di Doha. “L’importanza di questo passaggio in Qatar è cruciale: tra i Paesi europei, l’Italia è il primo partner commerciale dell’emirato, dove le aziende tricolori sono protagoniste da tempo”, scrive con malcelata enfasi lo Stato Maggiore della Marina.
La sosta nella capitale qatarina si è rivelata strategica per promuovere obici e cannoni navali, sistemi radar e tecnologie elettroniche Made in Italy. “Questa nave è ambasciatrice di tecnologia, know how, eccellenza del Sistema-Paese Italia”, ha dichiarato Paolo Toschi, ambasciatore d’Italia in Qatar, in visita alla fregata missilistica. “Il confronto tra il mondo militare italiano e quello qatariano è una costante della crescita del legame fra i due Paesi, con un percorso unito di interscambi, esercitazioni, confronti, programmi educativi e, naturalmente, progetti industriali di rilievo”.
A marzo 2025 era stata un’altra fregata multi-missione FREMM – la “Luigi Rizzo” – ad approdare a Doha. “La sosta di Nave Rizzo è un’importante occasione per favorire lo scambio di esperienze, rafforzare i legami istituzionali e promuovere un dialogo costruttivo sui temi della difesa e della sicurezza”, riportava con l’immancabile enfasi il Comando della Marina Militare italiana. “La presenza della Fregata in Qatar è parte delle attività di cooperazione internazionale della Difesa. L’obiettivo è rafforzare la sinergia con le forze armate del Qatar nelle operazioni di sicurezza marittima, con particolare attenzione alla protezione delle rotte commerciali e alla stabilità regionale”.
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Ritirare l’Italia da Eurovision 2026: USB Rai lancia la raccolta firme
La “tregua” di Trump ha mostrato da tempo la sua vera natura: una trappola attraverso cui imbrigliare Gaza in uno stillicidio continuo di attacchi, mentre oltre la metà della Striscia torna sotto occupazione, con i palestinesi che non possono nemmeno reagire senza incappare nell’accusa di violazione del cessate il fuoco. Intanto, in Cisgiordania continuano gli omicidi extragiudiziali, la colonizzazione, la costruzione di barriere per rubare più territori, frammentare e annettere de facto la regione.
Eppure, tutta la classe dirigente sionista e filosionista a livello internazionale ha approfittato di questa parvenza di pace per organizzare un feroce contrattacco alle mobilitazioni in solidarietà con il popolo palestinese. Da una parte, il tentativo di cancellare ogni dissenso verso le politiche israeliane con l’equiparazione per legge tra antisionismo e antisemitismo. Dall’altra, l’ulteriore normalizzazione del genocidio attraverso la legittimazione di Israele in eventi sportivi e culturali internazionali.
I solidali con la Palestina hanno risposto con campagne come “Show Israel the Red Card” e con lettere aperte per l’esclusione di Israele dalla UEFA, ad esempio. Sul lato delle manifestazioni culturali, l’assemblea generale dello European Broadcasting Union ha deciso di non escludere Israele dall’Eurovision Song Contest. La Rai ha persino sostenuto la partecipazione dell’emittente pubblica israeliana KAN alla prossima edizione.
È evidente l’impegno del governo italiano nello zittire la voce di chi sostiene il popolo palestinese nella propria resistenza. Per questo, dopo le defezioni di alcuni paesi, il boicottaggio della partecipazione italiana fino all’esclusione della compagine israeliana sarebbe un duro colpo all’opera di mistificazione dei sionisti.
L’Unione Sindacale di Base – Coordinamento Rai ha lanciato una petizione online proprio con questo obiettivo. Riportiamo il testo di lancio qui sotto, insieme alla risposta di adesione all’appello scritta dal Circolo Gap di Roma. Qui la petizione.
Eppure, tutta la classe dirigente sionista e filosionista a livello internazionale ha approfittato di questa parvenza di pace per organizzare un feroce contrattacco alle mobilitazioni in solidarietà con il popolo palestinese. Da una parte, il tentativo di cancellare ogni dissenso verso le politiche israeliane con l’equiparazione per legge tra antisionismo e antisemitismo. Dall’altra, l’ulteriore normalizzazione del genocidio attraverso la legittimazione di Israele in eventi sportivi e culturali internazionali.
I solidali con la Palestina hanno risposto con campagne come “Show Israel the Red Card” e con lettere aperte per l’esclusione di Israele dalla UEFA, ad esempio. Sul lato delle manifestazioni culturali, l’assemblea generale dello European Broadcasting Union ha deciso di non escludere Israele dall’Eurovision Song Contest. La Rai ha persino sostenuto la partecipazione dell’emittente pubblica israeliana KAN alla prossima edizione.
È evidente l’impegno del governo italiano nello zittire la voce di chi sostiene il popolo palestinese nella propria resistenza. Per questo, dopo le defezioni di alcuni paesi, il boicottaggio della partecipazione italiana fino all’esclusione della compagine israeliana sarebbe un duro colpo all’opera di mistificazione dei sionisti.
L’Unione Sindacale di Base – Coordinamento Rai ha lanciato una petizione online proprio con questo obiettivo. Riportiamo il testo di lancio qui sotto, insieme alla risposta di adesione all’appello scritta dal Circolo Gap di Roma. Qui la petizione.
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Spagna, Irlanda, Slovenia e Paesi Bassi hanno preso una decisione coraggiosa: non parteciperanno alla 70esima edizione del Eurovision Song Contest, che si terrà a Vienna a maggio 2026. Questi paesi, inoltre, hanno scelto di non trasmettere la finale sui loro canali televisivi nazionali: la loro decisione è stata presa in seguito alla conferma della partecipazione di Israele da parte dell’EBU.
È giunto il momento che anche l’Italia prenda una posizione forte e simbolica contro il genocidio ancora in corso in Palestina attraverso la RAI. Come USB – Coordinamento RAI riteniamo che ritirare l’Italia da Eurovision 2026 manderebbe un chiaro segnale di dissenso, unendo la nostra nazione al gruppo crescente di paesi che scelgono di dissociarsi pubblicamente dalle azioni del governo israeliano.
Israele è stato recentemente al centro di numerose critiche internazionali riguardanti le sue azioni genocide nei confronti della popolazione palestinese. In questo contesto, partecipare a un evento che continua a ospitare Israele equivarrebbe ad un tacito assenso a queste politiche.
Ritirando l’Italia da Eurovision e decidendo di non trasmettere la manifestazione, la RAI non solo prenderebbe una posizione eticamente ed empaticamente giustificabile, ma fornirebbe anche un esempio da leader morale sulla scena internazionale. Un gesto di questo tipo dimostrerebbe quanto l’Italia tenga ai valori di dignità umana, uguaglianza e giustizia per tutti i popoli. Faremmo risuonare la nostra voce a livello globale, dimostrando che non chiudiamo gli occhi di fronte alle ingiustizie.
Chiediamo pertanto alla RAI di ritirare l’Italia dal Eurovision Song Contest 2026 e di unirsi agli altri paesi che si sono già dissociati. Firma questa petizione e facciamo sentire la nostra voce per un cambiamento significativo ed etico.
USB – Coordinamento Rai
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Israele parteciperà all’Eurovision: RITIRARE L’ITALIA DAL FESTIVAL!
Parte il boicottaggio: Spagna, Irlanda, Paesi Bassi e Slovenia si ritirano dalla competizione musicale dopo l’ammissione di Israele.
Come circolo culturale GAP, non possiamo tacere. L’Eurovision si presenta da sempre come un grande rituale di inclusività, fratellanza e libertà, ma in realtà riproduce la logica dell’industria culturale: spettacolo senza conflitto, diversità estetizzata e depoliticizzata, musica trasformata in brand identity. Un evento che neutralizza ogni forma di dissenso e trasforma la cultura in un prodotto perfettamente compatibile con gli interessi economici e geopolitici dominanti.
In questo contesto, la partecipazione di Israele non è un semplice “dettaglio tecnico”: è la prova che la neutralità dell’Eurovision è una finzione. La stessa European Broadcasting Union che ha escluso altri paesi per motivi politici continua a fare eccezione per Israele, nonostante le violazioni documentate del diritto internazionale, il genocidio in Palestina e la repressione sistematica del popolo palestinese.
Anche in Italia la situazione è grave. L’assenza di segnali di dissenso da parte del governo Meloni e anzi appoggio tramite scelte politiche chiare come quelle dei continui tagli alla cultura per finanziare la guerra, il riarmo e il genocidio, la normalizzazione della presenza israeliana e la mozione del PD che equipara antisionismo ad antisemitismo, rendono il nostro paese complice dei crimini israeliani. Un esempio recente è il Festival di Sanremo, dove la partecipazione di cantanti israeliane — una di origini palestinesi — ha contribuito ad una mistificazione che in alcun modo condanna Israele e il suo regime di Apartheid e Genocidio.
Le mobilitazioni e gli scioperi iniziati il 22 settembre lo hanno dimostrato chiaramente: non vogliamo che l’Italia continui a legittimare questi crimini anche nei luoghi della cultura e dello spettacolo. Per questo, come circolo GAP, aderiamo e rilanciamo l’appello lanciato da USB RAI che chiede il ritiro del nostro paese dall’Eurovision finché Israele sarà presente come concorrente. Non un centimetro di spazio a chi porta sul palco la bandiera di un genocidio, anche dietro la retorica dell’intrattenimento “neutrale”.
Per noi, la cultura non è neutra. È responsabilità e scelta. Non può farsi complice di ingiustizie o di genocidi. La musica, il teatro, il cinema e tutti i luoghi di cultura devono essere spazi di consapevolezza, critica e denuncia.
Continueremo a farlo: dalla parte della Palestina, dalla parte di una cultura popolare, critica ed emancipatoria. Firmiamo e diffondiamo l’appello: ritirare l’Italia dall’Eurovision finché Israele sarà tra i concorrenti.
Circolo Gap
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