07/06/2025
Referendum 8-9 giugno: 5 SÌ contro lo sfruttamento. Ma solo la lotta cambia i rapporti di forza
USB sostiene il voto per 5 SÌ. Lo facciamo senza ipocrisie né deleghe.
Non dimentichiamo chi ha lasciato approvare il Jobs Act in silenzio, chi ha accettato in cambio di pochi spicci le leggi sulla precarietà, chi ha gestito con il cappello in mano le stagioni delle delocalizzazioni e dello sfruttamento.
Oggi molti di quegli stessi attori si ripresentano come promotori di una riscossa referendaria.
Ma la riscossa vera si costruisce nel conflitto sociale organizzato, non nelle cabine elettorali.
La verità è che questi quesiti non sono neutri né interclassisti: parlano il linguaggio del lavoro sfruttato, dei giovani costretti alla partita IVA, delle famiglie che vivono nel ricatto continuo degli appalti, dei migranti a cui si nega perfino il diritto a esistere.
Per questo non possiamo permettere che l’astensione consegni ai padroni e alla destra la narrazione che “va tutto bene così”.
Votare SÌ non basta, ma è necessario.
Per questo USB invita lavoratrici e lavoratori, giovani, migranti, disoccupati, a partecipare e a votare 5 volte SÌ.
Ma non ci illudiamo: il referendum non è il punto di arrivo, è solo un passaggio.
La vera sfida si gioca nei luoghi di lavoro, nelle vertenze, nella costruzione di un’alternativa politica e sindacale all’altezza del tempo che viviamo. Ecco perché USB ha proclamato lo sciopero generale di tutte le categorie per il 20 giugno.
Ecco perché il 21 giugno saremo a Roma con una manifestazione nazionale che vuole rimettere al centro il conflitto, i bisogni popolari, la difesa del lavoro, dei salari, dei servizi pubblici, della pace e dei diritti sociali.
Sì al referendum. Ma soprattutto sì alla lotta.
20 giugno: sciopero generale.
21 giugno: tutti e tutte a Roma, ore 14:00 Piazza Vittorio Emanuele.
Solo il conflitto può cambiare i rapporti di forza.
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Cosa cercava il poliziotto infiltrato in Potere al Popolo?
L’agente si è aggregato a Potere al Popolo attraverso il Cau, articolazione universitaria legata a Pap. Ma da fine gennaio del 2025 ha iniziato a partecipare, come delegato degli studenti universitari, alle riunioni della Rete Set, per il diritto all’abitare.
È in questo campo che il poliziotto sembra avesse fatto un vero e proprio investimento di tempo e di attenzione. Ecco la testimonianza di Chiara Capretti, consigliera della Municipalità 2 del Comune di Napoli per Potere al Popolo, e attivista per il diritto all’abitare:
“Lui ha iniziato a frequentare le riunioni poco dopo l’inizio dell’anno, da allora non è mai mancato ad una riunione. E’ stato attivissimo, interveniva in assemblea e sembrava anche molto preparato sul tema, cosa che vista la sua giovane età, ha sorpreso molto. Ricordo che anche quando facemmo degli incontri con degli urbanisti esperti, lui partecipava intervenendo ed interagendo. A posteriori non posso che pensare che avesse fatto davvero un investimento in questo ambito, voleva diventare un punto di riferimento”.
Ma oltre alle assemblee, ai volantinaggi ed alle manifestazioni, presenziava anche al blocco degli sfratti, ma soprattutto era molto propositivo. “Spingeva per fare azioni concrete, soprattutto sul tema della lotta alla turistificazione, contro l’aggressione al patrimonio immobiliare da parte di B&B e case vacanze. Anche rispetto ad azioni più forti, si diceva favorevole”, spiega Capretti.
Un episodio molto strano si era verificato nel mese di febbraio 2025, quando a seguito di uno sfratto esecutivo che aveva colpito una famiglia nel quartiere di Montesanto, gli attivisti decidono per il giorno successivo di fare un blitz di protesta all’ufficio casa del Comune di Napoli.
“Quando è stata discussa l’iniziativa c’era anche lui, eravamo pochissimi, una decina di persone. Non se ne è più parlato, né al telefono e nemmeno nelle chat, anche perché era programmata per il giorno successivo. Quando all’indomani ci siamo recati alla sede dell’ufficio casa l’abbiamo trovato chiuso e con gli agenti della Digos sotto al palazzo. Una circostanza assai strana proprio perché era stata decisa in pochissimo tempo e senza discuterne altrove se non in presenza”, spiega la consigliera di Potere al Popolo.
Una grande attenzione è stata prestata dal poliziotto anche in occasione di un report, fatto in riunione da Chiara Capretti, di ritorno dall’assemblea europea dei movimenti per il diritto all’abitare. “Ad Aprile ho partecipato a Barcellona ad un meeting europeo dei movimenti per il diritto all’abitare, al mio ritorno ho relazionato in riunione. In quella circostanza lui era attentissimo, ci teneva a capire quali movimenti avessero partecipato, da quali paesi e per l’Italia da quali città”.
Poi all’inizio di maggio la scoperta della sua vera identità e quindi l’allontanamento da Potere al Popolo ha determinato la fine dalla sua presunta copertura.
Nelle riunioni del Collettivo autorganizzato universitario il suo atteggiamento invece è stato completamente diverso dall’ambito del diritto all’abitare. Secondo Maria: “Era presente in tutte le iniziative materiali, attacchinaggi, manifestazioni, presidi, partecipava alle riunioni ma non interveniva mai, anzi passava molto tempo a giocare al telefono mentre facevamo le riunioni”. Grande attenzione alle “cose materiali”, quindi, da parte del poliziotto, ma un atteggiamento distratto nei momenti di confronto.
Proprio per questo nei ricordi di diversi sono rimaste alcune sue domande insistenti che sono sembrate anomale rispetto al personaggio che si era costruito. “Verso la fine del 2024, durante una discussione interna sui rapporti tra le realtà di movimento e Potere al popolo, si inserì in una discussione chiedendo insistentemente chi fossero i vertici di “Cambiare rotta” di Roma. Un atteggiamento strano, anche perché lo chiese più volte, voleva sapere i nomi. Risposi io dicendogli che non c’era un capo, ma c’erano tanti compagni senza fare nessun nome”.
“Cambiare rotta” è una rete di collettivi molto legata a Potere al Popolo. Il termine “vertici”, abbastanza inusuale per il contesto politico, meravigliò molti, ma fu preso come un errore di lessico politico.
Ma non fu l’unico episodio, ci racconta Maria. “In un’altra occasione, stavamo organizzando la presentazione del libro “Torri d’avorio” dell’antropologa Maya Wind, discutevamo del fatto che era in atto un tour di presentazioni in Italia. Anche in quel caso, lui che stava sempre zitto alle riunioni, disse che probabilmente ‘Cambiare rotta’ di Roma avrebbe organizzato una presentazione e che conveniva mettersi d’accordo. Ebbi l’impressione che si volesse proporre come tramite per tenere i rapporti. Non se ne fece nulla e andammo avanti con l’organizzazione della presentazione”.
Un’attenzione particolare quindi veniva dedicata all’ambito giovanile di Potere al Popolo. Per il resto il poliziotto mostrava interesse per le dinamiche più radicali, come blitz, manifestazioni e robe simili. “In più occasioni si propose o venne scelto come responsabile per azioni di piazza, ma puntualmente non si presentava. La scusa più ricorrente era quella della presenza della sua fidanzata a Napoli che era molto gelosa e che non gradiva il contesto politico che lui frequentava”.
Per il resto la sua attività si caratterizzava per una totale assenza dai momenti conviviali e più spensierati, come la vita di gruppo, le uscite insieme. Aveva una socialità riservata che non condivideva con gli altri. “Il fine settimana diceva che tornava in Puglia, non lo vedevamo mai. Mai un compleanno, mai un sabato sera insieme. Il che strideva con la sua iper presenza in tutti gli appuntamenti militanti. Parlava molto di più con gli uomini, spesso di calcio, piuttosto che con le ragazze”. Ed è stata proprio l’assenza di una socialità condivisa che ha fatto scattare i sospetti sul poliziotto, fino alla scoperta della sua vera identità.
Pretendiamo risposte dal Governo su questa vicenda che lede il diritto di associazione. Chiediamo a tutte e tutti di attivarsi perché in gioco non c’è solo Potere al Popolo ma la tenuta della nostra democrazia.
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06/06/2025
Proletariato intellettuale e lavoro manuale nella fabbrica dei sogni
di Sandro Moiso
David Mamet, Bambi contro Godzilla. Teoria e pratica dell’industria cinematografica, Edizioni minimum fax, Roma 2025, pp. 300, 18 euro
In un grande studio cinematografico, chi seleziona veramente le sceneggiature da trasformare in film? Come si sottopone un soggetto a un produttore? Quali sono gli ingredienti per una perfetta scena di inseguimento? Come mai nei titoli compaiono così tanti produttori? E soprattutto: cosa diamine fanno, esattamente? Sono domande che tutti i cultori del cinema, ma anche i semplici spettatori devono essersi posti almeno una volta e a cui David Mamet cerca di dare risposta all’interno del testo appena tradotto da Giuliana Lupi per le edizioni minimum fax.
David Mamet, nato a Chicago il 30 novembre del 1947, con ironia e perspicacia, fornisce risposte dirette, illuminanti e spesso sconcertanti a tali domande, rivelando allo stesso tempo le disfunzioni e i processi reali dell’industria cinematografica, la più grande e redditizia «macchina dei sogni» del pianeta. Mamet, di cui minimum fax ha già pubblicato in precedenza Note in margine di una tovaglia. Scrivere (e vivere) per il cinema e per il teatro (2012) e I tre usi del coltello. Saggi e lezioni sul cinema (2023), può farlo perché ha ricoperto praticamente tutti i ruoli più importanti che ruotano intorno alla “settima arte”: sceneggiatore, regista, attore, produttore, dedicando tutta la sua vita al cinema e alla scrittura.
È stato infatti lo sceneggiatore di film celebri come Il postino suona sempre due volte di Bob Rafelson (1981), Il verdetto di Sidney Lumet (1982), Gli intoccabili di Brian De Palma (1987) e Hannibal di Ridley Scott (2001), solo per citarne alcuni, ma complessivamente ha al suo attivo 28 film (di 9 dei quali è stato anche regista), 34 opere teatrali, 3 fiction per la televisione, 21 saggi, 2 raccolte di poesie, 5 libri per bambini, 11 canzoni. Mentre il suo primo importante riconoscimento era arrivato con l’opera tetrale Glengarry Glen Ross, una feroce rappresentazione del mondo degli affari americano, vincitrice del Premio Pulitzer nel 1984 e dalla quale avrebbe poi tratto la sceneggiatura per il film Americani, con Al Pacino, Jack Lemmon, Alec Baldwin e Kevin Spacey nel 1992.
Tutto questo, però, non è stato qui ricordato soltanto per sottolineare il medagliere dell’autore e l’importanza della sua personalità per il mondo del cinema statunitense, ma piuttosto per sottolineare come i suoi saggi sul mondo del cinema e della scrittura cinematografica affondino le loro radici in una vasta e pluridecennale esperienza e una profonda conoscenza dello stesso ambiente culturale, economico e sociale che lo circonda e permea.
In tempi di dazi trumpiani che mettono in risalto come i prodotti del cinema non siano in fondo che merci e prodotti destinati al consumo di massa e in un paese, l’Italia, in cui si parla, troppo spesso e senza riguardo per la realtà, di “cinema d’autore”, Mamet si rivela utilissimo, lui che certamente “autore” è stato sia come sceneggiatore che come regista, per comprendere i meccanismi di quella che, in fin dei conti, non è altro che la più importante industria dell’immaginario collettivo, cosa già compresa all’inizio del XX secolo da rivoluzionari come Lenin e Trockij1.
Ma, probabilmente, non ancora qui da noi: in un ambiente socioculturale in cui non solo le tv, pubbliche e private, ma anche le sale cinematografiche snobbano quasi sempre i titoli di coda dei film tagliandoli o eliminandoli del tutto, quasi che il film fosse una sorta di magico prodotto del pensiero dei registi e degli sceneggiatori più celebri oppure, ancor peggio, della fisicità degli attori e delle attrici. Contribuendo così a coltivare nel pubblico il mito borghese e fetente dell’individuo e della sua “creatività”, avulso comunque dai processi della produzione sociale e della collaborazione collettiva. Continuando a separare il lavoro intellettuale da quello manuale, per mera convenienza ideologica di classe, mentre il prodotto di qualsiasi attività umana non deriva che dalla sintesi concretizzante tra i due2.
Non è un caso quindi che il saggio di Mamet inizi proprio da lì, dall’ambiente cinematografico come “fabbrica” in cui il contributo di tutti (operai, costumisti, scenografi, fotografi, attrezzisti, fonici, elettricisti, falegnami, tecnici degli effetti speciali, facchini, montatori, segretarie e segretari di produzione e tanti altri ancora) è fondamentale per la riuscita dell’impresa. Proprio per evitare quell’ignominia del ricordare i marchi delle auto o delle merci senza ricordare la manodopera che ha contribuito a realizzarle oppure le grandi battaglie parlando soltanto dei generali e dei “condottieri” senza ricordare i soldati che le hanno combattute sul campo e le loro sofferenze.
Certo, per gli amanti del “cinema d’autore” così come per i filosofi del demiurgo borghese, è utile alimentarne il culto rimuovendo il sudore, le fatiche, i sacrifici e i contributi, spesso altrettanto creativi, delle maestranza sui suoi luoghi di produzione come Hollywood o Cinecittà, ma non lo è per Mamet che, invece, vuole proprio sottolineare sia il contributo degli “altri” che le pecche dello star system e dei suoi “eroi” e delle sue “eroine”.
Lo diceva Billy Wilder: sai di aver finito di dirigere quando non ti reggono più le gambe [...] Ma si affronta il giorno o la notte con un senso di responsabilità verso i propri collaboratori e con il terrore di deluderli. Perché la gente che lavora a un film si spacca il culo.
L’attore protagonista può protestare, e spesso lo fa. Viene coccolato. Giustificato e incoraggiato (con tanto di compenso in denaro) a coltivare la mancanza di controllo dei suoi impulsi. Quando la star fa una scenata [...] la troupe rimane impassibile e il regista, io, osserva quello straordinario autocontrollo e pensa: «Ti ringrazio, Signore, di questa lezione».
Il regista, gli attori, il produttore e lo sceneggiatore sono sopra la riga, tutti gli altri sotto.
Esiste un sistema a due livelli nel cinema, proprio come nell’esercito. Chi sta sopra la riga si presume contribuisca al finanziamento o ai potenziali proventi del film molto più delle «maestranze» – cioè i tecnici – che lavorano sul set, in ufficio o nei laboratori.
[...] Parlavo di cattivi comportamenti, qualche film fa, con l’attrezzista capo. Lui mi raccontò di aver lavorato con una star maleducata che, per rallegrare l’atmosfera o in un eccesso di buonumore, si era messa a ballare con gli anfibi sul tetto di una Mercedes nuova di zecca. «Fece quasi diecimila dollari di danni», mi disse, «e ci rimasi davvero male, perché avevo rinunciato al mio giorno libero per cercare un attrezzo di scena: neanche ero pagato».
In alcuni divi non c’è solo belligeranza, ma anche la tendenza a litigare. Ne ho visto uno misurare con un metro a nastro la propria roulotte perché sospettava che non fosse perfettamente uguale (come da contratto) a quella del suo coprotagonista.
E intanto l’attrezzista rinuncia al suo giorno libero per garantire che, lunedì, il portafoglio, il coltello, la valigetta o l’orologio siano perfetti.
Questo, secondo la mia esperienza, non è un esempio isolato, bensì la norma nel mondo del cinema. Mentre la star esce in ritardo dalla sua roulotte, mentre il produttore sbraita al cellulare gridando oscenità all’assistente che, con ogni probabilità, ha fatto un errore nel prenotargli il ristorante, la gente sul set dà il massimo per realizzare un film perfetto. Non credo di esagerare.
[...] Alcuni uomini d’affari ritengono di poter realizzare un film perfetto (vale a dire con un buon ritorno economico) in generale, facendo a meno del rispetto, dell’abilità o dell’umiltà necessari, e ispirati e sostenuti soltanto dall’amore per il denaro.
[...] Mi torna in mente il vecchi adagio: in migliaia hanno lavorato negli anni per erigere le cattedrali, e nessuno ha messo il proprio nome su una sola di quelle costruzioni.
Noi, ovviamente, apprezziamo il film per il lavoro degli identificabili, gli attori, ma non potremmo goderne se non fosse per il lavoro degli anonimi, la troupe.
[...] Mentre riflettevo su questo, pensando alla star, pagata venti milioni di dollari che rovina il tetto di un’auto, e all’attrezzista, pagato ventimila dollari, che rinuncia al suo giorno libero per la riuscita dell’opera, credo di aver iniziato davvero a capire la teoria marxista del plusvalore. Domanda: di chi è il film? Passate una giornata sul set e lo saprete3.
Il saggio di Mamet parla di molto altro ancora e può funzionare come autentico viatico per chiunque voglia avvicinarsi al cinema anche da un punto di vista professionale, occupandosi di produzione, sceneggiatura (e di come presentarla) oppure di come siano state realizzate le migliori scene di film di azione o di guerra e perché, ma è l’attenzione rivolta al lavoro “anonimo” oppure al tentativo di Ronald Reagan di distruggere il movimento sindacale americano per abbassare i costi del lavoro, compreso quello delle troupe cinematografiche, per impedire il trasferimento delle attività produttive all’estero e a minor costo, che fa di questo saggio un testo da cui davvero non si può prescindere per comprendere, con i piedi saldamente piantati in terra, quali siano le basi materiali della “creazione” dell’immaginario contemporaneo.
In cui, però, come ricorda proprio in apertura l’autore, la standardizzazione della produzione industriale di stampo ancora fordista, spinge a ridurre sia la qualità del prodotto che quella delle attività di quel proletariato intellettuale di cui lo sciopero lungo degli sceneggiatori hollywoodiani ha rappresentato la più concreta e visibile manifestazione dello scontento.
Tutti i fiumi sfociano nel mare. Eppure il mare non si riempie. Il cinema, nato come l’ultima trovata commerciale in fatto di divertimento popolare, sembra essere tornato al punto di partenza. I giorni della sceneggiatura volgono al termine. Al suo posto troviamo una premessa alla quale appiccicare le varie gag. Questi eventi, che una volta non erano che ornamenti della storia vera e propria, sono ormai quasi l’unica ragione d’essere del film. Nei thriller gli eventi sono le scene d’azione e le esplosioni; nei film dell’orrore gli squartamenti; nei film polizieschi e di guerra le sparatorie e i bombardamenti. Il cinema basato soltanto sui “punti culminanti” è figlio del cinema porno.
[...] Oggi le case di produzione puntano tutto sui franchise movie, vale a dire sul richiamo di un pubblico che si è già creato autonomamente. Ed è sempre più difficile collocare sul mercato film non quantificabili, man mano che il modello del franchising prosegue la sua avanzata verso il controllo totale dei budget della casa di produzione e, quindi, del mercato. Tutte le attività industriali migrano infatti verso il monopolio, e la ridotta concorrenza provoca inevitabilmente un calo di qualità4.
Note
1) Si veda L. Trockij, Vodka, chiesa e cinema, «Pravda», 12 luglio 2023, ora in L. Trockij, Opere scelte, vol. 13, Cultura e socialismo, Roma 2004, pp. 87-90.
2) In proposito si veda il sempre attuale A. S. Rethel, Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Per la teoria della sintesi sociale, Feltrinelli editore, Milano 1977.
3) D. Mamet, Il duro lavoro in D. Mamet, Bambi contro Godzilla. Teoria e pratica dell’industria cinematografica, Edizioni minimum fax, Roma 2025, pp. 15-20.
4) D. Mamet, op. cit., pp.9-10.
“Italia capolista mondiale del precariato, ai referendum 5 sì per cancellare anni di bugie”
Professor Brancaccio, lei ha sostenuto che la deregulation del lavoro è stato “lo spirito del tempo” che ha dominato l’ultimo trentennio. Può spiegarci?
Nei Paesi Ocse, dal 1990 abbiamo assistito a un crollo medio degli indici di protezione dei lavoratori di circa il 20 per cento e a una riduzione della loro variabilità internazionale di quasi il 60 per cento. In sostanza, c’è stata convergenza internazionale al ribasso, nella direzione del precariato. In questa tendenza generale, l’Italia ha precarizzato più della media. Nel nostro paese, le politiche di flessibilità del lavoro hanno abbattuto le tutele di oltre il 35% per i contratti temporanei e oltre il 20% per i contratti a tempo indeterminato. Siamo stati ai vertici della corsa mondiale a precarizzare.
Il governo sostiene che se al referendum vincono i Sì, ci sarà un aumento della disoccupazione. È così?
È un vecchio slogan totalmente smentito dall’evidenza scientifica. L’88% delle ricerche pubblicate nell’ultimo decennio su riviste accademiche internazionali, mostra che la precarizzazione non stimola affatto le assunzioni e che le tutele non aumentano i disoccupati. Questo risultato è sempre valido, quali che siano le citazioni degli articoli, gli impact factors delle riviste scientifiche esaminate o le tecniche di indagine utilizzate.
Un risultato sorprendente...
Non più di tanto. Già la Banca mondiale nel 2013 riconosceva che “l’impatto della flessibilità del lavoro è insignificante o modesto”. Anche il Fondo monetario internazionale, nel 2016, è giunto alla conclusione che le deregolamentazioni del lavoro “non hanno effetti statisticamente significativi sull’occupazione”. E l’Ocse, nello stesso anno, ha ammesso che “la maggior parte degli studi empirici che analizzano gli effetti delle riforme per la flessibilità, suggeriscono che queste hanno un impatto nullo o limitato sui livelli di occupazione”. Insomma, le stesse istituzioni che per anni hanno propugnato la deregulation, oggi ammettono che questa politica non crea posti di lavoro.
Se la flessibilità non stimola l’occupazione, quali sono i suoi effetti?
L’evidenza scientifica mostra che i contratti flessibili rendono i lavoratori più “docili”, e quindi provocano un calo della quota salari e più in generale un aumento delle disuguaglianze. Anche questo risultato trova conferme in studi pubblicati dalle principali istituzioni, tra cui il National bureau of economic research. Anche da questo punto di vista l’Italia è caso emblematico: da noi la precarizzazione ha contribuito fortemente ad abbattere i salari.
C’è poi il quesito contro gli appalti selvaggi, che mira a contrastare la tragedia delle morti sul lavoro. Che ne pensa?
In Italia, più che altrove, la tendenza storica al declino dei morti sul lavoro si è arrestata. E si intravede una pericolosa inversione della curva. Gli appalti senza regole sono sicuramente parte del problema.
C’è chi dice che la vittoria dei Sì comporterebbe un insostenibile aumento dei costi. Licenziamenti più gravosi e appalti più difficili metterebbero in crisi molte imprese che già faticano a restare sul mercato.
L’idea secondo cui bisogna aiutare in tutti i modi le imprese che non riescono a restare sul mercato è la ragione per cui, nel nostro paese, ancora prosperano enormi sacche di capitalismo inefficiente. Se abitui l’imprenditore a vivacchiare di prebende statali, bassi salari, evasione fiscale e assenza di controlli sulla sicurezza, togli qualsiasi stimolo all’innovazione produttiva. Al contrario, aumentare i costi per il lavoro e la sicurezza è una “frusta competitiva” che forza le imprese a migliorarsi.
Altri avanzano contestazioni politiche: i referendum sono appoggiati anche dal PD, che è lo stesso partito che in passato ha portato avanti le politiche di precarizzazione...
Questa obiezione mi sembra autolesionista. Da Treu a Renzi, ho sempre messo in evidenza le falsificazioni ideologiche dei propugnatori della precarietà che venivano dal PD. Ma se capita l’occasione di intervenire sul quadro legislativo, direttamente e nella direzione giusta, penso che si debba cercare di coglierla.
Anche perché il quorum è a rischio...
È a rischio non per beghe infantili tra fautori dei “piccoli passi” e apologeti del “tanto peggio, tanto meglio”. La verità è che manca la capacità di sviluppare tra masse totalmente depoliticizzate una critica del capitalismo all’altezza di questi tempi tremendi. Molti parlano di carenze organizzative che impedirebbero di creare il movimento. In realtà, opportunamente aggiornato, oggi vale più che mai il vecchio detto: senza moderna teoria “rivoluzionaria” non c’è movimento “rivoluzionario”.
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USA - Trump e Musk ai ferri corti
Elon Musk era stato tra i principali sponsor della rielezione di Trump nel 2024: 300 milioni di dollari in finanziamenti e un ruolo creato ad hoc – il Dipartimento per l’Efficienza Governativa – per dargli una poltrona e un megafono. Eppure, è bastata una legge fiscale per mandare tutto in fumo.
Trump ha presentato la sua “One Big Beautiful Bill” come una rivoluzione per l’economia americana. In realtà è un taglio secco a tutto ciò che odora di energia pulita. Addio ai crediti d’imposta per le auto elettriche: un colpo durissimo per Tesla e per l’immagine “green” (spesso di facciata) dell’industria americana. Musk, abituato a usare la mano pubblica come leva per il profitto privato, ha reagito con furore. Il presidente, invece di placare gli animi, ha rincarato la dose: “Senza quei contratti federali, risparmieremo miliardi e miliardi”, ha minacciato, riferendosi alle aziende di Musk.
La guerra verbale ha avuto conseguenze concrete. Le azioni di Tesla hanno perso oltre il 14% in un solo giorno, polverizzando 150 miliardi di dollari di valore. Trump Media and Technology Group Corp ha subito un calo dell’8%, segno che il duello tra giganti non risparmia nessuno. E mentre il Nasdaq annaspava, Musk lanciava sondaggi deliranti su X per creare un nuovo partito centrista e proponeva l’impeachment di Trump.
Il miliardario sudafricano ha anche lanciato un messaggio chiaro: “Senza di me, Trump non avrebbe vinto le elezioni del 2024”.
Al di là dello scontro personale, la vera vittima è la politica industriale americana. Tagliare gli incentivi per i veicoli elettrici significa regalare ulteriore vantaggio alla Cina, già leader nella produzione di EV. Lo hanno denunciato esperti del settore e associazioni ambientaliste. Ma Trump, nel suo ossessivo ritorno al carbone e al petrolio (e a contenere la spesa pubblica - ndR), sembra più interessato a combattere guerre culturali che a preparare il futuro.
Musk, dal canto suo, non è certo un paladino della coerenza. Solo pochi mesi fa sosteneva pubblicamente che i sussidi andavano eliminati, convinto che Tesla potesse sopravvivere anche senza. Oggi, con i conti in rosso e le vendite in calo, ha cambiato idea.
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La Commissione UE approva l’austerità italiana e invita a investire nella difesa
La pagella della Commissione era molto attesa dall’Italia, così come da tutti i governi che sono finiti sotto procedura di infrazione per disavanzo eccessivo. Questa volta, il nostro paese, insieme a Francia, Ungheria, Malta, Polonia e Slovacchia, ha ricevuto l’approvazione di Palazzo Berlaymont, mentre Belgio e soprattutto Romania devono avviarsi su di un nuovo percorso correttivo.
È interessante però vedere cosa abbia portato alle note positive della Commissione. Innanzitutto, i tipici complimenti per l’austerità: “la crescita della spesa netta è destinata a essere marginalmente al di sotto del tasso di crescita massimo raccomandato”. I conti italiani sono però ancora in squilibrio, a causa dell’alto debito e della bassa produttività del lavoro.
Poi l’inaspettata raccomandazione che sembra essere vicina alle esigenze dei settori popolari. Bruxelles, infatti, invita a promuovere salari adeguati, a ridurre la precarietà e le barriere all’accesso al lavoro, in particolare per donne e giovani. Per farlo, si chiede di rafforzare le politiche attive e i servizi per l’infanzia e la cura di lungo termine.
Lasciamo da parte il discorso articolato sul perché le politiche attive non sono la soluzione alla disoccupazione e al basso tasso di occupati italiani. Il discorso della Commissione ha una contraddizione di fondo: non si può elogiare la compressione della spesa pubblica per poi chiedere che ci sia un maggiore impegno nelle spese sociali... soprattutto se queste spese stesse vengono stigmatizzate.
Il nostro paese è chiamato, ad esempio, a “mitigare gli effetti dell’invecchiamento sulla crescita potenziale e sulla sostenibilità fiscale […] limitando l’uso dei regimi di prepensionamento”. In un paese in cui già l’età pensionabile si avvicina sempre più ai 68 anni, accanirsi sui pochi strumenti che permettono di accorciare la vita lavorativa è una logica da massacro sociale.
Bruxelles chiede poi di “affrontare le restrizioni rimanenti alla concorrenza, comprese quelle nei servizi pubblici locali, nei servizi alle imprese e nelle ferrovie”. In pratica, la UE spinge per un’ulteriore ondata di privatizzazioni. Una soluzione che non solo ha fatto uscire i soldi pubblici per altre vie – ad esempio attraverso sussidi alle imprese – ma che peggiorerà nettamente il servizio.
Per ciò che riguarda ancora la concorrenza, si vuole un mondo della formazione sempre più sottomesso al profitto. Per la Commissione bisogna “sostenere l’innovazione rafforzando ulteriormente i legami tra imprese e università, gli appalti innovativi, il capitale di rischio aziendale e le opportunità per i talenti”, oltre a “migliorare il ruolo delle università nella commercializzazione dei risultati della ricerca”.
Infine, la contraddizione principale deriva dal fatto che poi, in concreto, i vertici europei invitano a investire i margini dei bilanci pubblici in difesa. L’Italia viene infatti chiamata a “rafforzare la spesa complessiva per la difesa e la prontezza operativa”, in linea con le conclusioni del Consiglio europeo del marzo scorso.
La Commissione ha sottolineato che la spesa monitorata dal Patto di stabilità nel conteggio 2024-2025 dovrebbe essere circa lo 0,4% in meno rispetto a quanto chiesto all’Italia per il Piano strutturale di bilancio. Si tratta di una cifra che si aggira intorno ai 4 miliardi: non un ammontare di fondi risolutivo, ma di certo potrebbe dare una mano a voci compresse del bilancio.
E allora bisognerebbe far sì che la pressione popolare imponga al governo che questi soldi vengano messi in spese sociali. Ma stando a quel che ha chiesto Bruxelles, appunto, finiranno nel riarmo e nella difesa europea. È questa la contraddizione, quella tra le esigenze strategiche della UE e l’interesse generale, che allora va denunciato.
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I portuali francesi impediscono l’imbarco delle armi destinate ad Israele
Grande vittoria dei portuali del Golfo di Fos: sono riusciti a impedire l’imbarco di munizioni e mitragliatrici sulla nave Contship ERA della compagnia ZIM, diretta in Israele. A Genova, la nave farà scalo sabato mattina per un rifornimento tecnico. I portuali francesi ci hanno comunque chiesto di sorvegliarla per assicurarci che sia effettivamente vuota.
Il lavoro portato avanti in questi anni dai portuali genovesi, ai quali si sono poi aggiunti greci, marocchini e oggi i francesi, dimostra che il coordinamento sta dando risultati concreti.
Il presidio inizialmente previsto per le 15:00 di venerdì è sospeso: invitiamo tutte e tutti a partecipare alla conferenza stampa venerdì 6 giugno, alle ore 18:00 presso Music For Peace (sala Vick) e al presidio di sabato mattina, dalle ore 8:00, al Varco di Ponte Etiopia.
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