di Alessandro Volpi
Su Il Sole 24 Ore di giovedì 27 novembre, l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, ha risposto alle domande, non troppo incalzanti, del direttore Fabio Tamburini chiedendo, con forza, “rispetto” per le banche che fanno moltissimo per il nostro Paese.
Secondo Messina infatti le banche sono state decisive, in particolare, nell’acquisto di titoli del debito pubblico italiano, dimenticandosi però di dire che quegli acquisti sono avvenuti quasi per intero con i fondi della Banca centrale europea e che proprio dalla Bce le banche italiane hanno ottenuto una lauta ricompensa del 4% solo per conservare i propri depositi nella casse dell’istituto di Francoforte. Non caso gli acquisti si sono largamente interrotti con la fine del quantitative easing europeo.
Messina ha poi auspicato rigore nei conti pubblici e ha sostenuto che bisogna a tutti i costi ridurre il debito, magari, verrebbe da dire, spingendo gli italiani ad accettare di avere pensioni più basse e farsi un bel fondo pensione presso le banche stesse. In quest’ottica il capo di Intesa Sanpaolo ha anche duramente stigmatizzato l’uscita costante di risparmi dal nostro Paese a cui andrebbe posto rimedio per alimentare ulteriormente la massa del risparmio gestito dalle banche, trascurando di nuovo di dire che una gran mole di quel risparmio è affidata dalle banche stesse ai grandi gestori internazionali.
Ma forse basta ricordare un dato: la banca guidata da Messina ha realizzato in nove mesi 7,6 miliardi di euro di utili netti di cui 5,3 miliardi sono stati lautamente versati agli azionisti della banca. Di simili azionisti, ancora secondo i numeri forniti dallo stesso Messina, le famiglie italiane costituiscono meno del 20% e la stragrande maggioranza di questa quota è rappresentata da un numero ristretto di azionisti super ricchi. Naturalmente, ha ribadito Messina, non è in alcun modo pensabile aumentare il carico fiscale sugli istituti di credito in quanto rappresentano il principale motore dell’economia nazionale a tal punto da dovere essere considerati il pivot decisivo – e quindi tutelato e persino celebrato – del sistema Paese.
I dati dicono altre cose. In Italia ad esempio l’erogazione dei prestiti riguarda quasi esclusivamente le imprese con più di 20 dipendenti, a cui sono andati nel 2025 ben 550 miliardi di euro di prestiti, con un incremento di oltre 8 miliardi, mentre a quelle con meno di 20 dipendenti sono stati destinati appena poco più di 96 miliardi con una perdita secca di quasi 6 miliardi. Alla luce di ciò, è evidente che neppure il costoso sistema di garanzie pubbliche, che immobilizza quasi 300 miliardi di euro, ha convinto le banche ad assumersi il rischio di finanziare le imprese più piccole: un dato, questo, particolarmente grave per un’economia come quella italiana dove le imprese con meno di 20 dipendenti rappresentano il 98% del totale.
Bisogna aggiungere poi che il volume complessivo dei crediti erogati dalle banche italiane si è ridotto nel tempo, passando dai circa 1.000 miliardi di euro del 2011 agli attuali 650 e si è, al contempo, fortemente concentrato in prestiti di entità considerevole, spesso legati a settori, come l’immobiliare e l’edilizio, incentivati da sostegni pubblici. In parallelo, i risparmi italiani, gestiti dalle banche, hanno preso la strada degli acquisti di titoli dei listini statunitensi.
La richiesta di applausi invocata da Messina rischia di essere raffreddata però da un’altra fotografia del sistema bancario italiano da cui sta emergendo che, probabilmente, nell’operazione Mps-Mediobanca c’era qualche traccia di aggiotaggio. In realtà non era così difficile ipotizzare che se la banca che scala e quella scalata hanno gli stessi azionisti è probabile che non sia proprio tutto regolare e che, per tali azionisti, fosse molto più semplice “intervenire” sull’operazione con lucrose plusvalenze (ne abbiamo scritto qui e qui in tempi non così sospetti). Del resto i numeri qualche sospetto lo suscitavano. Dalla data di annuncio dell’operazione pubblica di scambio, a inizio gennaio 2025, alla sua chiusura in questo autunno, la holding Delfin ha guadagnato quasi 850 milioni di euro, il Gruppo Caltagirone quasi 430 milioni e BlackRock 172 milioni di euro. Vale la pena ricordare che Delfin e Caltagirone erano i principali azionisti di Mps, con il 20% in due, e di Mediobanca, di cui possedevano quasi il 30% mentre BlackRock, che è presente anche in Mps, con varie partecipazioni, aveva superato il 5%. In poche parole gli stessi azionisti hanno posto in essere un’operazione per comprare se stessi e hanno fatti una montagna di soldi. Un bel sistema, soprattutto se si considera che lo Stato italiano ha destinato al salvataggio di Mps quasi 5,4 miliardi di euro di soldi pubblici.
Per essere ancora più chiari si possono aggiungere alcuni altri punti più specifici. Il primo. Il ministero dell’Economia ha ceduto il 13 novembre 2024 il 15% delle azioni di Mps tramite un minuscolo intermediario, Banca Akros, il cui principale azionista è Bpm, certo non disinteressata nell’operazione Mps. Ad Akros sono poi arrivate, guarda caso, due offerte identiche – ma proprio identiche – di Delfin e Caltagirone. In pochissimi giorni dunque il governo si è disfatto con procedura quantomeno anomala, a vantaggio di due soggetti “noti” della sua partecipazione di Mps. Il secondo punto riguarda l’amministratore delegato di Mps, Luigi Lovaglio, che in barba alla retorica delle alterazioni del mercato rilascia interviste in cui invita tutti gli azionisti di Mediobanca ad aderire perché, dice lui, Mps ha già il 35% di Mediobanca.
Terzo punto critico: l’operazione Mps-Mediobanca è propedeutica alla scalata a Generali dove Delfin e Caltagirone hanno una significativa partecipazione azionaria: un’operazione che ai sensi di legge avrebbe dovuto essere dichiarata. Quarto aspetto, assai inquietante, l’intercettazione tra l’amministratore delegato di Mps, Lovaglio, e Francesco Gaetano Caltagirone in merito alla vicende Mps-Mediobanca è davvero una bomba. In pratica Lovaglio fa sapere a Caltagirone che per rendere possibile la scalata su Mediobanca il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti si sarebbe mosso per avere l’adesione dell’amministratore delegato di BlackRock, Larry Fink, purtroppo senza successo (da notare che Fink incontra la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, a Roma a fine settembre 2024, ndr). Per questo motivo Lovaglio è molto irritato e tira in ballo anche il direttore generale del ministero dell’Economia.
In sintesi, Lovaglio dichiara che l’operazione è manipolata, che un ministro decisivo, Giorgetti, e un direttore del ministero hanno cercato di condizionare il più grande gestore del risparmio mondiale, BlackRock, evidentemente arbitro della situazione. In un Paese anche solo minimamente attento all’interesse generale, una vicenda di questo genere provocherebbe un pandemonio. Ma in Italia domina il silenzio, politico e mediatico: è tutto fantastico, applausi.
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