Cosa spinge un minatore del Nord a votare per l’estrema destra? O un operaio del centro del Paese a optare per José Antonio Kast?
Come si suol dire, la vittoria ha molti padri, ma la sconfitta è orfana. Il risultato negativo del ballottaggio presidenziale non è sfuggito a questa logica. Non appena sono stati resi noti i risultati finali, le spiegazioni hanno iniziato a moltiplicarsi. Alcuni hanno additato l’anticomunismo come causa principale; altri hanno incolpato il governo e la percezione della sua continuità; altri ancora hanno sottolineato la composizione del team elettorale o gli errori tattici commessi durante la campagna elettorale. Un vero e proprio guazzabuglio di interpretazioni che, pur contenendo elementi attendibili, tralasciano una dimensione chiave del problema.
C’è un fattore che non siamo riusciti a stabilire con sufficiente chiarezza. E quando l’abbiamo fatto, non sempre siamo stati in grado di comprenderlo in tutta la sua profondità.
Non è un caso che il leader dell’estrema destra cilena, José Antonio Kast, invochi il “senso comune” come se fosse un mantra. Lo stesso concetto risuona sulle labbra di Donald Trump negli Stati Uniti e di VOX in Spagna; Jair Bolsonaro lo traduce nella sua ormai celebre frase “il popolo sa”; Marine Le Pen parla del “buon senso” francese; e Giorgia Meloni fa appello al “realismo” del popolo italiano.
Non si tratta di slogan isolati, ma di una coerente strategia ideologica della destra radicale. Siamo di fronte, quindi, a una disputa sul senso comune, su come ampi settori della società interpretano la realtà. Siamo, quindi, di fronte a una battaglia ideologica e culturale di lungo periodo che l’estrema destra ha condotto con efficacia. E se guardiamo al panorama internazionale – e ora anche a quello nazionale – è difficile non ammetterlo: su questo terreno, stiamo perdendo con un ampio margine.
Quando parliamo di senso comune, non parliamo di un’astrazione neutrale o spontanea. Antonio Gramsci, scrivendo dal carcere negli anni ’20 del secolo scorso, avvertiva che il senso comune è un terreno in disputa permanente. È, in sostanza, un mix caotico di idee ereditate, pregiudizi, esperienze materiali e narrazioni dominanti. Chiunque riesca a organizzare quel senso comune, riesce anche a dirigere politicamente una società. Questa è egemonia.
L’estrema destra ha compreso questa lezione con una chiarezza che fa male. Non compete solo nelle elezioni; compete soprattutto nella vita di tutti i giorni. Nel linguaggio che usiamo, nelle paure che mettono radici, nelle false certezze che sembrano ovvie. Mentre discutiamo di programmi, cifre e progetti istituzionali, loro si disputano emozioni, identità e risposte semplici... ordine contro caos, merito contro parassitismo, nazione contro minaccia. Non vincono perché hanno ragione; vincono perché riescono ad apparire ragionevoli.
Jason Stanley, nel suo libro “How Fascism Works” [n.d.t.: “Come funziona il fascismo”], lo spiega con chiarezza. Le persone sono frustrate dalle condizioni di vita offerte dal sistema. È innegabile che la radice della criminalità e della precarietà lavorativa risieda nel cuore stesso del modello. Tuttavia, il politico fascista agisce con astuzia, deviando questa rabbia accumulata. Così, professionisti che hanno studiato per anni e non riescono a trovare lavoro finiscono per dare la colpa ai migranti, non a un sistema che precarizza strutturalmente la vita.
Qui sta il nocciolo della nostra sconfitta. Non basta denunciare le fake news o attribuire l’esito a una “cattiva campagna elettorale”. C’è una classe operaia stanca, precaria, fisicamente e mentalmente esausta, che non si sente rappresentata da un progetto di trasformazione che molte volte è espresso in termini estranei, eccessivamente tecnici o moralizzanti. In questo vuoto, l’estrema destra offre risposte facili, colpevoli chiari e un’illusione di controllo (dato che è molto più facile incolpare un migrante per le proprie disgrazie che il settore imprenditoriale che accumula ricchezza, non è vero?). Il fascismo non offre futuro, ma promette un sollievo immediato.
Tuttavia – e questo è fondamentale – niente di tutto ciò è irreversibile. La storia non procede in linea retta, né è predeterminata. Proprio come oggi stiamo assistendo a un’offensiva reazionaria globale, sappiamo anche che i momenti di maggiore regressione sono stati, molte volte, il preludio di profonde ricomposizioni popolari. Ma queste ricomposizioni non avvengono da sole. Devono essere ricostruite.
E qui è fondamentale chiarire una cosa. Se il nostro obiettivo è il superamento del capitalismo, non possiamo permetterci una frammentazione permanente. In “La trappola della diversità”, Daniel Bernabé sostiene con chiarezza che il sistema opera attivamente per atomizzare la classe lavoratrice, disperdendola in molteplici lotte parziali che, scollegandosi l’una dall’altra, perdono la loro capacità reale di contestare il potere.
Ciò non implica – e va detto senza ambiguità – negare o relativizzare lotte fondamentali come il femminismo, l’ambientalismo, la difesa della diversità sessuale e di genere o i diritti degli animali. Tutte esprimono reali contraddizioni del capitalismo e legittime richieste di emancipazione. Il problema non sono queste lotte in sé, ma il loro isolamento, la loro depoliticizzazione o la loro disconnessione da un progetto condiviso di trasformazione sociale.
Dall’inizio di questo secolo, una parte della sinistra ha teso a perdere di vista questo filo conduttore: la condizione comune di coloro che vivono della loro forza lavoro e subiscono, in modi diversi, lo sfruttamento e il dominio della classe dominante. Al di là delle nostre differenze – che esistono e devono essere riconosciute – c’è un fattore comune che ci attraversa e ci unisce: la subordinazione al capitale.
È proprio lì, in quella base materiale condivisa, che risiedono la nostra principale forza e la reale possibilità di vittoria. Non nella negazione delle lotte, ma nella loro consapevole articolazione all’interno di un progetto collettivo capace di sfidare l’egemonia e trasformare la società nel suo complesso.
Fare appello alla speranza non significa negare la sconfitta, ma comprenderla in tutta la sua profondità. È riconoscere che il compito che ci attende è più impegnativo di vincere un’elezione. È ricostruire un senso comune solidale, collettivo ed emancipatore. Tornare a parlare di dignità senza scusarsi. Tornare a organizzare dove oggi c’è solo frustrazione. Tornare a politicizzare la vita quotidiana senza disprezzarla.
Perché anche nel vuoto – e, a volte, proprio lì – c’è spazio per la ricostruzione. E questa ricostruzione, se vuole essere reale e duratura, deve essere radicata nella classe lavoratrice e mirare a disputarsi, gomito a gomito, la coscienza del nostro popolo. Infine, il giorno in cui potremo dire “abbiamo trionfato”, non come risultato esclusivo di un’elezione, ma come frutto di un’organizzazione popolare orientata al superamento del capitalismo, quel giorno avremo vinto la battaglia culturale.
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