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20/05/2025

USA - La classe dominante statunitense e il regime di Trump

John Bellamy Foster riesamina e critica la tesi secondo cui la classe capitalista statunitense non sia una classe “governante”. Il fatto che gli oligarchi della classe dominante – come parte del regime di Trump – stiano ora esercitando il potere sulle scene nazionali e internazionali, dimostra che la schiacciante influenza politica della classe capitalista non sia più in discussione, e che questa convergenza spinga il Paese sempre più verso il neofascismo.

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di John Bellamy Foster

Nell’ultimo secolo il capitalismo statunitense ha avuto, senza dubbio, la classe dominante più potente e più cosciente della storia mondiale, cavalcando sia l’economia che lo Stato e proiettando la sua egemonia sia a livello nazionale che globale. Al centro del suo dominio c’è un apparato ideologico che sostiene che l’immenso potere economico della classe capitalista non si traduce in governance politica e che, a prescindere dalla polarizzazione della società statunitense in termini economici, rimangono integre le sue rivendicazioni di democrazia. Secondo l’ideologia che ne consegue, gli interessi degli ultra-ricchi che governano il mercato non governano lo Stato: è una separazione fondamentale per l’idea di democrazia liberale. Questa ideologia dominante, tuttavia, si sta ora sgretolando di fronte alla crisi strutturale del capitalismo statunitense e mondiale, e al declino dello stato liberal-democratico, portando a profonde spaccature nella classe dominante e a un nuovo dominio di destra, apertamente capitalista, dello Stato.

Nel suo discorso di addio alla nazione, pochi giorni prima che Donald Trump tornasse trionfalmente alla Casa Bianca, il presidente Joe Biden denunciava che una “oligarchia” basata sul settore high-tech, e che in politica si affida al “dark money”, sta minacciando la democrazia degli Stati Uniti. Contemporaneamente, il senatore Bernie Sanders metteva in guardia dagli effetti della concentrazione di ricchezza e potere in una nuova “classe dominante” egemone, e dall’abbandono di qualsiasi traccia di sostegno alla classe operaia in ognuno dei principali partiti.[1]

L’ascesa, per la seconda volta, di Trump alla Casa Bianca, non vuol dire che l’oligarchia capitalista sia improvvisamente diventata influente nel comandare la politica statunitense, poiché si tratta di una realtà di lunga data. Tuttavia, negli ultimi anni, soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2008, l’intero ambiente politico si è spostato a destra, mentre l’oligarchia sta esercitando un’influenza più diretta sullo Stato. Un settore della classe capitalista statunitense si trova palesemente al comando dell’apparato ideologico-statale, in un’amministrazione neofascista in cui l’ex establishment neoliberale sta diventando un junior partner [partner minore]. L’obiettivo di questo cambiamento è la regressiva riorganizzazione degli Stati Uniti in una posizione di guerra permanente, risultante dal declino della sua egemonia e dall’instabilità del capitalismo statunitense, oltre che dalla necessità da parte di una classe capitalista di assicurarsi un controllo più centralizzato dello Stato.

Negli anni della Guerra Fredda successivi alla Seconda Guerra Mondiale, i guardiani dell’ordine liberal-democratico all’interno del mondo accademico e dei media cercarono di minimizzare il ruolo predominante esercitato nell’economia statunitense dai proprietari dell’industria e della finanza, che sarebbero poi stati scalzati dalla “rivoluzione manageriale”, o contenuti dal “contropotere”. In questa visione, i proprietari e i manager, il capitale e il lavoro, si sarebbero regolamentati a vicenda. Successivamente, in una versione leggermente più raffinata di questa prospettiva generale, il concetto di classe capitalista egemone sotto il capitalismo monopolistico si dissolse nella categoria più amorfa dei “corporate rich” [ricchi aziendali].[2]

La democrazia statunitense, si sosteneva, era il prodotto dell’interazione di raggruppamenti pluralisti, o in alcuni casi mediata da un’élite di potere. Non esisteva una funzionale classe dominante egemone né in campo economico, né in quello politico. Anche se si potesse sostenere che nell'economia esisteva una classe capitalista predominante, essa non governava lo Stato, che era indipendente. Tutto ciò è stato trasmesso in vari modi da tutte le opere archetipiche della tradizione pluralista, da La rivoluzione manageriale (1941) di James Burnham, a Capitalismo, socialismo e democrazia (1942) di Joseph A. Schumpeter, a Who Governs? (1961) di Robert Dahl, a Il nuovo stato industriale (1967) di John Kenneth Galbraith, che spaziavano dalle estremità conservatrici a quelle liberali dello spettro.[3] Tutti questi trattati erano concepiti per suggerire che nella politica statunitense prevaleva il pluralismo, o un’élite manageriale/tecnocratica, non una classe capitalista che governava sia il sistema economico che quello politico. Nella visione pluralista della democrazia realmente esistente, introdotta per la prima volta da Schumpeter, i politici erano semplici imprenditori politici in competizione elettorale – al pari degli imprenditori economici nel cosiddetto libero mercato – che creavano un sistema di “leadership competitiva”.[4]

Nella promuovere la finzione secondo cui gli Stati Uniti, nonostante il vasto potere della classe capitalista, rimanevano un’autentica democrazia, l’ideologia comunemente accettata, fu raffinata e rafforzata da analisi provenienti da sinistra che cercavano di riportare la dimensione del potere in una teoria dello Stato, sostituendo le visioni pluraliste allora dominanti, di autori come Dahl, rifiutando, allo stesso tempo, la nozione di classe dominante.

L’opera più importante che rappresentava questo cambiamento fu La élite del potere (1956) di C. Wright Mills, che sosteneva che la concezione di “classe dominante”, associata in particolare al marxismo, dovrebbe essere sostituita dalla nozione di “élite del potere” tripartita, in cui la struttura di potere degli Stati Uniti era vista come dominata da élite provenienti dalle ricche aziende, dai vertici militari e dai politici eletti. Mills si riferiva alla nozione di classe dominante come a una “teoria della scorciatoia” che presupponeva che il dominio economico significasse dominio politico. Sfidando direttamente il concetto di "classe dominante" di Karl Marx, Mills affermava: «Il governo americano non è, né in modo semplice né come fatto strutturale, un comitato della “classe dominante”. È una rete di ‘comitati’, e in questi comitati siedono, oltre ai ricchi delle multinazionali, altri uomini, di altre gerarchie».[5]

Il punto di vista di Mills sulla classe dominante e l’élite del potere fu inizialmente criticata dai teorici radicali, in particolare da Paul M. Sweezy sulla Monthly Review, e dal lavoro di G. William Domhoff, nella prima edizione del suo Who Rules America? (1967). Ma alla fine ottenne una notevole influenza sulla sinistra più ampia.[6] Come avrebbe sostenuto Domhoff nel 1968, nel suo C. Wright Mills and “The Power Elite”, il concetto di élite di potere era comunemente visto come «il ponte tra le posizioni marxiste e quelle pluraliste... È un concetto necessario perché non tutti i leader nazionali sono membri della classe superiore. In questo senso, si tratta di una modifica e di una estensione del concetto di ‘classe dominante'».[7]

La questione della classe dominante e dello Stato era stata al centro del dibattito tra i teorici marxisti Ralph Miliband, autore di The State in Capitalist Society (1969), e Nicos Poulantzas, autore di Potere politico e classi sociali (1968), che rappresentavano i cosiddetti approcci “strumentalisti” e “strutturalisti” allo Stato, nella società capitalista. Il dibattito verteva sulla “relativa autonomia” dello Stato dalla classe dominante capitalista, una questione cruciale per le prospettive di conquista dello Stato da parte di un movimento socialdemocratico.[8]

Il dibattito ha assunto una forma estrema negli Stati Uniti con l’apparizione dell’influente saggio di Fred Block “The Ruling Class Does Not Rule” [La classe dominante non governa] su Socialist Revolution nel 1977, in cui Block si spingeva a sostenere che la classe capitalista non aveva la coscienza di classe necessaria per tradurre il suo potere economico in dominio dello Stato.[9] Tale visione, sosteneva, era necessaria per rendere praticabile la politica socialdemocratica. Dopo la sconfitta di Biden contro Trump nelle elezioni del 2024, l’articolo originale di Block è stato ristampato su Jacobin con una nuova conclusione in cui Block sosteneva che, dato che la classe dominante non governava, Biden aveva la libertà di istituire una politica favorevole alla classe operaia secondo le linee del New Deal, che avrebbe impedito la rielezione di un esponente della destra – «con un’abilità e una spietatezza di gran lunga superiori» di Trump – nel 2024.[10]

Date le contraddizioni dell’amministrazione Biden e il secondo avvento di Trump, con tredici miliardari nel suo gabinetto, l’intero lungo dibattito sulla classe dominante e lo Stato deve essere riesaminato.[11]

La classe dominante e lo Stato

Nella storia della teoria politica, dall’antichità fino ai giorni nostri, si è soliti intendere lo Stato in relazione alla classe sociale. Nella società antica e sotto il feudalesimo, a differenza della società capitalista moderna, non esisteva una chiara distinzione tra società civile (o economia) e Stato. Come scrisse Marx nella sua Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico nel 1843, «l’astrazione dello Stato in quanto tale nacque soltanto nel mondo moderno perché l’astrazione della vita privata è stata creata solo in tempi moderni. L’astrazione dello Stato politico è un prodotto moderno», realizzato pienamente solo con il dominio della borghesia.[12] Questo concetto è stato successivamente ribadito da Karl Polanyi che ha mostrato come un tempo l'economia fosse incorporata nella polis antica e sia stata poi disincorporata dal capitalismo, manifestandosi nella separazione tra la sfera pubblica dello Stato e la sfera privata del mercato.[13] Nell’antichità greca, in cui le condizioni sociali non avevano ancora generato tali astrazioni, non vi era dubbio che fosse la classe dominante a governare la polis e a crearne le leggi. Aristotele nella Politica, come scriveva Ernest Barker in The Political Thought of Plato and Aristotile, sosteneva la posizione secondo cui il dominio di classe spiegava in ultima analisi la polis: «Dimmi quale classe è predominante, si potrebbe dire, e ti dirò qual'è la costituzione».[14]

Nel regime del capitale, al contrario, lo Stato è inteso come separato dalla società civile/dall'economia. A questo proposito, ci si chiede sempre se la classe che domina l’economia, ovvero la classe capitalista, domini anche lo Stato.

Il punto di vista di Marx su questo tema era complesso, non si discostava mai dall'idea che nella società capitalista, lo Stato fosse governato dalla classe capitalista, pur riconoscendo le diverse condizioni storiche che lo modificavano. Da un lato, sosteneva (insieme a Friedrich Engels) nel Manifesto del Partito Comunista che «Il potere politico dello Stato moderno non è che un comitato, il quale amministra gli affari, comuni di tutta quanta la classe borghese».[15] Questa prospettiva suggeriva che lo Stato, o il suo ramo esecutivo, possedeva una relativa autonomia che andava oltre gli interessi dei singoli capitalisti, pur essendo comunque responsabile della gestione degli interessi generali della classe. Ciò poteva, come Marx indicava altrove, condurre a importanti riforme, come l’approvazione, ai suoi tempi, della legislazione sulla giornata lavorativa di dieci ore, che pur sembrando una concessione alla classe operaia e contraria agli interessi capitalistici, era necessaria per garantire il futuro dell’accumulazione di capitale, regolando e assicurando la continua riproduzione della forza lavoro.[16] Dall'altro lato, ne Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, Marx evidenziava situazioni piuttosto diverse, in cui la classe capitalista non governava direttamente lo Stato, lasciando spazio a un dominio semi-autonomo, purché questo non interferisse con i suoi fini economici e, in ultima istanza, con il suo controllo dello Stato.[17] Egli riconosceva inoltre che lo Stato poteva essere governato da una frazione del capitale rispetto a un’altra. In tutti questi aspetti, Marx sottolineava la relativa autonomia dello Stato dagli interessi capitalistici, un concetto che è stato fondamentale per tutte le teorie marxiste sullo Stato nella società capitalista.

È da tempo noto che la classe capitalista dispone di numerosi mezzi per agire come classe dominante attraverso lo Stato, anche nel caso di un ordine liberaldemocratico. Da un lato, ciò assume la forma di un’investitura abbastanza diretta nell’apparato politico attraverso vari meccanismi, come il controllo economico e politico delle macchine dei partiti politici e l’occupazione diretta da parte dei capitalisti e dei loro rappresentanti di posti chiave nella struttura di comando politica. Oggi negli Stati Uniti gli interessi capitalistici hanno il potere di influenzare in modo decisivo le elezioni. Inoltre, il potere capitalistico sullo Stato si estende ben oltre il momento elettorale. Il controllo della banca centrale, e quindi dell’offerta di moneta, dei tassi di interesse e della regolamentazione del sistema finanziario, è affidato essenzialmente alle banche stesse. Dall'altro lato, la classe capitalista controlla indirettamente lo Stato attraverso il suo vasto potere economico esterno di classe, che comprende pressioni finanziarie dirette, lobbismo, finanziamento di gruppi di pressione e think tank, il fenomeno della "porta girevole" tra i principali attori del governo e del mondo degli affari, e il controllo dell’apparato culturale e comunicativo. In un sistema capitalistico, nessun regime politico può sopravvivere se non serve gli interessi del profitto e dell’accumulazione di capitale, una realtà costante a cui sono sottoposti tutti gli attori politici.

La complessità e l’ambiguità dell’approccio marxista alla classe dominante e allo Stato furono espresse da Karl Kautsky nel 1902, quando dichiarò che «la classe capitalista domina, ma non governa»; poco dopo aggiunse che «si accontenta di dominare il governo».[18] Come è stato sottolineato, fu proprio tale questione, vale a dire l’autonomia relativa dello Stato dalla classe capitalista, a guidare il famoso dibattito tra quelle che sarebbero state chiamate le teorie strumentaliste e strutturaliste dello Stato, rappresentate rispettivamente da Ralph Miliband in Gran Bretagna e da Nicos Poulantzas in Francia. Le posizioni di Miliband furono fortemente influenzate dalla fine del Partito Laburista britannico come autentico partito socialista avvenuta alla fine degli anni Cinquanta, come descritto nel suo Parlamentary Socialism.[19] Ciò lo costrinse a confrontarsi con l’enorme potere della classe capitalista in quanto classe dominante. Successivamente riprese il tema in The State in Capitalist Society nel 1969, in cui scrisse che «se sia... appropriato parlare di ‘classe dominante’ è uno dei temi principali di questo studio». Anzi, «la più importante di tutte le questioni sollevate dall’esistenza di questa classe dominante è se essa costituisca anche una ‘classe governante’». Miliband cercò di dimostrare che la classe capitalista, pur «non essendo, propriamente parlando, una ‘classe governante’» nello stesso senso in cui lo era stata l’aristocrazia, governava comunque in modo piuttosto diretto (oltre che indiretto) la società capitalista.
Essa traduceva il proprio potere economico in potere politico in vari modi, al punto che, affinché la classe operaia potesse sfidare efficacemente la classe dominante, avrebbe dovuto opporsi alla struttura stessa dello Stato capitalista.[20]

Fu proprio su questo punto che Poulantzas, che aveva pubblicato Political Power and Social Classes nel 1968, entrò in conflitto con Miliband. Poulantzas attribuiva ancora maggiore importanza all’autonomia relativa dello Stato, trovando alla base dell’approccio di Miliband una concezione troppo diretta del dominio capitalistico, anche se conforme in gran parte agli scritti di Marx sull’argomento.

Poulantzas sottolineava che il dominio capitalistico sullo Stato fosse più indiretto e strutturale che diretto e strumentale, lasciando spazio a una maggiore varietà di governi in termini di composizione di classe, inclusi non solo diverse frazioni della classe capitalista, ma anche rappresentanti della classe operaia stessa. «La partecipazione diretta di membri della classe capitalista nell’apparato statale e nel governo, anche quando esiste», scriveva, «non è l’aspetto importante della questione. La relazione tra la classe borghese e lo Stato è una relazione oggettiva [...] La partecipazione diretta di membri della classe dominante nell’apparato statale non è la causa ma l’effetto [...] di questa coincidenza oggettiva».[21] Sebbene una tale affermazione potesse sembrare ragionevole nei termini in cui era espressa, essa tendeva invece a rimuovere il ruolo della classe dominante come soggetto cosciente di classe. Scrivendo durante l’apice dell’eurocomunismo, lo strutturalismo di Poulantzas, con il suo accento sul bonapartismo come indicativo di un alto grado di autonomia relativa dello Stato, sembrava aprire la strada a una concezione dello Stato inteso come entità in cui la classe capitalista non governava, anche se lo Stato restava, in ultima istanza, soggetto a forze oggettive derivanti dal capitalismo.

Tale visione, ribatteva Miliband, indicava o una visione “super-determinista” o economicistica dello Stato, caratteristica di una “deviazione di ultra-sinistra”, o di una “deviazione di destra”, nella forma della socialdemocrazia, che generalmente negava l’esistenza stessa di una classe dominante.[22] In entrambi i casi, la realtà della classe dominante capitalista e i vari processi attraverso i quali esercitava il suo dominio, che la ricerca empirica di Miliband e altri aveva ampiamente dimostrato, sembravano essere in cortocircuito, non più parte dello sviluppo di una strategia di lotta di classe dal basso. Un decennio dopo, nella sua opera del 1978 State, Power, Socialism, Poulantzas spostò la sua attenzione sulla difesa del socialismo parlamentare e della socialdemocrazia (o “socialismo democratico”), insistendo sulla necessità di mantenere gran parte dell’apparato statale esistente in ogni transizione al socialismo. Ciò contraddiceva direttamente il risalto posto da Marx nella Guerra civile in Francia e da Vladimir I. Lenin in Stato e rivoluzione sulla necessità di sostituire lo stato capitalista della classe dominante con una nuova struttura di comando politico proveniente dal basso.[23]

Influenzato da The Power Elite di Wright Mills e dagli articoli di Paul Sweezy The American Ruling Class e Power Elite or Ruling Class?, pubblicati su Monthly Review, William Domhoff, nella prima edizione del suo libro, Who Rules America? (1967), ha sviluppato un’analisi esplicitamente di classe, ma ciononostante indicava di preferire il più neutrale “classe governante” a “classe dominante”, sulla base del fatto che «la nozione di classe dominante» suggeriva una «visione marxista della storia».[24] Tuttavia, quando nel 1978 scrisse The Powers That Be: Processes of Ruling Class Domination in America, Domhoff, influenzato dall’atmosfera radicale del tempo, era passato a sostenere che «una classe dominante è una classe sociale privilegiata che è in grado di mantenere la sua posizione di vertice nella struttura sociale». L’élite di potere fu ridefinita come il «braccio di comando» della classe dominante.[25] Tuttavia, questa esplicita integrazione della classe dominante nell’analisi di Domhoff ebbe vita breve. Nelle edizioni successive di Who Rules America?, fino all’ottava edizione del 2022, si piegò al pragmatismo liberale e abbandonò del tutto il concetto di classe dominante. Invece, seguì Mills nel raggruppare i proprietari (“la classe sociale superiore”) e i dirigenti nella categoria dei “ricchi aziendali”.[26] L’élite di potere era vista come composta da CEO, consigli di amministrazione e consigli di fondazioni, sovrapposti, come in un diagramma di Venn, con la classe sociale superiore (che consisteva anche di personaggi mondani e jet-setter), la comunità aziendale e la rete di pianificazione politica. Ciò costituiva una prospettiva nota come "ricerca sulla struttura del potere". I concetti di classe capitalista e classe dominante non si trovavano più.

Un’opera empirica e teorica più significativa di quella di Domhoff, e per molti versi ancora più pertinente oggi, fu scritta nel 1962-1963 dall’economista sovietico Stanislav Menšikov, e tradotta in inglese nel 1969 con il titolo Millionaires and Managers. Menšikov partecipò a uno scambio formativo di scienziati tra Unione Sovietica e Stati Uniti nel 1962. In quel contesto incontrò «i presidenti, amministratori delegati e vicepresidenti di dozzine di società e di 13 delle 25 banche commerciali» con patrimoni superiori al miliardo di dollari. Tra gli altri, incontrò Henry Ford II, Henry S. Morgan e David Rockefeller.[27] La dettagliata analisi empirica di Menšikov sul controllo finanziario delle società negli Stati Uniti e del gruppo o classe dominante ha fornito una solida valutazione del continuo predominio, all’interno dei super-ricchi, dei capitalisti finanziari. Grazie alla loro egemonia su vari gruppi finanziari, l’oligarchia finanziaria si è differenziata dai manager di alto livello (CEO) delle burocrazie finanziarie aziendali. Sebbene esistesse quello che potrebbe essere chiamato un “blocco di milionari-manager” nel senso dei “ricchi aziendali” di Mills, e una divisione del lavoro all’interno «della classe dirigente stessa», a dominare era «l’oligarchia finanziaria, cioè il gruppo di persone il cui potere economico si basa sulla disponibilità di colossali masse di capitale fittizio ... [e] che è la base di tutti i principali gruppi finanziari», e non i dirigenti aziendali in quanto tali. Inoltre, il potere relativo dell’oligarchia finanziaria continuava a crescere, anziché diminuire.[28] Come nell’analisi di Sweezy su Interest Groups in the American Economy, scritta per il National Resource Committee durante il New Deal, la dettagliata analisi di Menšikov ha fotografato la persistente base dinastico-familiare della ricchezza statunitense.[29]

L’oligarchia finanziaria statunitense costituiva sì una classe dominante, ma in generale non governava né direttamente né senza interferenze.

Il «dominio economico dell’oligarchia finanziaria», scriveva Menšikov, «non equivale al suo dominio politico. Ma quest'ultimo [il dominio politico] senza il primo [il dominio economico] non può essere abbastanza forte, mentre quello economico senza quello politico evidenzia che la fusione tra monopoli e macchina statale non è ancora completa. Anche negli Stati Uniti, dove entrambe queste condizioni sono presenti, la macchina governativa, pur da decenni al servizio dei monopoli, non assicura alla finanza un potere politico indiscusso. L’oligarchia finanziaria, infatti, deve confrontarsi con le restrizioni poste da altre classi sociali e, talvolta, vede effettivamente limitato il proprio potere. Tuttavia, la tendenza generale è che il potere economico si trasformi gradualmente in potere politico.»[30]

Secondo Menšikov, l'oligarchia finanziaria nel suo dominio politico sullo Stato, aveva come alleati minori: i dirigenti d’impresa, i vertici delle forze armate, i politici professionisti (che avevano interiorizzato le esigenze del sistema capitalistico) e l’élite bianca che dominava il sistema di segregazione razziale nel Sud.[31] Ma la forza dominante era sempre l’oligarchia finanziaria. «La lotta dell’oligarchia finanziaria per l'amministrazione diretta dello Stato è una delle tendenze più caratteristiche dell’imperialismo americano degli ultimi decenni», derivante dal suo crescente potere economico e dai bisogni che questo ha generato. Tuttavia, questo non è avvenuto attraverso un processo lineare. I capitalisti finanziari negli Stati Uniti non agiscono “unitariamente” e sono a loro volta divisi in fazioni concorrenti. Inoltre, nei loro tentativi di controllare lo Stato, sono ostacolati dalla complessità stessa del sistema politico statunitense, in cui giocano diversi attori.[32] 

«Sembrerebbe», scriveva Menshikov, «che il potere politico dell’oligarchia finanziaria sia, ora, pienamente garantito, ma non è così. La macchina di uno stato capitalista contemporaneo è grande e ingombrante. La conquista di posizioni in una parte di essa non garantisce il controllo dell’intero meccanismo. L’oligarchia finanziaria possiede la macchina della propaganda, è in grado di corrompere i politici e i funzionari governativi del centro e della periferia [del paese], ma non può corrompere il popolo che, nonostante le limitazioni della “democrazia borghese”, elegge il parlamento. Il popolo non ha molta scelta, ma senza abolire formalmente le procedure democratiche, l’oligarchia finanziaria non è completamente protetta in caso di "incidenti" indesiderati.»[33]

Tuttavia, la straordinaria opera di Menšikov, Millionaires and Managers, pubblicata in Unione Sovietica, non influenzò il dibattito sulla classe dominante negli Stati Uniti. La tendenza generale – riflessa nei cambiamenti di Domhoff (e di Poulantzas in Europa) – fu quella di minimizzare o abbandonare del tutto il concetto di classe dominante, persino quello di classe capitalista, sostituendolo con i concetti di corporate rich [ricchi aziendali] e power elite [elite di potere], producendo essenzialmente una versione di elite theory [teoria dell'elite].

L’abbandono del concetto di classe dominante (o anche di classe governante) nelle opere successive di Domhoff coincise con la pubblicazione di The Ruling Class Does Not Rule di Fred Block, che ebbe un impatto significativo nel pensiero radicale statunitense. Scrivendo in un’epoca in cui l’elezione di Jimmy Carter sembrava rappresentare, per i liberali e i socialdemocratici, una leadership decisamente più morale e progressista, Block sosteneva che, negli Stati Uniti e nel capitalismo in generale, non esisteva una classe dominante con un potere decisivo sulla sfera politica. Egli attribuiva ciò al fatto che non solo la classe capitalista, ma anche “frazioni” separate della classe capitalista (in contrapposizione a Poulantzas) erano prive di coscienza di classe e quindi erano incapaci di agire per il proprio interesse nella sfera politica, tanto meno di governare il corpo politico. Egli adottò invece un approccio “strutturalista” basato sulla weberiana nozione di razionalizzazione, in cui lo Stato razionalizzava i ruoli di tre attori in competizione: (1) i capitalisti, (2) i dirigenti statali e (3) la classe operaia. La relativa autonomia dello Stato nella società capitalista era una funzione del proprio ruolo di arbitro neutrale, in cui varie forze si scontravano, ma nessuna governava.[34]

Attaccando coloro che sostenevano che la classe capitalista avesse un ruolo dominante all'interno dello Stato, Block scriveva: «Il modo per formulare una critica allo strumentalismo senza cadere in contraddizioni è quello di respingere l’idea di una classe dominante dotata di coscienza di classe», poiché una classe capitalista cosciente di esserlo, lotterebbe per governare. Mentre riconosceva che Marx usava la nozione di coscienza di classe dominante, Block la escludeva come una semplice “scorciatoia politica” per indicare determinazioni strutturali.

Block diceva chiaramente che quando i radicali come lui scelgono di criticare la nozione di classe dominante, «di solito lo fanno per giustificare la politica socialista riformista». Con questo spirito, egli sosteneva che la classe capitalista non governava intenzionalmente e consapevolmente lo Stato con mezzi interni o esterni. Piuttosto, la limitazione strutturale della “fiducia delle imprese”, esemplificata dagli alti e bassi del mercato azionario, garantiva l'equilibrio tra il sistema politico e l’economia, richiedendo agli attori politici di adottare mezzi razionali per garantire la stabilità economica. La razionalizzazione del capitalismo da parte dello Stato, nella visione “strutturalista” di Block, apriva quindi la strada a una politica socialdemocratica dello Stato.[35]

Ciò che risulta chiaro è che alla fine degli anni Settanta, i pensatori marxisti occidentali avevano quasi completamente abbandonato la nozione di classe dominante, concependo lo Stato non solo come relativamente autonomo, ma di fatto ampiamente autonomo dal potere di classe del capitale. Ciò faceva parte di un generale “ritiro dalla classe”.[36] In Gran Bretagna, Geoff Hodgson scriveva nel 1984 nel suo The Democratic Economy: A New Look at Planning, Markets and Power, che «l’idea stessa di una classe 'dominante’ dovrebbe essere messa in discussione. Nella migliore delle ipotesi è una metafora debole e fuorviante. È possibile parlare di una classe dominante in una società, ma solo in virtù del predominio di un particolare tipo di struttura economica. Dire che una classe ‘governa’ significa dire molto di più. Significa insinuare che sia in qualche modo impiantata nell’apparato di governo». Era fondamentale, affermava, abbandonare la nozione marxista che associava «diversi modi di produzione a diverse ‘classi dominanti’».[37] Come fecero successivamente Poulantzas e Block, Hodgson adottò una posizione socialdemocratica che non vedeva alcuna contraddizione ultima tra la democrazia parlamentare, così come era sorta all’interno del capitalismo, e la transizione al socialismo.

Il neoliberismo e la classe dominante negli Stati Uniti

Se alla fine degli anni '60 e '70 c'è stato, nel marxismo occidentale, un progressivo abbandono della nozione di classe dominante, non tutti i pensatori si sono allineati. Paul Sweezy continuava a sostenere sulla Monthly Review che gli Stati Uniti erano governati da una classe capitalista dominante. Così, Paul A. Baran e Sweezy sostenerono nel loro Il capitalismo monopolistico, pubblicato nel 1966, che «una minuscola oligarchia che poggia su un vasto potere economico» ha «il pieno controllo dell'apparato politico e culturale della società», rendendo fuorviante, nella migliore delle ipotesi, la nozione degli Stati Uniti come autentica democrazia.[38]

Tranne che in tempi di crisi, il sistema politico normale del capitalismo, sia competitivo che monopolistico, è la democrazia borghese. I voti sono la fonte nominale del potere politico, e il denaro è la fonte reale: il sistema, in altre parole, è democratico nella forma e plutocratico nei contenuti. Questo è ormai così ben noto che difficilmente sembra necessario discuterne. Basti dire che tutte le attività e le funzioni politiche che costituiscono le caratteristiche essenziali del sistema – indottrinare e propagandare il pubblico votante, organizzare e mantenere partiti politici, condurre campagne elettorali – possono essere svolte solo per mezzo del denaro, molto denaro. E poiché nel capitalismo monopolistico le grandi corporazioni sono la fonte di molto denaro, esse sono anche le principali fonti di potere politico.[39]

Per Baran e Sweezy, che scrivevano in quella che è stata definita "l'età d'oro del capitalismo", il potere del predominio della classe dominante sullo stato era dimostrato dai limiti posti all'espansione della spesa pubblica civile (generalmente osteggiata dal capitale in quanto interferente con l'accumulazione privata), che consentivano una spesa militare gigantesca e ampi sussidi alle grandi imprese.[40] Lungi dall'esibire caratteristiche di razionalità weberiana, il "sistema irrazionale" del capitalismo monopolistico, sostenevano i due, era afflitto da problemi di sovraccumulazione che si manifestavano nell'incapacità di assorbire il capitale in eccesso, che non riusciva più a trovare sbocchi di investimento redditizi, indicando la stagnazione economica come lo "stato normale" del capitalismo monopolistico.[41]

A pochi anni dalla pubblicazione de Il capitale monopolistico, nella prima metà degli anni '70, l'economia statunitense entrò in una profonda stagnazione dalla quale non fu in grado di riprendersi completamente nel mezzo secolo successivo, con tassi di crescita economica in calo decennio dopo decennio. Ciò ha costituito una crisi strutturale del capitale nel suo complesso, una contraddizione presente in tutti i principali paesi capitalisti. Questa crisi di lungo periodo dell'accumulazione di capitale ha portato alla ristrutturazione neoliberista dall'alto verso il basso dell'economia e dello stato, a tutti i livelli, istituendo politiche regressive volte a stabilizzare il dominio capitalista, che, alla fine, ha portato alla de-industrializzazione e alla de-sindacalizzazione nel nucleo capitalista e alla globalizzazione e finanziarizzazione dell'economia mondiale.[42]

Nell'agosto del 1971, Lewis F. Powell, pochi mesi prima di accettare la nomina alla Corte Suprema degli Stati Uniti da parte del Presidente Richard Nixon, scrisse il suo famigerato memorandum alla Camera di Commercio degli Stati Uniti con l'obiettivo di organizzare gli Stati Uniti in una crociata neoliberista contro i lavoratori e la sinistra, attribuendo loro l'indebolimento del sistema statunitense della "libera impresa".[43] Quindi, nello stesso momento in cui la sinistra stava abbandonando il concetto di classe dominante statunitense consapevole, l'oligarchia statunitense stava riaffermando il suo potere sullo stato, portando a una ristrutturazione politico-economica all'insegna del neoliberismo che comprendeva sia il partito repubblicano che quello democratico. Negli anni ’80 è stata istituita l’economia dell’offerta o Reaganomics, colloquialmente nota come "Robin Hood al contrario".[44]

John K. Galbraith scriveva in The Affluent Society, pubblicato nel 1958: «I benestanti americani – nella loro convenzionale saggezza conservatrice – sono stati a lungo sensibili alla paura dell'espropriazione, una paura che può essere collegata alla propensione di considerare anche le misure riformiste più blande come presagi della rivoluzione. La depressione e soprattutto il New Deal hanno fatto prendere un serio spavento ai ricchi americani».[45] L'era neoliberista e il riemergere della stagnazione economica, accompagnata dalla resurrezione di tali paure ai vertici, hanno portato a una più forte affermazione di potere della classe dominante ad ogni livello statale, con l'obiettivo di invertire i progressi della classe operaia compiuti durante il New Deal e la Great Society, che sono stati erroneamente incolpati della crisi strutturale del capitale.

Con l'aggravarsi della stagnazione degli investimenti e dell'economia nel suo complesso, e con le spese militari non più sufficienti a risollevare il sistema dalla sua stasi come nella cosiddetta "età dell'oro" – che era stata punteggiata da due grandi guerre regionali in Asia – il capitale aveva bisogno di trovare ulteriori sbocchi per il suo enorme surplus. Nella nuova fase del capitale monopolistico finanziario, questo surplus è confluito nel settore finanziario, o FIRE (finanza, assicurazioni e immobili), e nell'accumulo di asset, reso possibile dalla deregolamentazione governativa della finanza, dall'abbassamento dei tassi di interesse (il famoso "Greenspan put") e dalla riduzione delle tasse sui ricchi e sulle imprese. Ciò ha portato alla creazione di una nuova sovrastruttura finanziaria al di sopra dell'economia produttiva, con una rapida crescita della finanza, parallelamente alla stagnazione della produzione. Ciò è stato reso possibile dall'espropriazione dei flussi di reddito in tutta l'economia – attraverso l'aumento dell'indebitamento delle famiglie, dei costi assicurativi e dei costi dell'assistenza sanitaria – insieme alla riduzione delle pensioni, il tutto a spese della popolazione sottostante.[46]

Nel frattempo, c'è stato un massiccio spostamento della produzione aziendale verso il Sud globale, alla ricerca di costi unitari del lavoro più bassi in un processo noto come arbitraggio globale del lavoro. Ciò è stato reso possibile dalle nuove tecnologie delle comunicazioni e dei trasporti e dall'avvio alla globalizzazione di interi nuovi settori dell'economia mondiale. Il risultato è stata la deindustrializzazione dell'economia statunitense.[47] Tutto questo ha coinciso negli anni '90 con la grande crescita del capitale high-tech che ha accompagnato la digitalizzazione dell'economia e lo sviluppo di nuovi monopoli high-tech. L'effetto cumulativo di questi sviluppi è stato l'aumento della concentrazione e della centralizzazione del capitale, della finanza e della ricchezza. Anche se l'economia è stata sempre più caratterizzata da una crescita lenta, le fortune dei ricchi si sono espanse a passi da gigante: i ricchi sono diventati sempre più ricchi e i poveri sono diventati sempre più poveri, mentre nel XXI secolo l'economia degli Stati Uniti ristagnava, afflitta da contraddizioni. La profondità della crisi strutturale del capitale è stata temporaneamente mascherata dalla globalizzazione, dalla finanziarizzazione e dal breve emergere di un mondo unipolare, il tutto sgonfiato dalla Grande Crisi Finanziaria del 2007-2009.[48]

Mentre l'economia capitalista-monopolistica nel nucleo capitalista diventava sempre più dipendente dall'espansione finanziaria, aumentando le pretese finanziarie sulla ricchezza in un contesto di produzione stagnante, il sistema diventava non solo più diseguale, ma anche più fragile. I mercati finanziari sono intrinsecamente instabili, dipendenti come sono dalle vicissitudini del ciclo del credito. Inoltre, man mano che il settore finanziario diventava preponderante rispetto a quello della produzione, che continuava a ristagnare, l'economia era soggetta a livelli di rischio sempre maggiori. Ciò è stato compensato da un maggiore salasso dell'intera popolazione e da massicce iniezioni di capitale da parte dello stato, spesso organizzate dalle banche centrali.[49]

Non c'è una visibile via d'uscita da questo ciclo all'interno del sistema capitalistico-monopolistico. Quanto più la sovrastruttura finanziaria cresce rispetto al sistema produttivo sottostante (o all’economia reale) e quanto più lunghi sono i periodi di oscillazione verso l’alto del ciclo economico-finanziario, tanto più devastanti possono essere le crisi che ne conseguono. Nel XXI secolo, gli Stati Uniti hanno sperimentato tre periodi di crollo/recessione finanziaria, con il crollo del boom tecnologico nel 2000, la Grande Crisi Finanziaria/Grande Recessione derivante dallo scoppio della bolla dei mutui delle famiglie nel 2007-2009, e la profonda recessione innescata dalla pandemia COVID-19 nel 2020.

La svolta neofascista

La Grande Crisi Finanziaria ha avuto effetti duraturi sull’oligarchia finanziaria statunitense e sull’intero corpo politico, portando a significative trasformazioni nelle matrici di potere della società. La rapidità con cui il sistema finanziario sembrava dirigersi verso una “catastrofe nucleare”, in seguito al crollo di Lehman Brothers nel settembre 2008, ha gettato l’oligarchia capitalista e gran parte della società in uno stato di shock, con la crisi che si è rapidamente diffusa in tutto il mondo. Il crollo di Lehman Brothers, che è stato l’evento più drammatico di una crisi finanziaria che si stava già sviluppando da un anno, è stato provocato dal rifiuto del governo, in qualità di prestatore di ultima istanza, di salvare quella che all’epoca era la quarta più grande banca d’investimento statunitense. Ciò era dovuto alla preoccupazione dell’amministrazione di George W. Bush per quello che i conservatori chiamavano il “rischio morale” che poteva derivare dall’assunzione di investimenti altamente rischiosi da parte di grandi aziende con l’aspettativa di essere salvate da interventi governativi. Tuttavia, con l’intero sistema finanziario che traballava in seguito al crollo di Lehman Brothers, è stato organizzato – principalmente dal Federal Reserve Board – un massiccio e senza precedenti tentativo di salvataggio governativo per salvaguardare gli asset di capitale. Questo includeva l’istituzione del “quantitative easing”, ovvero la stampa di moneta per stabilizzare il capitale finanziario, con l’iniezione di trilioni di dollari nel settore delle imprese.

All’interno dell’establishment economico emersero finalmente sia il riconoscimento evidente di decenni di stagnazione secolare – a lungo analizzata dagli economisti marxisti (e redattori di Monthly Review) Harry Magdoff e Paul Sweezy – che il riconoscimento della teoria della “instabilità finanziaria” secondo Hyman Minsky. Le deboli prospettive dell’economia statunitense, che puntavano a una continua stagnazione e finanziarizzazione, sono state riconosciute sia dagli analisti economici ortodossi che da quelli radicali.[50]

Ciò che più spaventava la classe capitalista statunitense durante la Grande crisi finanziaria era il fatto che, mentre l’economia statunitense e quelle di Europa e Giappone erano precipitate in una profonda recessione, l’economia cinese si era momentaneamente fermata per poi riprendersi e raggiungere una crescita prossima alle due cifre. Da quel momento in poi, il destino era chiaro: all’interno dell’economia mondiale l’egemonia statunitense stava rapidamente scemando, di pari passo con l’avanzata apparentemente inarrestabile di quella cinese, minacciando l’egemonia del dollaro e il potere imperiale del capitale monopolistico finanziario statunitense.[51]

La Grande recessione, sebbene abbia portato all’elezione a presidente degli Stati Uniti del democratico Barack Obama, ha visto l’improvvisa esplosione di un movimento politico di estrema destra basato principalmente sulla classe medio-bassa, che si opponeva ai salvataggi dei mutui per le case, ritenendo che questi andassero a beneficio della classe medio-alta e della classe operaia. Le radio conservatrici, che si rivolgevano al pubblico bianco della classe medio-bassa, si erano opposte, fin dall’inizio e durante la crisi, a tutti i salvataggi governativi durante la crisi.[52] Quello che sarebbe poi diventato noto come il movimento di estrema destra “Tea Party”, ha avuto inizio il 19 febbraio 2009. In quella data Rick Santelli, un commentatore della rete economica CNBC, si lanciò in una filippica su come il piano dell’amministrazione Obama per i salvataggi dei mutui per la casa fosse un piano socialista (che paragonò al governo cubano) per costringere le persone a pagare per gli acquisti di case scadenti e per le case di lusso dei loro vicini, violando i principi del libero mercato. Nella sua invettiva, Santelli menzionò il Boston Tea Party e nel giro di pochi giorni gruppi “Tea Party” si organizzarono in diverse zone del paese.[53]

Inizialmente il Tea Party rappresentava una tendenza libertaria finanziata dal grande capitale, in particolare dai grandi interessi petroliferi rappresentati dai fratelli David e Charles Koch – all’epoca tra i primi dieci miliardari degli Stati Uniti – insieme a quella che è nota come la rete Koch di ricchi individui, in gran parte associati al private equity. La sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti del 2010, Citizens United vs Federal Election Commission aveva eliminato la maggior parte delle restrizioni al finanziamento dei candidati politici da parte dei ricchi e delle aziende, consentendo al dark money di dominare la politica statunitense come mai prima d’allora. Ottantasette membri repubblicani del Tea Party sono stati eletti alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, per la maggior parte in distretti Gerrymandering in cui i democratici erano praticamente assenti. Marco Rubio, uno dei favoriti del Tea Party, è stato eletto in Florida al Senato degli Stati Uniti. Ben presto è apparso evidente che il ruolo del Tea Party non era quello di avviare nuovi programmi, ma di impedire il funzionamento del Governo Federale. Il suo più grande risultato è stato il Budget Control Act del 2011, che ha introdotto tetti massimi e sequestri volti a impedire aumenti della spesa federale a beneficio dell’intera popolazione (in contrapposizione ai sussidi alla spesa in conto capitale e militare a sostegno dell’impero), e che portò al blocco, simbolico, delle attività amministrative del 2013. Il Tea Party ha anche introdotto la teoria complottista razzista (nota come birtherism) secondo cui Obama sarebbe un musulmano nato all’estero.[54]

Il Tea Party, che non era tanto un movimento di base quanto, piuttosto, una manipolazione conservatrice basata sui media, ha comunque rivelato che si era creato un momento storico in cui era possibile, per i settori del capitale monopolistico finanziario, mobilitare la classe medio-bassa. Una classe, in maggioranza bianca, che aveva sofferto sotto il neoliberismo ed era – sulla base della propria ideologia connaturata – il settore più nazionalista, razzista, sessista e revanscista della popolazione statunitense. Questo strato era ciò che Mills aveva definito “la retroguardia” del sistema.[55] Composta da manager di basso livello, piccoli imprenditori, piccoli proprietari terrieri rurali, cristiani evangelici bianchi e simili, questa classe/strato medio-basso occupa una collocazione di classe contraddittoria nella società capitalista.[56] Con redditi generalmente ben al di sopra del livello mediano della società, la classe medio-bassa si trova al di sopra della maggioranza della classe operaia e al di sotto della classe medio-alta o dello strato professionale-manageriale. Ha livelli di istruzione inferiori, spesso si identifica con i rappresentanti del grande capitale, ed è caratterizzata dalla “paura di cadere” nel livello della classe operaia.[57] Storicamente, i regimi fascisti sorgono quando la classe capitalista si sente particolarmente minacciata e quando la democrazia liberale non è in grado di affrontare le fondamentali contraddizioni politico-economiche e imperiali della società. Questi movimenti si basano sulla mobilitazione della classe dirigente della classe medio-bassa (o piccola borghesia) insieme ad alcuni dei settori più privilegiati della classe operaia.[58]

Nel 2013, il Tea Party era in declino ma continuava a mantenere un notevole potere a Washington, attraverso l’House Freedom Caucus, istituito nel 2015.[59] Nel 2016, si sarebbe trasformato nel movimento Make America Great Again (MAGA) di Trump, a tutti gli effetti una formazione politica neofascista basata su una stretta alleanza tra settori della classe dominante statunitense e una classe medio-bassa, che ha portato alle vittorie di Trump nelle elezioni del 2016 e del 2024. Nel 2016 Trump ha scelto come compagno di corsa Mike Pence, membro del Tea Party e politico di estrema destra sostenuto da Koch. [60] Nel 2025, Trump avrebbe nominato Rubio, l’eroe del Tea Party, Segretario di Stato. Parlando del Tea Party, Trump ha dichiarato: «Quelle persone sono ancora lì. Non hanno cambiato le loro opinioni. Il Tea Party esiste ancora, solo che ora si chiama Make America Great Again».[61]

Il blocco politico MAGA di Trump non predica più il conservatorismo fiscale, che per la destra era stato un mero strumento per minare la democrazia liberale. Tuttavia, il movimento MAGA mantiene la sua ideologia revanscista, razzista e misogina orientata alla classe medio-bassa, oltre che a una politica estera nazionalista e militarista simile a quella dei Democratici. Il nemico unico che definisce la politica estera di Trump è la Cina in ascesa. Il neofascismo MAGA vede il riemergere del principio del leader, secondo cui le azioni del leader sono considerate inviolabili. Questo principio è stato accompagnato da un maggiore controllo del governo da parte della classe dominante, attraverso le sue fazioni più reazionarie. Nel fascismo classico, in Italia e Germania, la privatizzazione delle istituzioni governative (una nozione sviluppata sotto il nazismo) era associata a un aumento delle funzioni coercitive dello stato e a un’intensificazione del militarismo e dell’imperialismo.[62] In linea con questa logica generale, il neoliberismo ha costituito la base per l’emergere del neofascismo, e ne è scaturita una sorta di cooperazione che ha portato, alla fine, a un’alleanza neofascista-neoliberista che domina lo stato e i media di comunicazione, ed è radicata nelle più alte sfere della classe monopolista – capitalista.[63]

Oggi, il dominio diretto di una parte potente della classe dominante degli Stati Uniti  non può più essere negato. La base familiare-dinastica della ricchezza nei Paesi a capitalismo avanzato, nonostante i nuovi ingressi nel club dei miliardari, è stata dimostrata da recenti analisi economiche, in particolare da Thomas Piketty in Il capitale nel XXI secolo.[64] Coloro che sostenevano che il sistema era gestito da un’élite manageriale o da un amalgama di corporate rich – in cui coloro che accumulavano grandi fortune, le loro famiglie e le loro reti rimanevano sullo sfondo e la classe capitalista non aveva e non poteva avere una forte presa sullo stato – hanno avuto torto. La realtà odierna non è tanto quella della lotta di classe, quanto quella di una guerra di classe. Come ha dichiarato il miliardario Warren Buffett, «C’è una guerra di classe, d’accordo, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra e stiamo vincendo».[65]

La centralizzazione del surplus globale nella classe monopolista-capitalista statunitense ha creato un’oligarchia finanziaria senza pari, e gli oligarchi hanno bisogno dello stato. Ciò è vero soprattutto per il settore dell’alta tecnologia, che dipende profondamente dalla spesa militare statunitense e dalla tecnologia militare sia per i suoi profitti che per la sua stessa crescita tecnologica. Il sostegno a Trump è arrivato principalmente dai miliardari che hanno privatizzato le loro società (che non basavano la loro ricchezza su società pubbliche quotate in borsa e soggette a regolamentazione governativa), e in generale, dal private equity.[66] Tra i maggiori finanziatori della sua campagna del 2024 c’erano Tim Mellon (nipote di Andrew Mellon ed erede della fortuna bancaria dei Mellon); Ike Perlmutter, ex presidente della Marvel Entertainment; il miliardario Peter Thiel, cofondatore di PayPal e proprietario di Palantir, una società di sorveglianza e data mining sostenuta dalla CIA (il vicepresidente degli Stati Uniti JD Vance è un protetto di Thiel); Marc Andreessen e Ben Horowitz, due delle figure di spicco della finanza della Silicon Valley; Miriam Adelson, moglie di Sheldon Adelson, il defunto miliardario proprietario di casinò; il magnate delle spedizioni Richard Uihlein, erede della fortuna della birra Uihlein Schlitz-Brewing; ed Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, proprietario di Tesla, X e SpaceX, che ha fornito più di 250 milioni dollari alla campagna di Trump. Il dominio del dark money, superiore a tutte le elezioni precedenti, rende impossibile tracciare l’elenco completo dei miliardari che sostengono Trump. Tuttavia, è chiaro che gli oligarchi tecnologici sono stati il fulcro del suo sostegno.[67]

È importante notare che il sostegno a Trump da parte della classe capitalista e dagli oligarchi tecnologico-finanziari non proveniva dai Big Six [i sei monopoli] tecnologici principali: Apple, Amazon, Alphabet (Google), Meta (Facebook), Microsoft e (più recentemente) il leader della tecnologia IA, Nvidia. Al contrario, egli è stato il beneficiario dell’high tech della Silicon Valley, del private equity e delle compagnie petrolifere. Sebbene sia un miliardario, Trump è un semplice agente della trasformazione politico-economica della classe dominante che sta avvenendo dietro il velo di un movimento popolare nazional-populista. Come ha scritto il giornalista ed economista scozzese ed ex deputato del Partito Nazionale Scozzese George Kerevan, Trump è un «demagogo, ma è ancora solo un codice delle vere forze di classe».[68]

L’amministrazione Biden ha rappresentato principalmente gli interessi dei settori neoliberisti della classe capitalista, pur facendo alcune concessioni temporanee alla classe operaia e ai poveri. Prima della sua elezione aveva promesso a Wall Street che «nulla sarebbe fondalmentalmente cambiato» se fosse diventato presidente.[69] È stato quindi profondamente ironico che Biden abbia annunciato nel suo discorso di addio al Paese nel gennaio 2025: «Oggi in America sta prendendo forma un’oligarchia di estrema ricchezza, potere e influenza che minaccia letteralmente la nostra intera democrazia, i nostri diritti e le nostre libertà fondamentali e la possibilità per tutti di fare carriera». Questa “oligarchia”, ha dichiarato Biden, è radicata non solo nella «concentrazione di potere e ricchezza», ma anche nella «potenziale ascesa di un complesso tecnologico-industriale». Le fondamenta di questo potenziale complesso tecnologico-industriale che alimenta la nuova oligarchia, ha affermato, sono l’ascesa del “dark money” e dell’Intelligenza Artificiale incontrollata. Riconoscendo che la Corte Suprema degli Stati Uniti era diventata una roccaforte del controllo oligarchico, Biden ha proposto un limite di mandato di diciotto anni per i giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti. Nessun presidente americano in carica dai tempi di Franklin D. Roosevelt ha sollevato con tanta forza la questione del controllo diretto della classe dominante sul governo degli Stati Uniti, ma nel caso di Biden, ciò è avvenuto al momento della sua partenza dalla Casa Bianca.[70]

Non è una novità che negli Stati Uniti ci sia un controllo oligarchico dello stato e che i commenti di Biden siano facili da liquidare, ma sono senza dubbio indotti dalla sensazione di un grande cambiamento in atto nello stato americano, con una presa di potere neofascista. La vicepresidente Kamala Harris, durante la campagna per le elezioni presidenziali, aveva apertamente descritto Trump come “fascista”.[71] Non si trattava solo di manovre politiche e del solito continuo cambio tra i partiti democratico e repubblicano nel duopolio politico statunitense. Nel 2021, la rivista Forbes ha stimato in 118 milioni di dollari il patrimonio netto dei membri del gabinetto di Biden.[72] Per contro, i vertici di Trump comprendono tredici miliardari, con un patrimonio netto complessivo, secondo Public Citizen, di ben 460 miliardi di dollari, tra cui Elon Musk con un patrimonio di 400 miliardi di dollari. Anche senza Musk, il miliardario gabinetto di Trump ha un patrimonio di decine di miliardi di dollari. L’amministrazione precedente di Trump aveva un patrimonio di 3,2 miliardi di dollari.[73]

Nel 2016, come ha notato Doug Henwood, i principali capitalisti statunitensi guardavano a Trump con un certo sospetto; nel 2025 l’amministrazione Trump è un regime di miliardari. La politica di estrema destra di Trump ha portato, secondo Forbes, i 400 personaggi più ricchi d’America all’occupazione diretta di posti di governo, con l’obiettivo di revisionare l’intero sistema politico statunitense. I tre uomini più ricchi del mondo si trovavano sull'affollato palco di Trump durante la sua seconda inaugurazione. Henwood vede questi sviluppi non come la rappresentazione una leadership più efficace da parte della classe dominante, ma come un segno del suo “marciume” interno.[74]

Nell’appendice al suo articolo “The Ruling Class Does Not Rule”, ristampato da Jacobin nel 2020, Block raffigurava Biden come un agente politico ampiamente autonomo all'interno del sistema statunitense. Block sosteneva che, a meno che Biden non istituisse una politica socialdemocratica volta a favorire la classe operaia – cosa che Biden aveva già promesso a Wall Street di non fare – alle elezioni del 2024 avrebbe vinto qualcuno peggiore di Trump.[75] Tuttavia, in una società capitalista  i politici non sono agenti liberi. Sono responsabili soprattutto nei confronti degli elettori. Come dice il proverbio, «chi paga il pifferaio sceglie la musica». Impediti dai loro grandi donatori di spostarsi, anche solo leggermente, a sinistra durante le elezioni, i democratici, schierando alla presidenza Kamala Harris, la vicepresidente di Biden, hanno perso perchè milioni di elettori della classe operaia – che avevano votato per Biden alle elezioni precedenti ed erano stati abbandonati dalla sua amministrazione – hanno abbandonato a loro volta i Democratici. Piuttosto che sostenere Trump, gli ex elettori democratici hanno soprattutto scelto di aderire al più grande partito politico degli Stati Uniti: il Partito dei Non Voters (non votanti).[76]

Ciò che è emerso è qualcosa di peggiore della semplice ripetizione del precedente mandato presidenziale di Trump. Il demagogico regime MAGA è il caso ampiamente visibile di governo politico della classe dominante, sostenuto dalla mobilitazione di un movimento revanscista, principalmente di classe medio-bassa, che costituisce uno stato neofascista, con un leader che ha dimostrato di poter agire impunemente e di essere in grado di oltrepassare le precedenti barriere costituzionali: una vera e propria presidenza imperiale. Trump e Vance hanno forti legami con la Heritage Foundation e con il suo reazionario Project 2025, che fa parte della nuova agenda MAGA.[77] La questione, ora, è fino a che punto può spingersi questa trasformazione politica della destra, e se sarà istituzionalizzata. Ciò dipenderà dall’alleanza tra classe dominante e MAGA, da un lato, e dalla gramsciana lotta per l’egemonia dal basso, dall’altro.

Il marxismo occidentale e la sinistra occidentale in generale hanno a lungo abbandonato la nozione di classe dominante, ritenendola troppo “dogmatica” o una facile “scorciatoia” per analizzare l’élite di potere. Questi punti di vista, pur conformandosi alle finezze intellettuali e al "camminare sul filo del rasoio" caratteristici del mondo accademico mainstream, trasmettono una mancanza di realismo, che è stata debilitante nella comprensione della necessità di lottare in un’epoca di crisi strutturale del capitale.

In un articolo del 2022 intitolato “The U.S. Has a Ruling Class and Americans Must Stand Up to It” (Gli Stati Uniti hanno una classe dominante e gli americani devono tenerle testa), Sanders ha sottolineato che,

I problemi economici e politici più importanti che questo Paese si trova ad affrontare sono gli straordinari livelli di disuguaglianza di reddito e di ricchezza, la rapida crescita della concentrazione della proprietà... e l’evoluzione di questo Paese verso l’oligarchia...

Oggi la disuguaglianza di reddito e di ricchezza è maggiore che in qualsiasi altro momento degli ultimi cento anni. Nel 2022, tre multimiliardari possiedono più ricchezza della metà inferiore della società americana (160 milioni di americani). Oggi, il 45% di tutti i nuovi redditi va all’1% più ricco e i CEO (amministratori delegati delle grandi aziende) guadagnano una cifra record, 350 volte superiore a quella dei lavoratori...

In termini di potere politico, la situazione è la stessa. Un piccolo numero di miliardari e di CEO, attraverso i loro Super Pac (Comitati per l’azione politica), il dark money e i contributi alle campagne elettorali, giocano un ruolo enorme nel determinare chi viene eletto e chi viene sconfitto. Sono sempre più numerose le campagne in cui i Super Pac spendono più soldi per le campagne elettorali rispetto ai candidati. Questi ultimi diventano così i burattini dei loro ricchi burattinai. Nelle primarie democratiche del 2022, i miliardari hanno speso decine di milioni per cercare di sconfiggere i candidati progressisti che si battevano per le famiglie dei lavoratori.[78]

In risposta alle elezioni presidenziali del 2024, Sanders ha sostenuto che l'apparato del Partito Democratico, che ha speso miliardi per perpetrare «una guerra contro l’intero popolo palestinese» abbandonando la classe operaia statunitense, ha visto quest'ultima scegliere il Partito dei Non Votanti. Centocinquanta famiglie miliardarie, ha sostenuto, hanno speso quasi 2 miliardi di dollari per influenzare le elezioni statunitensi del 2024. Ciò ha messo al potere, nel governo federale, un'oligarchia della classe dominante che non finge nemmeno più di rappresentare gli interessi di tutti. Nel combattere queste tendenze, Sanders ha dichiarato: «La disperazione non è un’opzione. Non stiamo combattendo solo per noi stessi. Stiamo combattendo per i nostri figli e per le generazioni future, e per il benessere del pianeta».[79]

Ma come combattere? Di fronte alla realtà di un’aristocrazia operaia dei principali stati monopolisti-capitalisti che si allineava con l’imperialismo, la soluzione di Lenin fu quella di andare più a fondo nella classe operaia, e allo stesso tempo di ampliarla, sostenendo la lotta di coloro che in ogni paese del mondo non hanno nulla da perdere se non le loro catene, e che si oppongono all’attuale monopolio imperialista.[80] In ultima analisi, il collegio elettorale dello stato neofascista della classe dominante di Trump è un esiguo 0,0001%, costituendo quella porzione del corpo politico degli Stati Uniti che il suo miliardario gabinetto può ragionevolmente rappresentare.[81]

Note

[1] Trascrizione integrale del discorso di addio del presidente Biden, New York Times,15.01.2025; Bernie Sanders, The US Has a Ruling Class - And Americans Must Stand Up to It, Guardian, 02.09.2022.

[2] James Burnham, The Managerial Revolution, Putnam and Co., Londra 1941; John Kenneth Galbraith, American Capitalism: The Concept of Countervailing Power, Riverside Press, Cambridge, Massachusetts, 1952; C. Wright Mills, The Power Elite, Oxford University Press, Oxford, 1956, pp. 147–70.

[3] Joseph A. Schumpeter, Capitalism, Socialism and Democracy, Harper Brothers, New York, 1942, pp. 269–88; Robert Dahl, Who Governs?: Democracy and Power in an American City, Yale, New Haven, 1961; John Kenneth Galbraith, The New Industrial State, New American Library, New York, 1967, 1971.

[4] C. B. Macpherson, The Life and Times of Liberal Democracy, Oxford University Press, Oxford, 1977, pp. 77–92.

[5] Mills, The Power Elite, p. 170, 277.

[6] Paul M. Sweezy, Modern Capitalism and Other Essays, Monthly Review Press, New York, 1972, pp. 92–109; G. William Domhoff, Who Rules America, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, New Jersey, 1a edizione, 1967, pp. 7–8, 141–42.

[7] G. William Domhoff, The Power Elite and Its Critics, in C. Wright Mills and The Power Elite, a cura di G. William Domhoff e Hoyt B. Ballard, Beacon Press, Boston, 1968, p. 276.

[8] Nicos Poulantzas, Political Power and Social Classes, Verso, Londra, 1975; Ralph Miliband, The State in Capitalist Society, Quartet Books, Londra, 1969.

[9] Fred Block, The Ruling Class Does Not Rule: Notes on the Marxist Theory of the State, in Socialist Revolution, n. 33, maggio/giugno 1977, pp. 6-28. Nel 1978, l'anno successivo alla pubblicazione dell'articolo di Block, il titolo di Socialist Revolution fu cambiato in Socialist Review, riflettendo l'esplicito passaggio della rivista a una visione politica socialdemocratica.

[10] Fred Block, The Ruling Class Does Not Rule, ristampa del 2020 con nuove conclusioni, Jacobin, 24.04.2020.

[11] Peter Charalambous, Laura Romeo, and Soo Rin Kim, “Trump Has Tapped an Unprecedented 13 Billionaires for His Administration. Here’s Who They Are,” ABC News, December 17, 2024.

[12] Karl Marx, Early Writings, Penguin, Londra, 1974, p. 90.

[13] Karl Polanyi, Aristotle Discovers the Economy, in Trade and Market in the Early Empires: Economies in History and Theory, a cura di Karl Polanyi, Conrad M. Arensberg e Harry W. Pearson, The Free Press, Glencoe, Illinois, 1957, pp. 64–96.

[14] Ernest Barker, The Political Thought of Plato and Aristotle, Russell and Russell, New York, 1959, p. 317; John Hoffman, The Problem of the Ruling Class in Classical Marxist Theory, Science and Society 50, n. 3, Fall 1986, pp. 342–63.

[15] Karl Marx e Friedrich Engels, Manifesto del Partito comunista, Editori Riuniti, Roma, 1974, p. 58.

[16] Karl Marx, Il capitale, Libro primo, in Marx Engels, Opere vol. 30, Edizioni Lotta Comunista, Sesto San Giovanni, 2022, pp. 245-250, 301-306.

[17] Karl Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Editori Riuniti, Roma, 1964

18] Karl Kautsky citato da Miliband, The State in Capitalist Society, p. 51.

[19] Ralph Miliband, Parliamentary Socialism: A Study in the Politics of Labor, Monthly Review Press, New York, 1961.

[20] Miliband, The State in Capitalist Society, pp. 16, 29, 45, 51–52, 55.

[21] Nicos Poulantzas, The Problem of the Capitalist State, in Ideology in Social Science: Readings in Critical Social Theory, a cura di Robin Blackburn, Vintage, New York, 1973, p. 245.

[22] Ralph Miliband, Reply to Nicos Poulantzas,” in Ideology in Social Science, a cura di Blackburn, pp. 259–60.

[23] Nicos Poulantzas, State, Power, Socialism, New Left Books, Londra, 1978; Karl Marx e Friedrich Engels, Writings on the Paris Commune, Monthly Review Press, New York, 1971; V. I. Lenin, Collected Works, Progress Publishers, Mosca, senza data, vol. 25, pp. 345-539. Sul passaggio di Poulantzas alla socialdemocrazia, vedi Ellen Meiksins Wood, The Retreat from Class, Verso, Londra, 1998, pp. 43–46.

[24] Domhoff, Who Rules America?, edizione del 1967, pp. 1–2, 3; Paul M. Sweezy, The Present as History, Monthly Review Press, New York, 1953, pp. 120–38.

[25] G. William Domhoff, The Powers That Be: Processes of Ruling-Class Domination in America, Vintage, New York, 1978, p. 14.

[26] G. William Domhoff, Who Rules America?, Routledge, Londra, 8a edizione, 2022, pp. 85–87. Nell'edizione del 1967 del suo libro, Domhoff aveva criticato il fatto che Mills avesse accorpato i ricchi (i proprietari) e i manager nella categoria dei ricchi d'impresa, cancellando così questioni determinanti. Domhoff, Who Rules America?, edizione del 1967, p. 141. Sul concetto di praticità liberale si veda C. Wright Mills, The Sociological Imagination”, Oxford, New York, 1959, pp. 85–86; John Bellamy Foster, Liberal Practicality and the U.S. Left, in Socialist Register 1990: The Retreat of the Intellectuals, a cura di Ralph Miliband, Leo Panitch e John Saville, Merlin Press, Londra, 1990, pp. 265–89.

[27] Stanislav Menshikov, Millionaires and Managers, Progress Publishers, Mosca, 1969, pp. 5–6.

[28] Menshikov, Millionaires and Managers, p. 7, 321.

[29] Sweezy, The Present as History, pp. 158–88.

[30] Menshikov, Millionaires and Managers, p. 322.

[31] Menshikov, Millionaires and Managers, pp. 324–25.

[32] Menshikov, Millionaires and Managers, pp. 325, 327.

[33] Menshikov, Millionaires and Managers, pp. 323–24.

[34] Block, The Ruling Class Does Not Rule, pp. 6–8, 10, 15, 23; Max Weber, Economy and Society, vol. 2, University of California Press, Berkeley, 1978, pp. 1375-80.

[35] Block, The Ruling Class Does Not Rule, pp. 9–10, 28.

[36] Wood, The Retreat from Class.

[37] Geoff Hodgson, The Democratic Economy: A New Look at Planning, Markets and Power, Penguin, Londra,1984, p. 196.

[38] Paul A. Baran e Paul M. Sweezy, Monopoly Capital, Monthly Review Press, New York, 1966, p. 339.

[39] Baran e Sweezy, Monopoly Capital, p. 155.

[40] Sull'età d'oro del capitalismo vedi Eric Hobsbawm, The Age of Extreme, Vintage, New York, 1996, pp. 257–86; Michael Perelman, Railroading Economics: The Creation of the Free Market Mythology, Monthly Review Press, New York, 2006, pp. 175–98.

[41] Baran e Sweezy, Monopoly Capital, p. 108, 336.

[42] Sulla stagnazione economica, la finanziarizzazione e la ristrutturazione, si veda Harry Magdoff e Paul M. Sweezy, Stagnation and the Financial Explosion, Monthly Review Press, New York, 1986; Joyce Kolko, Restructuring World Economy, Pantheon, New York, 1988; John Bellamy Foster e Robert W. McChesney, The Endless Crisis, Monthly Review Press, New York, 2012.

[43] Lewis F. Powell, Confidential Memorandum: Attack on the American Free Enterprise System, 23.08.1971, Greenpeace, greenpeace.org; John Nichols e Robert W. McChesney, Dollarocracy: How the Money and Media Election Complex Is Destroying America, Nation Books, New York, 2013, pp. 68–84.

[44] Robert Frank, ‘Robin Hood in Reverse’: The History of a Phrase, CNBC, 07.08.2012.

[45] John Kenneth Galbraith, The Affluent Society, New American Library, New York, 1958, pp. 78–79.

[46] See Fred Magdoff e John Bellamy Foster, The Great Financial Crisis, Monthly Review Press, New York, 2009.

[47] John Smith, Imperialism in the Twenty-First Century, Monthly Review Press, New York, 2016; Intan Suwandi, Value Chains: The New Economic Imperialism, Monthly Review Press, New York, 2019. L'applicazione di criteri di finanziarizzazione alle aziende ha alimentato le ondate di fusioni degli anni '80 e '90, con ogni sorta di acquisizioni ostili di aziende “sottoperformanti” o “sottovalutate”, che spesso portavano alla cannibalizzazione dell'azienda e alla vendita di sue parti al miglior offerente.. Si veda Perelman, Railroading Economics, pp. 187–96.

[48] István Mészáros, The Structural Crisis of Capital, Monthly Review Press, New York, 2010.

[49] Vedi Fred Magdoff e John Bellamy Foster, Grand Theft Capital: The Increasing Exploitation and Robbery of the U.S. Working Class, Monthly Review 75, n. 1, maggio 2023, pp. 1–22.

[50] Vedi John Cassidy, How Markets Fail: The Logic of Economic Calamities, Farrar, Straus, and Giroux, New York, 2009; James K. Galbraith, The End of Normal, Simon and Schuster, New York, 2015; Foster e McChesney, The Endless Crisis; Hans G. Despain, Secular Stagnation: Mainstream Versus Marxian Traditions, Monthly Review 67, n. 4, settembre 2015, pp. 39–55.

[51] John Bellamy Foster e Brett Clark, Imperialism in the Indo-Pacific, Monthly Review 76, n. 3, luglio-agosto 2024, pp. 6–13, trad.it. Imperialismo nell'Indo-Pacifico: un'introduzione, Antropocene.org, 26.07.2024.

[52] Matthew Bigg, Conservative Talk Radio Rails against Bailout, Reuters, 26.09.2008.

[53] Geoff Kabaservice, The Forever Grievance: Conservatives Have Traded Periodic Revolts for a Permanent Revolution, Washington Post, 04.12.2020; Michael Ray, The Tea Party Movement, Encyclopedia Britannica, 16.01.2025, britannica.com; Anthony DiMaggio, The Rise of the Tea Party: Political Discontent and Corporate Media in the Age of Obama, Monthly Review Press, New York, 2011.

[54] Kabaservice, The Forever Grievance; Suzanne Goldenberg, Tea Party Movement: Billionaire Koch Brothers Who Helped It Grow, Guardian, 13.10.2010; Doug Henwood, Take Me to Your Leader: The Rot of the American Ruling Class, Jacobin, 27.04.2021.

[55] C. Wright Mills, White Collar, Oxford University Press, New York, 1953, pp. 353–54.

[56] Sul concetto di contraddittorie collocazioni di classe, vedi Erik Olin Wright, Class, Crisis and the State, Verso, Londra, 1978, pp. 74–97.

[57] Barbara Ehrenreich, Fear of Falling: The Inner Life of the Middle Class, HarperCollins, New York, 1990; Nate Silver, The Mythology of Trump’s ‘Working Class’ Support, ABC News, 03.05.2016; Thomas Ogorzalek, Spencer Piston e Luisa Godinez Puig, White Trump Voters Are Richer than They Appear, Washington Post, 12.11.2019.

[58] L'analisi si basa su, John Bellamy Foster, Trump in the White House, Monthly Review Press, New York, 2017.

[59] Kabaservice, The Forever Grievance.

[60] Liza Featherstone, It’s a Little Late for Mike Pence to Pose as a Brave Dissenter to Donald Trump, Jacobin, 08.01.2021.

[61] Trump, citazione in, Kabaservice, The Forever Grievance.

[62] Foster, Trump in the White House, pp. 26–27.

[63] Karl Marx, Herr Vogt: A Spy in the Worker’s Movement, New Park Publications, Londra, 1982, p. 70.

[64] Thomas Piketty, Capital in the Twenty-First Century, Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts, 2014, pp. 391–92.

[65] Warren Buffett, citazione in, Nichols e McChesney, Dollarocracy, p. 31.

[66] Sul crescente ruolo del private equity nell'economia, vedi Allison Heeren Lee, Going Dark: The Growth of Private Markets and the Impact on Investors and the Economy, U.S. Securities and Exchange Commission, 12.10.2021, sec.gov; Brendan Ballou, Plunder: Private Equity’s Plan to Pillage America, Public Affairs, New York, 2023; Gretchen Morgenson e Joshua Rosner, These Are the Plunderers: How Private Equity Runs-and Wrecks-America, Simon and Schuster, New York, 2023.

[67] George Kerevan, The American Ruling Class Is Shifting Towards Trump, Brave New Europe, 19.07.2024, braveneweurope.com; Anna Massoglia, Outside Spending on 2024 Elections Shatters Records, Fueled by Billion-Dollar ‘Dark Money’ Infusion, Open Secrets, 05.11.2024, opensecrets.org.

[68] Kerevan, The American Ruling Class Is Shifting Towards Trump.

[69] Igor Derysh, Joe Biden to Rich Donors: ‘Nothing Would Fundamentally Change’ If He’s Elected, Salon, 19.06.2019.

[70] Biden, Full Transcript of President Biden’s Farewell Address.

[71] Will Weissert e Laurie Kellman, What is Fascism? And Why Does Harris Say Trump is a Fascist?, Associated Press, 24.10.2024.

[72] Dan Alexander e Michela Tindera, The Net Worth of Joe Biden’s Cabinet, Forbes, 29.06.2021.

[73] Rick Claypool, Trump’s Billionaire Cabinet Represents the Top 0.0001%, Public Citizen, 14.01.2025, citizen.org; Peter Charalambous, Laura Romero e Soo Rin Kim, Trump Has Trapped and Uprecedented 13 Billionaires for his Administration. Here’s Who They Are, ABC News, 17.12.2024.

[74] Adriana Gomez Licon e Alex Connor, Billionaires, Tech Titans, Presidents: A Guide to Who Stood Where at Trump’s Inauguration, Associated Press, 21.01.2025; Doug Henwood, Take Me to Your Leader: The Rot of the American Ruling Class, Jacobin, 27.04.2021.

[75] Block, The Ruling Class Does Not Rule, ristampa con nuove conclusioni, 2020.

[76] Domenico Montanaro, Trump Falls Just Below 50% in Popular Vote, But Gets More Than in Past Election, National Public Radio, 03.12.2024, npr.org; Redazione, Notes from the Editors, Monthly Review 76, n. 8, gennaio 2025. Sul significato storico e teorico del "partito dei non votanti", vedi Walter Dean Burnham, The Current Crisis in American Politics, Oxford University Press, Oxford, 1983.

[77] Kerevan, The American Ruling Class Is Shifting Towards Trump; Alice McManus, Robert Benson e Sandana Mandala, Dangers of Project 2025: Global Lessons in Authoritarianism, Center for American Progress, 09.10.2024.

[78] Bernie Sanders, The US Has a Ruling Class-And Americans Must Stand Up to It.

[79] Bernie Sanders, Bernie’s Statement about the Election, Occupy San Francisco, 07.11.2024, occupysf.net; Jake Johnson, Sanders Lays Out Plan to Fight Oligarchy as Wealth of Top Billionaires Passes $10 Trillion, Common Dreams, 31.12.2024.

[80] V. I. Lenin, Collected Works, vol. 23, Progress Publishers, Mosca, senza data, p. 120.

[81] Claypool, Trump’s Billionaire Cabinet Represents the Top 0.0001%.

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Il PKK si scioglie, le SDF subiscono pressioni da Turchia e Siria

Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) ha ufficialmente sciolto la sua struttura organizzativa e dichiarato la fine della lotta armata dopo 52 anni – un cambiamento senza precedenti con conseguenze di vasta portata non solo per la Turchia, ma anche per le dinamiche curde in Siria e Iraq.

Sebbene la decisione sia inquadrata come un passo verso un impegno democratico pacifico, essa giunge in un contesto di crescente pressione militare turca, crescente coordinamento tra Ankara e Baghdad e crescente pressione sulle Forze Democratiche Siriane (SDF), che Ankara considera allineate con l’ala siriana del PKK. L’annuncio pone ora le SDF in una posizione critica, dato che Damasco spinge per il loro disarmo e la loro integrazione nell’amministrazione centrale.

La decisione del PKK ha fatto seguito a un congresso segreto ed eccezionale tenutosi all’inizio di questo mese in località non rivelate, probabilmente nel nord dell’Iraq, a cui hanno partecipato 232 delegati. Nella sua dichiarazione finale, il partito ha dichiarato di aver compiuto la sua “missione storica” ​​resistendo alla repressione dello stato turco e gettando le basi per una risoluzione democratica della lotta curda. Invitava il parlamento turco ad assumersi la sua “responsabilità storica” concedendo il riconoscimento giuridico all’identità, alla lingua e alla cultura curda.

Tuttavia, l’obiettivo fondante del partito di istituire uno stato curdo indipendente rimane irrealizzato. L’annuncio è stato fatto senza alcuna corrispondente riforma costituzionale o concessione di decentramento da parte di Ankara. Lo scioglimento può anche essere visto come una ritirata politica di fronte alle offensive militari turche in Iraq e Siria, all’assedio regionale causato dall’alleanza di Ankara con Baghdad e alla crescente influenza della Turchia sulla Siria, in particolare dopo la caduta del regime di Assad e l’ascesa al potere di Donald Trump, che ha rafforzato la strategia espansionistica di Erdoğan.

Lo scioglimento del PKK ha ripercussioni immediate sulle SDF, che ora si trovano ad affrontare crescenti pressioni sia da parte di Ankara che di Damasco. La Turchia insiste sulla necessità di estendere il disarmo al territorio siriano, rivendicando l’allineamento delle SDF con il PKK. Sebbene diversi politici curdi ritengano che le SDF abbiano sempre sottolineato la loro mancanza di affiliazione militare con il PKK, affermando che si tratta di una forza militare siriana che impiega le sue capacità per combattere il terrorismo, in particolare l’ISIS, con il supporto degli Stati Uniti, Ankara indica la presenza di combattenti stranieri del PKK nel nord-est della Siria come prova di legami duraturi. Damasco, nel frattempo, sta spingendo per l’integrazione delle SDF nelle strutture statali.

Il Ministro degli Esteri siriano Asaad al-Shibani, in una conferenza stampa tenuta ad Ankara a seguito di un incontro trilaterale tra i ministri degli Esteri siriano, turco e giordano, ha definito “importante” la decisione del PKK, confermando che sono in corso colloqui per reintegrare le regioni controllate dalle SDF sotto l’autorità del governo centrale. Al-Shibani ha aggiunto: “I ritardi nell’attuazione dell’accordo non faranno altro che prolungare il caos e le interferenze straniere”. Ha chiarito che la Siria sta entrando in una nuova fase, che include i piani per “formare un parlamento nazionale”.

Il comandante delle SDF, Mazloum Abdi, ha “apprezzato” la mossa del PKK, ritenendola un possibile inizio di una fase politica pacifica. “Speriamo che tutte le parti intraprendano passi avanti significativi”, ha affermato. Hanno fatto eco altri esponenti politici curdi, con Ahmed Suleiman, vicesegretario del Partito Democratico Progressista Curdo, che ha definito la decisione “una svolta che spoglia la Turchia della sua narrativa terroristica e afferma la causa curda come una legittima lotta nazionale”. Ha sottolineato che questo passo “aprirà le porte alla comunità internazionale, (...) per fornire maggiore sostegno e pressione al fine di trovare una soluzione alla lotta curda in Turchia”.

In Siria, lo scioglimento del PKK è visto da molte fonti curde come un potenziale catalizzatore per la ripresa dell’accordo al Sharaa-Abdi, attualmente in stallo: si tratta di un accordo politico provvisorio tra le SDF e l’amministrazione centrale siriana. “Il clima generale di pace nella regione deve essere equo nei confronti dei curdi, garantire loro i diritti culturali e sociali e riconoscerli come una componente fondamentale della società siriana, con una propria identità e cultura”, hanno dichiarato fonti curde ad Al-Akhbar, pur riconoscendo che “la costruzione della fiducia tra tutte le parti deve ancora essere rafforzata”.

Inoltre, una fonte curda ha rivelato ad Al-Akhbar che “nei prossimi giorni si terranno diversi incontri con i partiti curdi che hanno partecipato alla Conferenza nazionale curda [in Siria] per discutere la formazione di una delegazione unificata e discutere i risultati adottati con le autorità siriane”. Ha osservato che “la visione iniziale dei membri della delegazione è definita e gli incontri mirano a confermare i loro nomi prima dell’avvio effettivo del dialogo”.

Da parte loro, i funzionari turchi hanno accolto con favore l’annuncio del PKK. Il portavoce del Partito Giustizia e Sviluppo, Ömer Çelik, ha affermato che la decisione ha segnato una “pietra miliare nella costruzione di una Turchia libera dal terrorismo”, attribuendo il merito a Erdoğan e al leader del Partito del Movimento Nazionalista, Devlet Bahçeli. Tuttavia, il colonnello in pensione e analista antiterrorismo Coşkun Başbuğ ha insistito sul fatto che “smantellare la sola ala militare non è sufficiente senza smantellare l’infrastruttura organizzativa del partito”, osservando che il Ministro degli Esteri turco Hakan Fidan condivide “la stessa opinione”.

La Turchia considera l’annuncio del partito una grande vittoria sui “sostenitori separatisti”. CNN Turk ha riferito che sono in corso discussioni sulla raccolta e la consegna delle armi del PKK in tre aree designate nel nord dell’Iraq, sotto la supervisione delle Nazioni Unite. Ora che questo obiettivo è stato raggiunto, resta l’attesa per ciò che Ankara farà in seguito, in particolare per quanto riguarda il parlamento, che dovrebbe approvare emendamenti costituzionali e legali per riconoscere l’identità curda, una richiesta fondamentale ma non l’unica del movimento curdo in Turchia, mentre il destino della leadership del PKK resta incerto.

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Istat: inflazione di aprile stabile come a marzo, ma il carrello della spesa aumenta

Le ultime statistiche aggiornate e diffuse da parte dell’Istat per ciò che riguarda l’inflazione del mese di aprile mostrano come sia spesso necessario saper leggere i dati per capire dove sta ‘la fregatura’. Ad esempio, quelli sugli aumenti di prezzi devono essere ben compresi per capire quali settori sociali ne subiscono gli effetti peggiori.

Ad esempio, l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività (NIC), al lordo dei tabacchi, è aumentato dello 0,1% su base mensile, ma su base annuale è rimasta stabile rispetto a marzo (+1,9%). Questo valore è stato salutato come un segnale positivo, poiché è un dato leggermente inferiore rispetto alle stime preliminari (+2%).

Sia chiaro: l’inflazione è comunque in positivo e le retribuzioni, nonostante i recenti rinnovi di vari contratti nazionali, non riescono a stare assolutamente al passo dei prezzi. A febbraio 2025 i salari reali del settore privato non agricolo risultavano ancora inferiori dell’8% rispetto ai livelli del 2021, mentre l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) ha segnalato che l’Italia è il paese del G20 ad aver subito la perdita più marcata in termini di potere d’acquisto dal 2008.

Ma se inoltre andiamo a scomporre il dato sull’inflazione e osserviamo le varie voci che lo compongono, notiamo che gli alimentari passano dal +2,4% al +3% e i servizi relativi ai trasporti schizzano da +1,6% a +4,4%. Anche l’inflazione di fondo, l’indice che fotografa l’andamento dei prezzi senza i prodotti alimentari ed energetici – più volatili – passa dal +1,7% di marzo al +2,1% di aprile.

Chiudiamo con il ‘carrello della spesa’, ovvero i prezzi dei beni alimentari, per la cura della casa e della persona, e dunque la spesa tipica di una famiglia, che ha registrato l’aumento del tasso tendenziale di variazione, da +2,1% a +2,6%. È chiaro che questo tipo di acquisti impattano in maniera più pesante sui redditi da lavoro, cioè sulla maggioranza della popolazione.

Ricordiamo che, sempre secondo l’Istat, nel 2024 si finiva entro il rischio di povertà con un reddito netto di circa 1.030 euro al mese, e nel 2022 l’ente di statistica calcolava che uno stipendio su tre tra i lavoratori dipendenti del privato rimaneva sotto i mille euro lordi mensili. Fa ancora più arrabbiare, dunque, la rivendicazione da parte di Giorgia Meloni degli ottimi risultati del comparto turistico.

Intervenendo alla 75esima assemblea di Federalberghi, dove è stata accolta con entusiasmo la notizia del superamento della Francia per il numero di presenze nel 2024 (458 milioni), la presidente del Consiglio ha parlato del settore come “uno dei motori trainanti dell’economia italiana”.

Tutti sanno che la turistificazione non solo ha portato alla trasformazione delle città in una merce, in cui ogni spazio deve essere messo a valore, e in cui i servizi ai cittadini invece peggiorano continuamente. Il turismo è anche uno dei settori in cui il lavoro è spesso precario e malpagato, e che quindi più di tutti contribuisce ai bassi salari che strozzano la gente comune.

Considerarlo uno dei motori dell’economia significa piuttosto dimostrare di non aver alcun piano strategico per lo sviluppo del paese. Intanto, i portafogli di lavoratori e pensionati continuano a soffrire la crisi.

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19/05/2025

Leningrad Cowboys Go America (1989) di Aki Kaurismäki - Minirece

Appunti sui libri II e III del Capitale di Marx / 5 parte

di Carlo Formenti

5. Crisi, centralizzazione, caduta del saggio del profitto

Analizzerò il contributo di Marx all’analisi delle crisi capitalistiche partendo dal seguente presupposto: dal Capitale non è a mio avviso possibile derivare un modello monocausale del fenomeno, benché si sia tentato di farlo imputando, di volta in volta, la caduta del saggio di profitto, la sovrapproduzione, il sottoconsumo, le turbolenze finanziarie, ecc. La mia tesi è che, mentre i motivi delle crisi variano a seconda del periodo storico in cui si sono verificate, esse sono tutte associate a due caratteristiche strutturali del modo di produzione capitalistico che stanno “a monte” delle cause contingenti: il carattere “anarchico” di tale modo di produzione, cioè l’assenza di una programmazione razionale del processo complessivo di riproduzione sociale, e la necessità di garantire a ogni costo la continuità del ciclo complessivo del capitale, pena la rovina.

Inizio da quest’ultimo argomento, che Marx tratta nei primi quattro capitoli del Libro II (“Il ciclo del capitale denaro”, “Il ciclo del capitale produttivo”, “Il ciclo del capitale merce”, “Le tre figure del processo ciclico”). A pagina 83 del capitolo I leggiamo (le sottolineature sono mie) :
“Il processo ciclico del capitale è quindi unità di circolazione e produzione; include l’una e l’altra. In quanto le fasi D-M, M’-D’ sono atti circolatori, la circolazione del capitale fa parte della circolazione generale delle merci; ma, in quanto sono sezioni funzionalmente determinate, stadi del ciclo del capitale che appartiene non soltanto alla sfera di circolazione, ma anche alla sfera di produzione, il capitale [denaro] descrive entro la circolazione generale delle merci un ciclo suo proprio. Nel primo stadio, la circolazione generale delle merci gli permette di rivestire la forma nella quale potrà funzionare come capitale produttivo; nel secondo gli permette di spogliarsi della sua funzione di merce, in cui non può rinnovare il proprio ciclo, e nello stesso tempo gli apre la possibilità di separare il suo proprio ciclo di capitale dalla circolazione del plusvalore ad esso concresciuto. Il ciclo del capitale denaro è quindi la forma fenomenica più unilaterale, dunque la più evidente e caratteristica del ciclo del capitale industriale, il cui fine e motivo animatore – valorizzazione del valore, creazione di denaro, accumulazione – vi è rappresentato in modo che salta agli occhi”.
Per inciso, sottolineo che queste righe esprimono, con parole diverse, lo stesso concetto di un altro passaggio in cui Marx scrive che, per il capitalista, la forma ideale di attività è quella sintetizzata dalla formula D-D, cioè la creazione di denaro mediante denaro, mentre la fase produttiva del ciclo è solo un mezzo necessario, un impiccio del quale egli non può fare a meno per realizzare il suo vero obiettivo. Teniamo presente questo punto cruciale (che in sostanza descrive i processi di finanziarizzazione in cui è immerso l'occidente capitalistico – ndR) e andiamo avanti.

A pagina 100 (siamo nel capitolo II, dedicato al ciclo del capitale produttivo) Marx, ragionando sulla possibilità che la metamorfosi D-M, che prelude all’acquisizione delle risorse necessarie all’avvio del processo produttivo, si imbatta in qualche ostacolo come, per esempio, una carenza di mezzi di produzione sul mercato, scrive che in questo caso “il flusso del processo di riproduzione è interrotto, esattamente come quando il capitale resta immobile in forma di capitale merce [cioè in caso di carenza di sbocchi di mercato]. La differenza è però questa: esso può persistere nella forma di denaro più a lungo che nella transeunte forma merce. Non cessa di essere denaro quando non funziona come capitale denaro, ma cessa di essere merce, e in generale, valore d’uso, quando viene trattenuto troppo a lungo nella sua funzione di capitale merce”.

Con ciò siamo arrivati al nodo cruciale che Marx sintetizza all'inizio del Capitolo IV (“Le tre figure del processo ciclico”): “La continuità è il segno caratteristico della produzione capitalistica” (p. 132), dispiegando ulteriormente il concetto nella pagina successiva: “Tutte le parti del capitale percorrono nell’ordine il processo ciclico, occupano contemporaneamente diversi stadi dello stesso. Così il capitale industriale, nella continuità del suo ciclo, viene a trovarsi contemporaneamente in tutti i suoi stadi e nelle diverse forme di funzione che vi corrispondono (...) Il ciclo reale del capitale industriale nella sua continuità (sottolineatura mia) è, quindi, non soltanto unità di processo di circolazione e processo di produzione, ma unità di tutti e tre i suoi cicli”.
Ed è precisamente nel binomio unità-continuità del ciclo che si annida il seme della crisi: “Ogni arresto nel susseguirsi delle parti getta lo scompiglio nel loro giustapporsi; ogni arresto in uno stadio ne provoca uno più o meno grave in tutto il ciclo non solo della parte di capitale che si è fermata, ma della totalità del capitale individuale” (p. 134).
Detto, per inciso, che uno dei fattori che possono provocare un arresto sono le lotte operaie (1), va chiarito che quanto abbiamo appena letto vale tanto per il capitale individuale quanto per quello complessivo, dal momento che “la produzione capitalistica esiste e può continuare ad esistere solo finché il valore capitale venga valorizzato, cioè descriva il suo processo ciclico come valore resosi autonomo; finché, dunque, le rivoluzioni di valore vengano in qualche modo superate e compensate (sottolineatura mia) (p. 136).

L’imperativo di garantire la continuità del processo di valorizzazione, assieme all’assenza di regolazione sociale della produzione, fa sì che possa accadere, anche se e quando la produzione viaggia a pieno regime, che “una gran parte delle merci sia entrata solo in apparenza nel consumo [mentre] in realtà giaccia invenduta (...) si trovi ancora, di fatto, sul mercato. Flusso di merci segue a flusso di merci, finché accade che il flusso passato risulti solo in apparenza inghiottito dal consumo. I capitali merce si contendono l’un l'altro il posto sul mercato. Pur di vendere, gli ultimi arrivati vendono sotto prezzo [sono indotti a] vendere a qualunque prezzo per essere in grado di pagare. Questa vendita non ha assolutamente nulla a che vedere con lo stato effettivo della domanda: ha solo a che vedere con la domanda di pagamento, con l’assoluta necessità di convertire merce in denaro. Scoppia allora la crisi” (Libro II, pp. 102-103).

Parliamo dunque qui di sovrapproduzione, la cui altra faccia è il sottoconsumo, a proposito del quale Marx scrive (Libro II, p. 101) “per la classe dei capitalisti, la costante esistenza della classe operaia è necessaria [non solo per produrre plusvalore, ma perché] è anche necessario il consumo (...) del lavoratore”; concetto che nel Libro III (p.610) approfondisce così: “la capacità di consumo degli operai è limitata sia dalle leggi del salario, sia dal fatto di essere impiegati solo finché è possibile impiegarli con profitto”; per concludere poco dopo che “La causa ultima di ogni vera crisi resta sempre la miseria e la limitatezza dei consumi delle masse rispetto alla tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive come se il loro limite fosse soltanto costituito dalla capacità di consumo assoluta della società”. La contraddizione tra la fame assoluta di profitto del capitalista e la limitata capacità di consumo delle masse, ci fa capire che la sovrapproduzione è sempre relativa, come Marx ribadisce in questo lungo passaggio: “Non è che si producano troppi mezzi di sussistenza in rapporto alla popolazione esistente. Al contrario. Se ne producono troppo pochi per poter soddisfare in modo decente e umano la massa della popolazione (...) periodicamente si producono troppi mezzi di lavoro e mezzi di sussistenza, per farli funzionare come mezzi di sfruttamento dei lavoratori a un saggio di profitto dato. Si producono troppe merci per poter realizzare nelle condizioni di distribuzione e nei rapporti di consumo dati dalla produzione capitalistica il valore in esse contenuto e il plusvalore ivi racchiuso, e riconvertirli in nuovo capitale (...) Non è che si produca troppa ricchezza. È che si produce periodicamente troppa ricchezza nella sua contraddittoria forma capitalista.” (Libro III, pp. 329-330)

In sintesi: il carattere anarchico del modo di produzione capitalistico genera la dismisura della produzione; conseguenza della dismisura è la possibilità che si diano interruzioni della continuità del ciclo di accumulazione; l’interruzione genera la crisi che, nei passaggi appena citati, assume la forma della sovrapproduzione, che però non è la causa, bensì l’effetto delle contraddizioni strutturali del modo di produzione.

L’interruzione del ciclo, tuttavia, può essere provocata anche da altri fattori. All’inizio del Capitolo XXVI del Libro III (“Accumulazione del capitale denaro e suo influsso sul saggio di interesse”, pp.525 e segg.), Marx cita il seguente estratto dal volume The Currency Theory reviewed (1845): “In Inghilterra ha luogo una costante accumulazione di ricchezza addizionale [una gran parte della quale era presumibilmente il frutto del saccheggio dell’India e altre colonie, NdA], che tende infine ad assumere la forma del denaro. Ma dopo l’aspirazione a guadagnar denaro, il desiderio più ardente è quello di disfarsene in questa o quella forma d’investimento che arrechi un interesse o profitto; giacché il denaro in quanto tale non produce ricchezza (sottolineatura mia).

Trova qui conferma la tesi marxiana secondo cui il plusvalore irrigidito in tesoro “costituisce capitale denaro latente, perché fin quando persiste nella forma denaro, non può svolgere funzioni di capitale” (Libro II, pp. 104-105). Ma colpisce ancor più l’attualità di queste righe, che avremmo potuto leggere su un giornale americano ai primi del Duemila, poco prima dell’esplosione della bolla speculativa dei subprime. Sappiamo infatti che, a partire dagli anni Ottanta del Novecento, le enormi masse di denaro affluite negli Stati Uniti da ogni parte del mondo, anche in conseguenza dello sganciamento del dollaro dall’oro, faticavano a trovare impieghi remunerativi nel settore industriale, il che ha provocato un’accelerazione mostruosa del processo di finanziarizzazione. Queste situazioni di “pletora di capitale denaro” sono destinate, scrive Marx, ad aumentare “via via che si sviluppa il credito”, spingendo l’economia al di là dei limiti connaturati al modo di produzione capitalistico, per cui generano “eccesso di commercio, eccesso di produzione, eccesso di credito” (Libro III, p. 637). Profezia che ha avuto clamorosa conferma nella seconda metà del secolo scorso, allorché, esaurita la spinta alla crescita industriale, l’eccesso si è progressivamente concentrato nel settore finanziario. E poiché nemmeno la finanza può crescere all’infinito, si è disperatamente tentato di farla crescere su se stessa, dilatando l’economia del debito, le scommesse sul futuro, i titoli speculativi ad alto rischio, ecc. Trasformando cioè l’economia in una immane bisca, finché alcune puntate troppo azzardate – vedi la cartolarizzazione massiva di debiti inesigibili - hanno generato il crac. Il ciclo è sempre il solito: il carattere anarchico del modo di produzione genera la dismisura (in questo caso finanziaria), la dismisura provoca l’interruzione del ciclo, l’interruzione provoca la crisi.

*****

Nella seconda parte di questa quinta e ultima tappa del nostro viaggio attraverso i Libri II e III del Capitale ci occuperemo della concentrazione e centralizzazione dei capitali, nonché della cosiddetta legge della caduta del saggio di profitto, fenomeni che, come vedremo, Marx mette in relazione. Approcciamo il problema del saggio di profitto partendo dal concetto di composizione organica del capitale. “Un certo numero di operai corrisponde ad una certa quantità di mezzi di produzione; quindi una certa quantità di lavoro vivo ad una certa quantità di lavoro già oggettivato nei mezzi di produzione”, scrive Marx (Libro III, p.191), quindi prosegue: “Questo rapporto è molto diverso in diverse sfere di produzione, spesso in diversi rami di una sola e medesima industria, quantunque occasionalmente possa essere esattamente o quasi lo stesso in rami d’industria assai distanti fra loro. Questo rapporto costituisce la composizione tecnica del capitale, ed è la vera base della sua composizione organica”.
In conclusione, anche se si possono dare, a seconda del valore dei mezzi di produzione messi in moto dalla forza lavoro, differenze più o meno grandi fra composizione tecnica e composizione di valore, la definizione completa del concetto che ci viene data da Marx è la seguente: “Chiamiamo composizione organica del capitale la sua composizione di valore, nella misura in cui è determinata dalla sua composizione tecnica e la rispecchia” (Libro III, p. 192).

A mano a mano che aumenta la concentrazione del capitale, che vengono introdotti nuovi mezzi di produzione, che il progresso tecnologico e scientifico alimentano l’incessante sviluppo della produttività del lavoro, che quantità crescenti di macchine vengono messe all’opera dal lavoro vivo “questo graduale aumento del capitale costante in rapporto al capitale variabile avrà necessariamente per risultato una graduale caduta del saggio di profitto pur restando invariato il saggio di plusvalore, ovvero il grado di sfruttamento del lavoro da parte del capitale” (Libro III, p. 272).
La legge appena enunciata, chiarisce Marx poche pagine dopo “non esclude affatto che la massa assoluta del lavoro messo in moto e sfruttato dal capitale sociale (...) cresca; non esclude neppure che i capitali sottoposti al comando dei singoli capitalisti comandino una massa crescente di lavoro e quindi pluslavoro”, infatti la diminuzione è relativa e non ha nulla a che vedere con la grandezza assoluta del lavoro e del pluslavoro messi in moto, dal momento che “La caduta del saggio di profitto non deriva da una diminuzione assoluta, ma da una diminuzione soltanto relativa della parte variabile del capitale totale, dalla sua diminuzione in confronto alla parte costante” (Libro III, pp. 278-279).

L’allargamento della scala della produzione e l’aumento della produttività del lavoro sociale fanno dunque sì che “ogni prodotto individuale preso a sé contiene una somma di lavoro minore che in stadi più bassi della produzione” (Ivi, p. 273). Nello stesso tempo, alla caduta del saggio di profitto associata all’aumento della produttività si accompagna un aumento della massa del profitto. Ciò basta a neutralizzare gli effetti della legge? No, pur se Marx elenca una serie di controtendenze che ne frenano la progressione. Il singolo capitalista può aumentare il saggio di plusvalore sfruttando certe invenzioni prima che si generalizzino (ma prima o poi si generalizzano e il saggio di plusvalore torna a livellarsi); l’aumento della sovrappopolazione relativa “è inseparabile dallo sviluppo della forza produttiva del lavoro che si esprime nella caduta del saggio di profitto e ne è accelerata” (Ivi, p. 303) e consente di abbassare i salari al disotto della media – il che rende più a buon mercato sia gli elementi del capitale costante sia i mezzi di sussistenza (2) – ma essi non possono scendere oltre un certo limite e, d’altro canto “la compensazione del numero ridotto di operai grazie all’aumento del grado di sfruttamento del lavoro si imbatte in confini insuperabili; se quindi può ostacolare la caduta del saggio di profitto, non può annullarla” (Ivi, p. 317).

Infine Marx cita, fra i fattori che operano in controtendenza alla legge, il commercio estero (soprattutto coloniale): “i capitali investiti nel commercio estero possono fornire un più alto saggio di profitto perché (...) qui si è in concorrenza con merci prodotte da paesi con minori facilità di produzione, cosicché il paese più progredito vende le proprie merci al di sopra del loro valore, benché più a buon mercato che i paesi concorrenti”; e poche righe sotto, anticipa la tesi dello scambio ineguale che verrà sviluppata nel secondo dopoguerra dai teorici del sottosviluppo (3): “Lo stesso rapporto si può stabilire nei confronti del paese in cui si esportano e da cui si importano merci: avviene che questo dia in natura più lavoro oggettivato di quanto ne riceve, e tuttavia ottenga la merce a un prezzo inferiore a quello al quale potrebbe produrla egli stesso” (Ivi, p. 305); e nella stessa pagina aggiunge che i capitali investiti in colonie “possono fornire saggi di profitto più alti, perché ivi il saggio di profitto è più elevato a causa del più basso sviluppo industriale e, grazie all'impiego di schiavi, coolies, ecc., vi è anche più elevato lo sfruttamento del lavoro”.

Torniamo al Libro II (Capitolo IV, “Le tre figure del processo ciclico”, p. 136) dove leggiamo: “Il processo si svolge in modo del tutto normale se i rapporti di valore restano costanti; si svolge, in realtà, finché le perturbazioni nel ripetersi del ciclo [le discontinuità del ciclo stesso] si compensano; quanto maggiori sono le perturbazioni, tanto più capitale denaro deve possedere il capitalista industriale per poter attendere la compensazione; e poiché (...) la scala di ogni processo di produzione si allarga, e con essa cresce la grandezza minima del capitale da anticipare, quella circostanza si aggiunge alle altre che sempre più trasformano la funzione del capitalista individuale in monopolio di grandi capitalisti monetari, isolati o associati”. Mentre nel capitolo XIV (“Il tempo di circolazione”, p. 310) scrive, a proposito dei vantaggi generati dallo sviluppo di grandi centri nei quali convergono vie e mezzi di trasporto: “questa particolare facilità dei traffici e la rotazione in tal modo accelerata del capitale (...) determinano una più rapida concentrazione sia del luogo di produzione, sia del luogo di smercio. Con la concentrazione così accelerata di masse di uomini e capitali in dati punti, va di pari passo la concentrazione di queste masse di capitali in poche mani”.

Dunque i processi di concentrazione e centralizzazione si alimentano a vicenda, ma qual è la loro relazione con la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto? Rieccoci al Libro III (Capitolo XV “Sviluppo delle contraddizioni intrinseche alla legge” pp. 309 e segg.) dove troviamo la risposta: “l’accumulazione accelera la caduta del saggio di profitto in quanto implica la concentrazione dei lavori su grande scala, quindi una più alta composizione organica di capitale (...) la caduta del saggio di profitto accelera a sua volta la concentrazione del capitale e la sua centralizzazione mediante l’espropriazione dei più piccoli capitalisti e degli ultimi resti di produttori immediati...” (4).

Subito dopo, con un crescendo incalzante, il testo accelera verso la sentenza di morte per il modo di produzione capitalista. Ecco la sequenza:
“La contraddizione consiste in ciò, che il modo di produzione capitalistico racchiude una tendenza allo sviluppo assoluto delle forze produttive (...) mentre d’altro lato ha come scopo la conservazione del valore capitale esistente e la sua valorizzazione nella misura estrema (...) Il suo carattere specifico è di servirsi del valore capitale esistente come mezzo per la valorizzazione massima possibile di questo valore. I metodi con cui essa raggiunge questo scopo comprendono: la diminuzione del saggio di profitto,la svalorizzazione del capitale esistente e lo sviluppo delle forze produttive del lavoro a spese delle forze produttive già prodotte”.

“La svalorizzazione periodica del capitale esistente [che serve a frenare la caduta del saggio di profitto e ad accelerare l’accumulazione con la formazione di nuovo capitale] turba (...) il processo di circolazione e riproduzione del capitale, ed è quindi accompagnata da improvvisi arresti e crisi del processo produttivo”.

“La diminuzione del capitale variabile in rapporto al capitale costante (...) dà impulsò all’aumento della popolazione operaia, mentre crea di continuo una sovrappopolazione artificiale. L'accumulazione del capitale (...) viene rallentata dalla caduta del saggio di profitto, per accelerare ulteriormente l’accumulazione del valore d’uso; a sua volta, questa dà all'accumulazione considerata quanto al valore un ritmo accelerato”

“La produzione capitalistica tende incessantemente a superare questi suoi limiti immanenti, ma li supera solo con mezzi che le contrappongono di nuovo, e su scala più imponente, questi stessi limiti”.
Ergo: “Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso”.

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Giunti a questo punto, dobbiamo prendere atto di un inconfutabile dato di fatto: mentre le contraddizioni del modo di produzione capitalistico descritte nel Capitale hanno trovato innumerevoli conferme storiche, la loro mancata soluzione non ha provocato la prevista crisi terminale del sistema.

A cosa possiamo imputare questa errata previsione? Elenco qui di seguito le due cause che considero determinanti:
1) la deformazione prospettica provocata da una concezione teleologica del processo storico, al quale vengono attribuite leggi immanenti, automatismi “oggettivi” che ne orientano le presunte tendenze di fondo (anche se sappiamo che in alcuni testi tardi Marx ha rinnegato tale visone);
2) la descrizione della classe operaia come forza produttiva del capitale, priva di soggettività autonoma, classe in sé e non per sé (un limite cui solo la teoria leninista del partito è riuscita a porre rimedio).

Naturalmente si potrebbe citare anche la prospettiva eurocentrica da cui Marx ha osservato la realtà mondiale, sottovalutando le capacità di resilienza e resistenza di classi, popoli e culture extraeuropee alla colonizzazione da parte del modo di produzione capitalistico; così come si potrebbe citare la sua descrizione del processo di socializzazione del capitale come prodromo della transizione alla società dei produttori associati, un fattore che è stato sfruttato per giustificare sia il gradualismo riformista dei partiti socialdemocratici che i deliri operaisti sul cosiddetto “comunismo del capitale”, ma questi sono limiti imputabili al contesto storico in cui Marx si è trovato a svolgere il suo lavoro teorico. Ciò detto, mi avvio a concludere questo percorso analizzando i contributi di tre autori che hanno provato a spingere la teoria al di là dei limiti appena accennati, vale a dire Rosa Luxemburg, il duo Paul Baran e Paul Sweezy e Giovanni Arrighi.

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Nella sua ponderosa Accumulazione del capitale (5) Rosa Luxemburg, oltre a ricostruire – e a criticare – gli schemi della riproduzione semplice e della riproduzione allargata che Marx formula nella Terza Sezione (“La riproduzione e circolazione del capitale totale sociale”) del Libro II del Capitale, ripercorre le controversie teoriche sull’argomento che si sono susseguite fra gli economisti classici ed altri autori a lei contemporanei. Non la seguirò in questo accidentato percorso, né tantomeno nelle complicate argomentazioni logico-matematiche con cui la grande teorica e leader comunista cerca di dimostrare che gli schemi marxiani non funzionano. Anche perché, come lei stessa osserva giustamente nella sua “Anticritica”, l’appendice in cui replica ai critici che ne contestavano le tesi, gli schemi matematici in quanto tali non possono dimostrare alcunché, visto che lo stesso Marx non li intendeva come una dimostrazione delle proprie teorie, bensì come un modello, un esempio del modo in cui pensava che funzionassero i meccanismi della riproduzione sociale totale. La mia critica, argomenta Luxemburg, non riguarda tanto gli schemi, quanto il fatto che il loro presupposto storico è insostenibile.

Il vero nodo della questione, scrive, è il fatto che: “Nel II, come anche nel I Libro del Capitale, Marx parte dal presupposto che la produzione capitalistica sia l’unica ed esclusiva forma di produzione” (6). Ciò è confermato dalle seguenti parole di Marx (si tratta di una citazione dal Libro I): “Per cogliere l’oggetto della ricerca nella sua purezza, liberi da circostanze perturbanti accessorie, dobbiamo considerare tutto il mondo commerciale come una nazione e presupporre che la produzione capitalistica si sia imposta dovunque e abbia conquistato tutti i rami dell'industria”. Il guaio, commenta Luxemburg, è che il presupposto da cui muove Marx “per cogliere l’oggetto della ricerca nella sua purezza” è palesemente falso, perché in realtà come tutti sanno e come lo stesso Marx ammette, aggiunge la Luxemburg poche righe sotto, la produzione capitalistica “non è affatto l’unica, né il suo dominio è esclusivo e totale (...) in tutti i paesi capitalistici [anche i più sviluppati] esistono numerose aziende artigiane e contadine fondate sulla produzione semplice delle merci (...) esistono anche in Europa paesi in cui la produzione contadina e artigiana è tuttora prevalente, come la Russia, i Balcani, i Paesi scandinavi, la Spagna. Infine (...) esistono giganteschi continenti nei quali la produzione capitalistica ha appena cominciato a mettere radici in piccoli punti sparsi, mentre per il resto i loro popoli presentano tutte le forme economiche possibili, dalla comunistica primitiva, alla feudale, contadina, artigiana” (7).

Che l’osservazione appena citata fosse valida ai tempi in cui l’autrice scriveva è incontestabile. Ma, come abbiamo a nostra volta sostenuto sulle pagine di questo blog, analizzando le tesi di Gabriele e Jabbour sulla convivenza fra modi di produzione (8), quelle di vari autori afro marxisti (9) e quelle di Giovanni Arrighi, ispirate all’opera del grande storico dell’economia Fernand Braudel (10), la sua validità permane intatta ai giorni nostri. Se la produzione capitalistica fosse acquirente illimitata di se stessa, se cioè produzione e mercato di sbocco si identificassero in un continuo gioco di scambi reciproci fra settori produttivi di mezzi di produzione e settori produttivi di mezzi di sussistenza, argomenta Luxemburg, le crisi periodiche non avrebbero ragione di esistere, l’accumulazione capitalistica sarebbe un processo illimitato esente da conflitti e contraddizioni, e ogni discorso sulla necessità della transizione al socialismo perderebbe senso. Viceversa noi sappiamo che questa armonia sistemica non esiste, “che ogni imprenditore produce alla cieca, in concorrenza con altri, e vede solo ciò che gli passa davanti al naso (...) che l’attuale produzione assolve il proprio scopo al modo dei sonnambuli, attraverso un eccesso o un difetto, entro continue oscillazioni dei prezzi e crisi”(11). Sappiamo d’altro canto che la produzione capitalistica, “pur con le sue diversità dalle altre forme storiche di produzione, ha questo in comune con esse, che, sebbene il suo scopo determinante sia, soggettivamente, il profitto, essa deve oggettivamente soddisfare i bisogni materiali della società” (12).

Anarchia della produzione, necessità di soddisfare i bisogni materiali della società aumentando nel contempo i profitti: una contraddizione che può essere affrontata solo garantendo un continuo allargamento della produzione, pena interruzioni catastrofiche del ciclo. Perché il meccanismo stia in piedi ad onta delle sue contraddizioni immanenti, occorre dunque che esista la possibilità di un continuo allargamento del fabbisogno sociale: nel nostro magazzino “dovremo trovare anche un terzo gruppo di merci non destinate né al rinnovo dei mezzi di produzione consumati né al mantenimento degli operai o della classe capitalistica, merci contenti il plusvalore estorto ai lavoratori, che rappresenta il vero obiettivo del capitale: il profitto destinato all’accumulazione” (13).

La soluzione sta nel fatto che, contrariamente al modello immaginato da Marx, che si fonda sul presupposto che la produzione capitalistica sia l’unica ed esclusiva forma di produzione, l’accumulazione capitalistica si compie in un ambiente fatto di diverse forme precapitalistiche, per cui “la produzione capitalistica conta su acquirenti di origine contadina e artigiana dei vecchi paesi e su consumatori di tutti gli altri, e a sua volta non può fare tecnicamente a meno di prodotti di questi strati e paesi (...) perciò fin dall’inizio si svolse fra la produzione capitalistica e il suo ambiente non-capitalistico un rapporto di scambio, in cui il capitale trovò la possibilità sia di realizzare il proprio plusvalore ai fini di una ulteriore capitalizzazione in denaro, sia di rifornirsi di tutte le merci necessarie per l'allargamento della sua produzione, sia infine di assorbire nuove forze-lavoro proletarizzate mediante la decomposizione violenta di forme di produzione non capitalistiche” (14)

Le argomentazioni teoriche di Rosa Luxemburg non sono mai piaciute agli economisti marxisti in quanto considerati scientificamente approssimativi e “ideologici”. Eppure è evidente che la teoria leninista dell’imperialismo (benché Lenin abbia a sua volta criticato l’opera della Luxemburg) trova qui un’amplificazione che, da un lato, corrobora la tesi della convergenza di interessi fra proletariato dei paesi industrialmente avanzati e masse dei paesi sottosviluppati, dall'altro lato offre spunti di riflessione in merito alla possibilità di costruire blocchi di classe anticapitalisti all’interno dei singoli paesi (non a caso le tesi luxemburghiane hanno goduto di ampi favori nei paesi dell’America Latina, dove la convivenza fra diversi modi di produzione è una diffusa realtà di fatto). Né è un caso se le sue idee hanno goduto della simpatia di autori come Paul Sweezy (che firmò l’Introduzione alla Accumulazione), il quale ha inaugurato una generazione di teorici marxisti che, nel secondo dopoguerra, sono tornati a riflettere sul concetto di imperialismo.

Chiudo con un’annotazione critica: se la Luxemburg ha il merito di avere messo in luce gli “automatismi riproduttivi” che, in certe sezioni del Capitale, rischiano di oscurare la conflittualità immanente al modo di produzione capitalistico, dall’altro lato ha il demerito di avere elaborato un’ennesima variante della teoria del “crollismo”. Infatti, ipotizzando che arrivi una fase storica in cui si avveri il presupposto marxiano della sparizione dei modi di produzione precapitalistici, scrive: “Ma attraverso questo processo il capitale prepara in duplice modo il proprio crollo. Da una parte, allargandosi a spese di tutte le forme di produzione non-capitalistiche, si avvia verso il momento in cui l’intera umanità consisterà unicamente di capitalisti e salariati e perciò un'ulteriore espansione risulterà impossibile; dall’altra parte nella misura in cui questa tendenza s’impone [realizzando il dominio assolto e indiviso della produzione capitalistica nel mondo] dovrà provocare la rivolta del proletariato internazionale...”(15).
E qui è difficile evitare la tentazione di citare l’ironica battuta di Giorgio Ruffolo: il capitale ha i secoli contati...

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Nell’articolo su lavoro produttivo e lavoro improduttivo, abbiamo anticipato alcune idee di Paul Baran e Paul Sweezy sul capitale monopolistico e sull'imperialismo. In particolare, abbiamo introdotto il concetto di surplus – definito come “la differenza fra ciò che la società produce e i costi per produrlo” – grandezza che comprende il plusvalore. Per Marx quest’ultimo rappresenta la somma di profitto, interesse e rendita ad esclusione delle entrate dello stato, delle spese per trasformare le merci in denaro e dei salari dei lavoratori improduttivi, ma Baran e Sweezy sostengono che mentre tale esclusione è giustificata finché si ragiona di economia concorrenziale, diviene anacronistica nell’era del capitale monopolistico, in cui la quota del plusvalore rispetto al surplus sociale complessivo tende a contrarsi, mentre quest’ultimo tende a crescere in misura tale da compensare, se non neutralizzare, la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto.

Ciò riduce o elimina il rischio di crisi? No, rispondono Baran e Sweezy: seppure l’unità tipica del mondo capitalistico non è più la piccola impresa, bensì la grande società per azioni che produce una parte importante del prodotto di una o più industrie, e seppure quest'ultima dispone di un orizzonte temporale più esteso di quello del singolo capitalista, per cui compie i suoi calcoli in modo più razionale, resta il fatto che “il capitalismo monopolistico è altrettanto privo di un piano quanto il suo predecessore concorrenziale. Le grandi società per azioni sono in rapporto fra loro, con i consumatori, con il lavoro, con le imprese minori principalmente attraverso il mercato. Il funzionamento del sistema è tuttora il risultato non intenzionale delle azioni egoistiche delle numerose unità che lo compongono” (16).

Permane quindi il carattere anarchico della produzione, ovvero la prima causa potenziale di crisi. Che dire del secondo fattore, cioè della possibilità di rallentamento o interruzione del ciclo? A provocarlo è ora soprattutto l’eccesso di surplus che non trova sbocco, sono cioè quei profitti che, se non vengono investiti né consumati, non sono tali: “il problema di realizzare il plusvalore è in realtà più cronico oggi che ai tempi di Marx”. Ciò che ha impedito a Marx e agli economisti classici di interrogarsi più a fondo sull'adeguatezza dei modi di assorbimento del surplus è stata probabilmente la loro convinzione che il dilemma centrale del capitalismo si riassumesse nella caduta tendenziale del saggio di profitto: “Viste da questo angolo visuale – scrivono Baran e Sweezy – le barriere allo sviluppo capitalistico sembravano consistere più in una carenza del surplus necessario per mantenere il ritmo dell’accumulazione che in una insufficienza dei modi caratteristici di utilizzazione del surplus” (17). Se invece la barriera principale diventa quest’ultima, il rischio è che l’eccesso di capacità finisca per scoraggiare ulteriori investimenti e che, con il venir meno degli investimenti, calino reddito, occupazione e surplus, per cui ecco la crisi. La soluzione consiste, a questo punto, nello stimolare con ogni mezzo la domanda, pena la stasi e la morte del sistema.

È a partire da qui che l’analisi di Baran e Sweezy tende a convergere con quella della Luxemburg: al pari di costei, i due sono infatti convinti che, se fossero disponibili soltanto gli sbocchi endogeni, il capitalismo monopolistico sarebbe in uno stato permanente di depressione. Bisogna cioè abbandonare il modello riproduttivo che si fonda esclusivamente sugli scambi reciproci fra diversi settori produttivi, nonché sui consumi di capitalisti, operai e percettori di rendita. Per spiegare il modello alternativo che emerge dalla loro analisi con concetti a noi più familiari, potremmo dire che esso si fonda su fenomeni quali la terziarizzazione, la finanziarizzazione, l'economia del debito, il keynesismo di guerra (inteso come effetto combinato di imperialismo, sistema militare-industriale, neocolonialismo). Ma ascoltiamo le loro parole.

La lotta contro gli spettri di sottoconsumo, sottoinvestimento e sottoccupazione cronici, argomentano Baran e Sweezy, richiede la crescita di nuovi strati improduttivi di forza lavoro, che vanno ad aggiungersi ai tradizionali ceti divoratori di surplus: “si è avuto un aumento di stratificazione all’interno della classe lavoratrice in senso stretto e molte categorie di impiegati e di operai specializzati hanno conseguito redditi e posizioni sociali che fino a non molto tempo fa erano godute solo dai componenti delle classe medie. Contemporaneamente, sono aumentati i vecchi ceti ‘divoratori di surplus’ e sono sorti nuovi ceti: tecnocrati delle imprese e dell’amministrazione, banchieri e avvocati, redattori pubblicitari ed esperti di relazioni pubbliche, agenti di cambio e assicuratori, esperti immobiliari e così via” (18).

Paradigma del nuovo terziario parassitario, scrivono Baran e Sweezy, è la pubblicità e tutto quanto vi ruota attorno (promozione delle vendite, marketing, packaging, design del prodotto, ecc.): “l’importanza economica della pubblicità non sta fondamentalmente nel fatto che essa determina una ridistribuzione della spesa dei consumatori tra differenti beni, ma nei suoi effetti sul volume della domanda effettiva globale e quindi sul livello dell’occupazione e del reddito” (19). Quindi, da un lato, creazione di reddito e assorbimento di surplus, ma dall'altro “gli effetti indiretti sono forse non meno importanti e agiscono nella stessa direzione (...) essi sono di due specie: quelli che riguardano la disponibilità e la natura delle occasioni di investimento, e quelli che riguardano la divisione del reddito sociale complessivo fra consumo e risparmio [leggasi la propensione al consumo]... Permettendo di creare la domanda di un prodotto, la pubblicità incoraggia l’investimento in impianti e attrezzature che altrimenti non si farebbero”. Infine funzione della pubblicità è “quella di condurre per conto dei produttori e venditori di beni di consumo, una guerra incessante contro il risparmio e a favore del consumo [utilizzando a tale scopo] i cambiamenti della moda, la creazione di nuovi bisogni, l’introduzione di nuovi mezzi di distinzione sociale” (21).

La guerra contro i risparmi implica, a sua volta, la crescita esponenziale di quell'altro settore improduttivo che va sotto la voce di attività finanziarie, assicurative e immobiliari: “l’intera attività parassitaria di compravendita e speculazione immobiliare (...) non avrebbe alcuna ragione di esistere in un ordinamento sociale razionale. La maggior parte di ciò che la nostra società spende per l’attività finanziaria assicurativa e immobiliare è una semplice forma di assorbimento del surplus, caratteristica del capitalismo in generale e (...) del capitalismo monopolistico in particolare” (22). Detto che Baran e Sweezy hanno assistito solo alla fase iniziale di un processo che, pochi anni dopo, al culmine della rivoluzione neoliberale, avrebbe toccato vertici parossistici, fino all'esplosione della bolla del 2008, gli va comunque riconosciuto di avere intuito lo stretto legame fra terziarizzazione e finanziarizzazione.

Passiamo al tema dell’imperialismo, rispetto al quale si potrebbe dire che l’approccio di Baran e Sweezy rappresenta un ponte fra le tesi di Lenin e della Luxemburg e quelle dei teorici del sistema mondo. Sappiamo (vedi nota 3) che Baran e Sweezy lamentano il fatto che Marx non abbia ampliato il suo modello teorico fino a comprendere le regioni sottosviluppate del mondo. Ciò è vero solo in parte (23), ma è innegabile che Marx abbia parzialmente trascurato il fatto che, scrivono Baran e Sweezy, “fin dai suoi primissimi inizi nel Medioevo, il capitalismo è sempre stato un sistema internazionale e gerarchico costituito da una o più metropoli al vertice e da alcune colonie completamente dipendenti alla base, ordinate secondo molti gradi di classificazione e subordinazione. Queste caratteristiche sono di fondamentale importanza per il funzionamento del sistema nel suo complesso e dei suoi singoli componenti (...) La gerarchia delle nazioni che costituiscono il sistema è caratterizzata da una complessa serie di rapporti di sfruttamento. I paesi che stanno al vertice sfruttano in varia misura tutti gli altri e allo stesso modo i paesi che stanno a un dato livello sfruttano quelli che stanno più in basso (..) abbiamo quindi una rete di rapporti antagonistici che pongono gli sfruttatori contro gli sfruttati e contro gli altri sfruttatori” (24).

Prima di concludere, credo vada infine riconosciuto a Baran e Sweezy – benché non abbiano potuto assistere alla caduta dell’Unione Sovietica, al successivo tentativo degli Stati Uniti di ergersi a unica potenza mondiale, e all’ascesa della Cina che ne ha frustrato il progetto – il merito di avere messo in luce il duplice meccanismo per cui la metropoli imperiale gode, da un lato, dei mostruosi sovraprofitti che le multinazionali realizzano a spese delle nazioni periferiche e semiperiferiche, dall'altro dell’ancora più mostruoso assorbimento di surplus garantito dal gigantesco apparato militare che la potenza egemone mantiene per conservare il proprio ruolo. Il sistema militare industriale non serve solo in vista di eventuali conflitti interimperialistici, serve anche e soprattutto a conservare il controllo sul proprio dominio imperiale. Ma serve soprattutto ad assorbire le eccedenze di capitali: lo si è visto con la Seconda guerra mondiale, che ha realizzato ciò che le politiche keynesiane seguite alla crisi del '29 non erano riuscite a fare, e lo stiamo vedendo oggi, dal momento che la crisi della globalizzazione e la conseguente contrazione dell’area di controllo imperiale spingono il sistema a scommettere di nuovo sul keynesismo di guerra.

A coronamento del loro modello di auto-riproduzione sistemica, Baran e Sweezy, concentrano l’attenzione sulle nuove forme che tale modello impone alla lotta di classe: “Se si assume la stabilità del capitalismo monopolistico, con la sua provata incapacità di fare uso razionale (...) del suo enorme potenziale produttivo, è necessario decidere se si preferisce la disoccupazione di massa e le caratteristiche della grande depressione, o la relativa sicurezza di occupazione e di benessere materiale assicurata dagli enormi bilanci militari [e dalla creazione di ampi strati di lavoro improduttivo e altri parassiti “divoratori di surplus” NdA]. Poiché la maggior parte degli americani, operai compresi [ma vale purtroppo anche per larga parte dei cittadini europei] assumono ancora senza discussione la stabilità del sistema, è del tutto naturale che essi preferiscano la situazione che personalmente e privatamente è più vantaggiosa per loro [o meglio: che continuano a credere tale contro ogni evidenza...] (25). Ecco perché, argomentano, l’iniziativa rivoluzionaria contro il capitalismo, un tempo nelle mani del proletariato dei paesi avanzati, è passata in quelle delle masse periferiche che lottano contro l’oppressione e lo sfruttamento imperialistici.

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Nella parte su socializzazione e socialismo, avevo elogiato un articolo di Bellamy Forster che lamenta il ripudio del concetto di imperialismo da parte dei marxisti occidentali. Qui devo però precisare che dissento da alcuni suoi giudizi. In particolare, Bellamy elenca David Harvey e Giovanni Arrighi fra gli autori che hanno “tradito” il concetto in questione. L’accusa ha qualche fondamento nel caso di Harvey (26), mentre mi pare francamente ingiustificata nel caso di Arrighi, il quale, anche se nei suoi ultimi lavori non usa quasi mai il termine imperialismo, ha dato, assieme a Wallerstein e altri autori (27), un contributo decisivo alla comprensione alle dinamiche del funzionamento del capitalismo come sistema mondiale, a partire dai rapporti di dipendenza fra centri e periferie. Se preferisce ricorrere al concetto gramsciano di egemonia per descrivere tali rapporti, è perché cerca di estendere l’analisi ai fattori socioculturali, e non limitarsi a quelli economici. Questa scelta lo pone sulla scia di autori come Karl Polanyi (28) e Fernand Braudel (29) e, nel contesto degli argomenti di cui stiamo qui discutendo, ha notevoli implicazioni nei confronti di tre concetti marxiani discussi in precedenza:
1) l’idea che lo sviluppo del modo di produzione capitalistico tenda a stabilire il primato del capitale industriale sui capitali finanziario e commerciale;
2) l’idea che tale sviluppo (in assenza di una rivoluzione socialista) comporti l’annientamento di tutti gli altri modi di produzione (visione che il diamat staliniano ha “canonizzato” nella concezione della storia come successione di stadi: comunistico primitivo, schiavistico, medioevale, capitalistico);
3) l’idea che la concorrenza sia la causa principale di gran parte delle contraddizioni sistemiche.

Che Marx abbia descritto l’industria moderna come la forma più evoluta del modo di produzione capitalistico, argomenta Arrighi, è dovuto al fatto che, nel XIX secolo, il capitalismo era sembrato “specializzarsi” in tale ramo d’attività, per cui si comprende perché, secondo Marx, questo particolare settore economico rappresenti il “vero volto” del capitale. Eppure non va dimenticato che, soprattutto nel Libro III, lo stesso Marx ribadisce in varie occasioni che i capitalisti prediligono – e scelgono appena possibile – la forma D-D’ rispetto ai rischi dell’avventura industriale, che considerano come un male necessario per valorizzare il proprio capitale. Arrighi, al pari di Braudel, batte ancora più decisamente su questo tasto, mettendo in luce come il capitalismo, in tutto il corso della sua lunga storia, non si sia mai lasciato ingabbiare nella produzione e nel commercio di singole merci, né in particolari settori di attività, ma abbia costantemente mantenuto un rapporto “strumentale” nei confronti dei mondi del commercio e della produzione. Le sue caratteristiche sono invece sempre state la plasticità, l'eclettismo, l'adattabilità camaleontica, doti che gli hanno consentito di sfruttare le più svariate opportunità di esercitare quella capacità di “procreare” (il termine è di Marx), che più di ogni altra ne connota l’essenza.

Passiamo a un altro punto. Secondo Braudel, il capitalismo non è mai stato in grado di esaurire l’intera vita economica, di “contenere” l’intera società produttiva. Ancora nell’Europa di oggi (scrive alla fine degli anni Settanta) esistono larghe fasce di autoconsumo, così come esistono piccole imprese artigianali e commerciali, nonché vari tipi di attività che esulano dalla contabilità nazionale. Certo, è soprattutto nel Medioevo che la quasi totalità della produzione è assorbita dall’autoconsumo della famiglia e del villaggio e non entra nei circuiti del mercato. Ed è sempre nel Medioevo che i principali agenti del mercato sono venditori ambulanti e bottegai; ma già allora su questo livello inferiore si elevava l’élite dei grandi mercanti, che dominavano fiere e borse e controllavano il commercio di lunga distanza. Grazie alla concentrazione di masse crescenti di denaro nelle loro mani, costoro iniziarono a svolgere funzione di finanziatori di altri mercanti e di principi, nonché ad acquistare direttamente da contadini e artigiani i loro prodotti per esercitare la funzione di grossisti (è il primo passo verso lo sfruttamento del lavoro a domicilio che nel Libro I del Capitale Marx descrive come l'antenato della manifattura).

Questa sfera superiore della circolazione che si innalza al di sopra degli scambi quotidiani dei mercati elementari e dei traffici a breve distanza, secondo Braudel, è già capitalismo (siamo a cavallo dei secoli XIV e XV, ma in alcune regioni d’Europa si può risalire più indietro). Un fenomeno che lo stesso Braudel definisce contromercato, in quanto, grazie alla sua dimensione internazionale, si sbarazza delle regole dei mercati tradizionali (locali), aggira barriere politiche e giuridiche, gestisce “scambi ineguali in cui la concorrenza... ha poco spazio ed in cui il mercante gode di due vantaggi: in primo luogo quello di avere interrotto il rapporto diretto e lineare tra il produttore ed il consumatore (...); in secondo luogo, dispone del denaro in contanti che è il suo principale alleato” (30). Come dire che la cosiddetta libera concorrenza è sempre stata un mito degli economisti liberal borghesi, mentre il capitalismo è nato tendenzialmente monopolista e tale è rimasto.

Torneremo fra poco sull’argomento, ma prima occorre prendere atto di un corollario di questo modo di approcciare la storia del capitalismo. La coesistenza fra il livello inferiore dell’economia di mercato e il livello superiore del protocapitalismo non è una fase transitoria, contingente. Contrariamente a Marx, il quale prevede che, a mano a mano che il proto capitalismo mercantile evolve in modo di produzione capitalistico maturo, il livello inferiore sia destinato a sparire, nella concezione che abbiamo appena descritto, il livello superiore non può distruggere il livello inferiore per il semplice motivo che la sua natura è quella di un parassita che sfrutta tutto ciò che gli sta sotto, che ne succhia le risorse per metterle a frutto e valorizzare alla seconda potenza il valore creato dagli altri modi di produzione, del quale si appropria. Al modello del marxismo ortodosso, basato sulla successione di stadi (schiavitù, servaggio, capitalismo), subentra la visione di una coesistenza fra modi di produzione diversi – visione condivisa da Luxemburg, Baran e Sweezy, i teorici della dipendenza, Gabriele e Jabbour, oltre che da Braudel e Arrighi.

Riprendiamo il tema del monopolio come tendenza originaria. Per Arrighi, come per Braudel, l’argomento è intrecciato con la questione del rapporto fra concentrazione del potere capitalistico e stato; questione che Marx, ricorda Arrighi, affronta nel Libro I del Capitale a partire dal ruolo del debito pubblico nel sostenere l’espansione iniziale del capitalismo. Ecco la citazione in questione: “Il debito pubblico, ossia l’alienazione dello Stato – dispotico, costituzionale o repubblicano che sia – imprime il suo marchio all’era capitalistica (...) Come con un colpo di bacchetta [il debito pubblico] conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’investimento industriale e anche da quello usuraio. In realtà i creditori dello Stato non danno niente, poiché la somma prestata viene trasformata in obbligazioni facilmente trasferibili, che in loro mano continuano a funzionare proprio come se fossero altrettanto denaro in contanti” (31).

Ragionando su questo rapporto storico fra stato e capitale, e sul ruolo che esso ha svolto nella costruzione del dominio europeo sul resto del mondo, Arrighi scrive a sua volta: “la transizione realmente importante che esige una spiegazione non è quella dal feudalesimo al capitalismo, ma quella da un potere capitalistico diffuso a uno concentrato. E l'aspetto più rilevante di questa transizione (...) è la singolare fusione di stato e capitale (sottolineatura mia) che in nessun luogo fu realizzata in modo tanto favorevole al capitalismo come in Europa” (32). Ecco perché, aggiunge Arrighi citando Braudel, il capitalismo può trionfare solo quando si identifica con lo stato, quando è lo stato. Non solo il capitalismo monopolistico, ma anche il capitalismo monopolistico di stato si rivela dunque come una caratteristica originaria del capitalismo; “la concorrenza fra gli stati per il capitale mobile è stata il complemento di questo processo”, aggiunge Arrighi poche righe sotto, e alla pagina successiva scrive: “la concorrenza interstatale è stata una componente decisiva in ciascuna fase di espansione finanziaria e un fattore fondamentale nella formazione di questi blocchi di agenti governativi e imprenditoriali che hanno guidato l’economia-mondo capitalistica attraverso le sue successive fasi di espansione” (33).

Per non dilungarmi eccessivamente, evito di entrare nel merito dell’alternanza di cicli egemonici (Genova, Olanda, Inghilterra, Stati Uniti) che Braudel e Arrighi considerano il modo in cui l’economia mondo si è sviluppata negli ultimi cinque secoli, né discuterò la tesi secondo cui le fasi di finanziarizzazione marcano le crisi di passaggio da un ciclo egemonico all’altro, né tantomeno metterò a confronto il pensiero di Braudel e Arrighi in merito alla previsione sul modo in cui potrà risolversi la crisi dell’ultimo di questi cicli, egemonizzato dagli Stati Uniti (ricordo solo che Braudel non offre risposte chiare, mentre Arrighi ha prima ragionato sull’emergenza dell’area asiatica, per poi concentrarsi sulla Cina).

Siamo così arrivati alla fine di questo lungo percorso in cinque tappe attraverso il II e III Libro del Capitale, e attraverso il pensiero di alcuni autori che si sono cimentati con le questioni sollevate da questa monumentale opera. Chi si fosse aspettato una conclusione deve rassegnarsi: l’intento di questo lavoro, come ho chiarito sin dall’inizio, era stilare un elenco di quelli che ritengo i principali nodi problematici che Marx ci ha lasciato in eredità, e di indicare alcune direzioni di ricerca per affrontarli e approfondirli. Immaginare di estrarne una “sintesi” sarebbe folle, dal momento che vorrebbe dire pensare di riscrivere un Capitale dei giorni nostri, impresa assai al di là delle mie capacità (e penso di quelle di chiunque altro).

Note

(1) L’intera teorizzazione operaista in merito alla possibilità di rovesciare il modo di produzione capitalistico a partire dalla fabbrica, invece che dal rapporto complessivo fra tutte le classi sociali (cfr. M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi 1966), si fonda sulla capacità delle lotte dell’operaio massa di interrompere il ciclo produttivo della grande fabbrica fordista.

(2) Un altro modo in cui si è realizzato tale risultato, è stato quello reso possibile dalla cosiddetta Walmart Economy, vale a dire dall’importazione massiccia di prodotti cinesi a buon mercato (distribuiti dalla catena commerciale Walmart) che hanno consentito di abbassare drasticamente i costi di riproduzione della forza-lavoro americana.

(3) Vedi, fra gli altri, G. Myrdal, Teoria economica e paesi sottosviluppati, Feltrinelli, Milano 1959. Un secolo dopo Marx, Baran e Sweezy lamenteranno il fatto che le intuizioni marxiane sul tema dello scambio ineguale fra centri e periferie e sul rapporto sviluppo/sottosviluppo siano rimaste episodiche, mentre la sua attenzione si è concentrata quasi esclusivamente sul mondo capitalistico sviluppato.

(4) A questa citazione segue un passaggio già citato in precedenza: “Una volta di più, non si tratta che della separazione, ma alla seconda potenza, delle condizioni di lavoro di produttori, ai quali questi più piccoli capitalisti appartengono perché in essi il lavoro personale recita ancora una sua parte”.

(5) R. Luxemburg, L'accumulazione del capitale e Anticritica, (Introduzione di Paul Sweezy, Traduzione di Bruno Maffi), Einaudi, Torino 1960.

(6) Op. cit.,p. 478.

(7) Ivi, p. 479.

(8) Cfr. A. Gabriele, E. Jabbour, Socialist Economic Development in the 21 Century, Routledge, London 2022.

(9) Vedi, in particolare, C. Robinson, Black Marxism, Alegre 2023.

(10) Cfr. F. Braudel, La dinamica del capitalismo, il Mulino, Bologna 1977.

(11) Op. cit., p. 474.

(12) Ivi, p. 468.

(13) Ivi, p. 475.

(14) Ivi, p. 480.

(15) Ivi, p. 481.

(16) P. Baran, P. Sweezy, Il capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1968, p. 46.

(17) Ivi, p. 97.

(18) Ivi, pp. 107 e segg.

(19) Ibidem.

(20) Ibidem.

(21) Ibidem.

(22) Ivi, p. 119.

(23) Vedi, fra gli altri testi, i saggi suoi e di Engels raccolti nel volume India, Cina, Russia, il Saggiatore, Milano 1960.

(24) Il capitale monopolistico, cit., pp. 151, 152.

(25) Ivi, p. 177.

(26) Mi riferisco in particolare alle critiche che Harvey ha rivolto al libro di Prabhat e Utsa Patnaik, Una teoria dell’imperialismo (Meltemi) negando che il rapporto fra Gran Bretagna e India sia classificabile come un caso di tipico di imperialismo.

(27) Cfr. A. Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020.

(28) Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.

(29) Cfr. F. Braudel, La dinamica del capitalismo, cit.

(30) Ivi, p. 57.

(31) Questo brano, con qualche minima differenza di traduzione, si trova alle pagine 942 e 943 (Libro I) dell’edizione del Capitale che sto utilizzando qui (UTET 1974, Traduzione di Bruno Maffi).

(32) G. Arrighi, Il lungo XX secolo, il Saggiatore, Milano 1996, p. 30.

(33) Ibidem, p. 31.

Fonte