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21/05/2025

Draghi rilancia il manifesto per un imperialismo europeo

Mario Draghi ha messo in fila, uno dietro l’altro, i punti di crisi e i parametri fondamentali per un imperialismo europeo, inseguito da anni ma ancora rallentato dalle contraddizioni interne alla UE.

Lo ha fatto intervenendo a Coimbra lo scorso 14 maggio alla conferenza del Cotec (una fondazione privata per la competitività creata da Confindustria, ndr), al suo fianco, emblematicamente per un evento privato, c’era anche il Presidente della Repubblica Mattarella. Di questo evento abbiamo già dato conto nei giorni scorsi sul nostro giornale. Riteniamo però utile tornarci sopra perché l’intervento di Draghi va compreso bene.

L’obiettivo principale dell’evento – stando a quanto riporta il sito dedicato – è stato quello di definire azioni concrete per rafforzare la posizione dell’Europa nello scenario globale, promuovendo una cooperazione più stretta tra Portogallo, Spagna e Italia come modello di integrazione. “Un’attenzione particolare è stata dedicata alla creazione di partnership industriali nei settori strategici di Aerospazio e Difesa, Scienze della Vita e Salute, Microelettronica, High Performance Computing (HPC) e Intelligenza Artificiale”.

“Si dice spesso che “l’Europa avanza solo in caso di crisi”. Ma a dire la verità la nostra crisi è iniziata quasi vent’anni fa”, ha affermato Draghi nel suo intervento a Coimbra. “È in quel periodo che la costruzione geopolitica creata dopo la Seconda Guerra Mondiale, e che aveva raggiunto il culmine con la caduta dell’Unione Sovietica, ha iniziato a sgretolarsi. Ed è in quel periodo che abbiamo iniziato a restare indietro sul fronte dell’innovazione globale e della tecnologia. Da allora in poi, però, per la maggior parte del tempo abbiamo ignorato tutti i segnali”.

Dentro quello che definisce un periodo di profondi cambiamenti nel commercio e nelle relazioni internazionali, Draghi afferma che questi rappresentano un punto di rottura e per molti aspetti irreversibile:
“Questi cambiamenti sono in atto da diversi anni e la situazione aveva iniziato a deteriorarsi già prima dei recenti sconvolgimenti tariffari. Finora, la frammentazione politica interna e la crescita lenta hanno ostacolato una risposta europea efficace. Ma gli eventi recenti rappresentano un punto di rottura. Il vasto ricorso ad azioni unilaterali per risolvere controversie commerciali, insieme alla definitiva delegittimazione del WTO, hanno minato l’ordine multilaterale in un modo difficilmente reversibile”.
L’ex presidente della BCE denuncia come l’Unione Europea non sia ancora riuscita nell’opera di rendersi strategicamente autonoma dagli Stati Uniti:
“Le recenti azioni dell’amministrazione statunitense avranno certamente un impatto sull’economia europea. E anche se le tensioni commerciali dovessero diminuire, è probabile che l’incertezza persista e agisca come un vento contrario per gli investimenti in tutto il settore manifatturiero dell’UE. Ora, dovremmo chiederci come mai siamo finiti nelle mani dei consumatori statunitensi per guidare la nostra crescita. E dovremmo chiederci come possiamo crescere e generare ricchezza da soli”.
In un altro passaggio del suo intervento a Coimbra, Draghi sottolinea ancora meglio questo aspetto, evidenziando come la divaricazione di interessi con gli Stati Uniti non sia un fattore congiunturale, anzi si manterrà nel tempo, ragione per cui la UE deve ricominciare a pensare al suo mercato interno, un fattore su cui tornerà a insistere appena più avanti:
“Nel lungo periodo, tuttavia, è un azzardo credere che torneremo alla normalità nel nostro commercio con gli Stati Uniti, dopo una rottura unilaterale così importante in questa relazione – o che nuovi mercati cresceranno abbastanza velocemente da colmare il divario lasciato dagli USA. Se l’Europa vuole davvero essere meno dipendente dalla crescita degli Stati Uniti, dovrà produrla da sé”.
Come una sorta di legge del contrappasso, e piuttosto paradossalmente, è proprio un custode dell’ordoliberismo come Draghi a evidenziare come le scelte strategiche fatte nella UE dopo la crisi economica del 2007/2008 abbiano puntato esclusivamente su una politica fiscale restrittiva, sulla competitività internazionale e non sulla produttività interna ed infine siano stati penalizzati eccessivamente i salari e la domanda interna.
“Soprattutto dopo le crisi, abbiamo fatto uno sforzo deliberato per reprimere la crescita dei salari in modo da aumentare la competitività esterna. I nostri salari reali non sono riusciti a tenere il passo nemmeno con la nostra lenta produttività, mentre i salari reali negli Stati Uniti sono aumentati di 9 punti percentuali in più rispetto ai salari nell’area dell’euro nello stesso periodo.
Questa repressione salariale ha frenato i consumi e ha rafforzato il colpo alla domanda interna causato dalla politica fiscale restrittiva. Prima del 2008, la domanda interna nell’area dell’euro cresceva circa allo stesso ritmo degli Stati Uniti. Da allora, la domanda interna negli Stati Uniti è cresciuta a un ritmo più che doppio. Il terzo elemento è consistito essenzialmente nel rinunciare allo sviluppo del mercato interno come fonte di crescita”.
Scorrendo le osservazioni di Draghi, viene spontaneo – e pienamente legittimo – domandarsi come faccia a estraniare le proprie responsabilità da quelle della tecnocrazia imperialista europea che ha guidato la UE in questi decenni. In fondo Mario Draghi è stato per otto anni il governatore – non un commesso – della Banca Centrale Europea. L’impatto della politica monetaria, ad esempio sui salari, non poteva certo essergli un fattore sconosciuto.

Infine, e non certo per importanza, quando passa alle soluzioni Draghi torna a indicare quella dell’emissione di titoli di debito comune europeo (rifiutata quando c’era da affrontare l’emergenza e la crisi sociale in molti paesi della UE, ndr). Il debito comune del resto sembra essere la strada obbligata da percorrere per il finanziamento dei 4/5 degli 800 miliardi per il riarmo europeo.
“L’emissione di debito comune dell’UE per finanziare spese comuni è una componente chiave della tabella di marcia politica. Può garantire che la spesa aggregata non risulti insufficiente. E può garantire – soprattutto per la difesa – che maggiori spese avranno luogo in Europa e che contribuiranno all’efficacia operativa e a una crescita economica più elevata di quanto avverrebbe altrimenti”.
Tra le soluzioni e le priorità, Draghi precisa i contorni di quello che già con il suo Rapporto sulla competitività alla Commissione Europea era diventato il manifesto per l’imperialismo made in Europe nel XXI Secolo sul quale l’ex presidente della BCE evoca una brusca accelerazione dei processi:
“Potrebbe essere troppo tardi per influenzare gli eventi a breve termine. Anche se abbiamo fornito circa la metà degli aiuti militari all’Ucraina, probabilmente saremo spettatori passivi in un negoziato di pace che riguarda il nostro futuro e i nostri valori (...)
Crescita, energia e difesa sono le aree fondamentali in cui i governi devono provvedere ai loro cittadini, eppure in ciascuna di esse ci siamo trovati ostaggio della sorte ed esposti alle decisioni imprevedibili degli altri. Di conseguenza, lo stato d’animo diffuso tra industriali, lavoratori, politici e mercati è passato dalla noncuranza all’allarme. I rischi materiali cui andiamo incontro per la nostra crescita, i nostri valori sociali e la nostra identità, incombono su tutte le nostre decisioni (...)
Stiamo assistendo a grandi fratture istituzionali. Lo shock politico dagli Stati Uniti è massiccio. E ad esso si accompagnano un completo cambio di rotta in paesi come la Germania, e una nuova determinazione nella Commissione ad affrontare barriere e burocrazia. E abbiamo l’inizio di un piano d’azione, che è quello offerto dai recenti Rapporti. Le raccomandazioni di policy in esse contenute sono oggi, se possibile, ancora più urgenti”.
Leggendo le righe, e tra le righe, della relazione di Draghi a Coimbra emerge come dentro le classi dominanti in Europa sia in corso un’aspra battaglia politica sulle prospettive strategiche. È ancora in corso il braccio di ferro tra chi propende per una definitiva centralizzazione dei poteri decisionali e dei capitali a livello europeo – potremmo definire l’opzione pienamente imperialista – e chi difende ancora le prerogative decisionali nazionali su molti dossier decisivi.

Mario Draghi è sicuramente ascrivibile alla prima categoria, indubbiamente quella più pericolosa, per noi e per gli altri.

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