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02/07/2024

Basic Instinct (1992) di Paul Verhoeven - Minirece

“Torture indicibili sui prigionieri palestinesi”

Il direttore dell’ospedale Al-Shifa di Gaza, Muhammad Abu Salmiya, scarcerato ieri ha denunciato dopo il suo rilascio in una conferenza stampa che “molti prigionieri sono stati martirizzati nelle celle degli interrogatori” e “medici e infermieri israeliani picchiano e torturano i prigionieri palestinesi e trattano i corpi dei detenuti come se fossero oggetti inanimati”. Lo scrive Al Jazeera. “Ogni prigioniero ha perso circa 30 chili tra il cibo negato e le torture”, ha affermato aggiungendo che i detenuti “sono stati aggrediti quasi ogni giorno. Non abbiamo incontrato avvocati, né alcuna istituzione internazionale ci ha fatto visita”.

Il ministro della Sicurezza nazionale israeliano Itamar Ben Gvir ha chiesto il licenziamento di Ronen Bar, direttore del servizio di sicurezza Shin Bet, in una conversazione privata su WhatsApp con altri membri del governo. Secondo le conversazioni trapelate e pubblicate dal giornalista di Kan News Michael Shemesh, Gvir ha scritto nella chat di gruppo che “è giunto il momento di rimandare a casa il capo dello Shin Bet”. I suoi commenti arrivano dopo la notizia che Israele ha scarcerato il direttore dell’ospedale al-Shifa di Gaza City, Abu Salamiya, insieme ad altri 54 detenuti palestinesi.

Lo Shin Bet, agenzia di intelligence interna israeliana, sotto accusa per il rilascio del direttore dell’ospedale al-Shifa di Gaza, ha detto di essere stato “forzato” nella decisione per “la mancanza di spazio” nelle carceri israeliane e per la scelta di chiudere gradualmente l’uso del centro di detenzione di Sde Teiman.

Al tempo stesso ha ricordato di aver avvisato da molto tempo “in ogni consesso possibile sulla crisi carceraria e sulla necessità di aumentare il numero delle [celle] alla luce della necessità di arrestare i terroristi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza”. Tuttavia, “queste richieste, inoltrate a tutte le parti interessate, primo fra tutti il ministro della Sicurezza nazionale (Itamar Ben Gvir, ndr) che ne è responsabile, sono rimaste inevase” e “in conformità con le necessità dello Stato determinate dal Consiglio di sicurezza nazionale è stato deciso di rilasciare diversi detenuti che non rappresentavano una minaccia significativa”.

Abu Salmiya “soddisfaceva i requisiti per il rilascio riguardo al livello di pericolo che rappresenta”, ha sottolineato lo Shin Bet, aggiungendo tuttavia che indagherà sulla decisione di liberarlo. “In mancanza di qualsiasi altra opzione, senza una soluzione immediata alla crisi dello spazio carcerario – ha concluso – gli arresti continueranno a essere cancellati e i detenuti continueranno a essere rilasciati”.

Ma oltre ai ministri “estremisti” del governo Netanyahu, anche il leader dell’opposizione israeliana Yair Lapid ha attaccato la decisione di liberare, insieme a circa altri circa 55 palestinesi, il direttore dell’ospedale Shifa di Gaza Mohammad Abu-Salmiya. “La debacle sul rilascio del direttore dell’ospedale – ha scritto – è una diretta continuazione dell’illegalità e della disfunzione che caratterizzano il governo e che mettono a rischio la sicurezza dei cittadini israeliani”.

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Mar Rosso - Le forze yemenite rivendicano operazione contro il traffico navale

Le forze yemenite Ansarallah, più conosciute come Houthi, dichiarano di aver effettuato ieri una “grande” operazione militare nel Mar Rosso, nel Mar Arabico, nel Mediterraneo e nell’Oceano Indiano, segnando “un nuovo punto di svolta nelle operazioni di interdizione del traffico navale destinato a Israele o di stati complici con il genocidio israeliano contro i palestinesi”.

Ad annunciare questa operazione è stato Yahiya Saree, il portavoce militare di Ansarallah. Gli Houthi affermano di aver attaccato una nave israeliana nel Mar Arabico, una petroliera americana nel Mar Rosso, una nave britannica nell’Oceano Indiano e un’altra nel Mediterraneo. “L’operazione su larga scala è una vittoria in nome della lotta contro l’oppressione del popolo palestinese e dei suoi combattenti, in risposta ai massacri commessi dal nemico contro i figli del popolo palestinese nella Striscia di Gaza, e in risposta all’attacco degli Stati Uniti e del Regno Unito contro il nostro Paese”, ha detto Sared.

È dalla metà di novembre 2023, che gli Houthi di Ansarallah hanno sferrato una serie di attacchi contro le navi commerciali e militari in transito nel Mar Rosso e nel Golfo di Aden, dirette o collegate in qualche modo a Israele. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna a dicembre scorso hanno varato l’operazione militare navale “Prosperity Guardian” finalizzata a proteggere la navigazione nel Mar Rosso. Lo stesso ha fatto l’Unione Europea con la missione “Aspides”. Diversamente da quest’ultima le forze aeronavali statunitensi e britanniche hanno condotto attacchi contro le postazioni degli Houthi in Yemen, mentre le unità europee della missione “Aspides” si sono limitate a intercettare e abbattere i droni e i missili di Ansarallah.

Le operazioni di interdizione del traffico navale nel Mar Rosso da parte di Ansarallah in solidarietà alla resistenza palestinese, ha portato i principali colossi delle compagnie di navigazione ad abbandonare questa rotta e preferire il transito dal Capo di Buona Speranza, con conseguente aumento di tempi di navigazione e costi dei noli.

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Police - Every little thing she does is magic

Spagna è rivolta popolare contro la devastazione del turismo di massa

In Spagna dilaga la rivolta popolare delle città contro i danni del turismo di massa. Dopo Barcellona, le Baleari e le Canarie la protesta è dilagata anche Malaga.

Sabato scorso erano migliaia di persone in piazza nella città nel sud della Spagna, contro l’aumento degli affitti e dei prezzi delle case provocato dal devastante incremento dell’attività turistica negli ultimi anni. El Pais valuta che i partecipanti siano stati 15mila.

Malaga, vent’anni fa accoglieva circa mezzo milione di turisti, negli ultimi anni è diventata un centro del turismo di massa, fino a raggiungere nel 2023 la cifra di 1,6 milioni di presenza, con previsioni per quest’anno di numeri ancora più alti.

Ma il successo del turismo di massa ha contestualmente provocato crescenti disagi ai residenti a causa del forte aumento degli affitti, rendendo di conseguenza difficili e costosissime le condizioni di vita degli abitanti.

Quella di Malaga non è la prima manifestazione di massa contro le devastazioni del turismo in Spagna.

Avevano infatti cominciato gli abitanti delle Baleari e di Barcellona poi quelli delle Canarie, e le manifestazioni sono state tutte molto partecipate. Quella di Malaga è però la prima a tenersi in una città che fino a pochi decenni fa non era una delle grandi mete turistiche della Spagna, e che quindi ha subìto un cambiamento forse più radicale.

A Malaga nel 2016 gli appartamenti registrati a uso turistico erano 846, oggi sono diventati 12mila, e questo senza considerare gli appartamenti affittati a turisti ma non registrati. Secondo un'inchiesta curata da El País, in vari quartieri del centro di Malaga tra il 20 e il 25 per cento di tutti gli alloggi è registrato su Airbnb e i prezzi delle case sono schizzati verso l’alto.

Secondo un sondaggio condotto dall’Università di Malaga, oggi il 72 per cento degli abitanti della città ritiene che il turismo abbia un effetto negativo o molto negativo sulla disponibilità di case per la popolazione.

A Barcellona, una delle città più colpite dal medesimo fenomeno e tra le prime a vedere manifestazioni contro il turismo di massa, proprio in questi giorni, il sindaco Jaume Collboni ha proposto una drastica soluzione: le oltre 10mila licenze per affitti brevi, in scadenza nel 2028, non saranno rinnovate.

Barcellona è una città di 1,6 milioni di abitanti e lo scorso anno ha accolto più di 12 milioni di turisti. È uno dei casi di cosiddetto overtourism, cioè di eccesso di turismo.

Quanto sta accadendo in Spagna è di straordinaria importanza anche per il nostro paese, dove i danni del turismo di massa stanno diventando evidenti non solo in città come Roma e Venezia ma ormai anche Napoli, Milano, Firenze dove la denuncia delle conseguenze del fenomeno è stata fino ad oggi limitata a piccoli gruppi di attivisti sociali.

Sul nostro giornale, in tempi decisamente insospettabili, abbiamo denunciato come, nel caso di Roma, il turismo fosse diventato una risorsa per pochi e un danno per molti. Il livello di appropriazione privata degli introiti del turismo a discapito del resto delle città, è diventato decisamente insopportabile.

Anche qui, da qualche parte e in qualche modo, occorre cambiare rotta.

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Il Veneto chiede l’autonomia su 9 materie non Lep: quelle che fanno comodo anche alla UE

Ieri Zaia ha dichiarato che la regione Veneto si è mossa per chiedere la ripresa delle trattative col governo su 9 delle 23 materie toccate dall’autonomia differenziata. Per capire a pieno il senso di questa richiesta, e non ridurla semplicemente al particolarismo veneto, bisogna fare un giro un po’ più lungo.

In un articolo uscito il 29 giugno su Contropiano, veniva riportato che, dati della Fondazione Gimbe, la migrazione sanitaria, ovvero lo spostarsi per accedere alle cure, presenta per il Nord un saldo positivo di 4,25 miliardi di euro. Quasi tutta questa somma finisce in Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia.

Stimola subito l’attenzione di chi segue un poco le vicende economiche del nostro paese il fatto che le tre regioni citate sono anche quelle che si sono integrate più strettamente nelle filiere continentali, seppur in posizione subordinata.

Sorge spontaneo dunque interrogarsi su quali prospettive apra la riforma da poco approvata nell’avanzamento della costruzione imperialistica europea. E poiché un suo elemento quasi costitutivo è stato il modello export oriented tedesco, ormai fallito ma tenuto in vita a forza, può essere utile partire da un dato su cui si è da poco soffermato anche Renato Brunetta.

In un articolo uscito il 22 giugno su Il Riformista, il presidente del CNEL ricorda che il 70% delle esportazioni italiane è prodotto nel Nord (dati ISTAT 2022 e 2023). A suo avviso, il Sud consuma le risorse accumulate dal commercio internazionale, che gli arrivano attraverso trasferimenti interni.

Uno schema che proviene direttamente dal miracolo economico, e dimentica tutte le complessità che anche semplicemente si sono accumulate in 60 anni di storia. Come se l’Italia fosse la stessa di quando avevamo l’IRI e la Cassa per il Mezzogiorno.

Uno schema direi da mercantilismo seicentesco, in cui la ricchezza è scritta nelle partite correnti dello stato e ignora i benefici di una equa redistribuzione del reddito. E ignora anche quei 4,25 miliardi di prestazioni sanitarie.

Non possono dunque che suscitare rabbia le parole di Brunetta, il quale afferma che “in generale le aree più produttive del Paese hanno contribuito a finanziare i territori più svantaggiati, ma il divario non è certo diminuito“. Di nuovo, Brunetta dimentica che in parte il divario era stato recuperato, finché c’è stata un po’ di pianificazione industriale pubblica.

Non c’è perciò una parola di critica verso l’evidente fallimento della classe dirigente dell’ultimo trentennio, cosa che dovrebbe seguire logicamente le sue parole.

Classe dirigente di cui ha fatto parte, prima come eurodeputato dal 1999 al 2008, e poi come deputato della Repubblica dal 2008 fino al 2022, ricoprendo per tre anni anche l’incarico di ministro.

Secondo Brunetta, “di fronte ad un Paese spaccato come una mela, non ha senso diagnosticare ricette uniformi sull’intero territorio nazionale“.

Peccato che l’autonomia differenziata non sia un indirizzo di sviluppo ponderato sulla base delle specificità locali, ma sia proprio la rinuncia a implementare una programmazione nazionale per lo sviluppo e la riduzione delle disuguaglianze.

Asimmetrie e distanze che verranno invece allargate dall’autonomia differenziata, nonostante i tanto discussi Livelli Essenziali delle Prestazioni. Tanto più se per definirli verrà usato il criterio della “spesa storica“, che cristallizza le distorsioni attuali.

I LEP, per essere concretamente determinati e garantiti su tutto il territorio nazionale, richiederebbero secondo alcuni parlamentari d’opposizione tra i 50 e i 100 miliardi di spesa aggiuntiva, quasi una ventina secondo le stime più caute.

Qui sorge allora un’altra questione. L’autonomia differenziata è quasi un punto di arrivo di un percorso che ormai ha già largamente devastato le strutture dello Stato per favorire la privato del pubblico in ogni suo servizio.

E allora a cosa serve questa riforma a questa classe dirigente europeista? Ed è davvero attuabile, visti i costi, a meno che non si vogliano creare dei LEP solo di facciata – cosa di certo non escludibile –?

Lo chiede chiaro e tondo Luca Bianco in un articolo su Huffington Post: “come si fa a finanziarli ora che l’Italia deve rispettare il nuovo Patto di Stabilità?” I vincoli di bilancio hanno causato lo smantellamento del pubblico, e ora però impediscono anche l’autonomia differenziata?

Ovviamente no, essendo una riforma completamente inserita nella logica di Bruxelles. Infatti, le materie di “legislazione concorrente” su cui le regioni potranno chiedere autonomia sono 23, ma il Comitato tecnico per l’individuazione dei LEP ha fatto una distinzione tra queste.

14 hanno implicazioni dirette coi LEP (tra cui la tutela della salute), 9 invece no. Queste ultime sono: i rapporti internazionali; il commercio con l’estero; le professioni; la protezione civile; la previdenza complementare; il coordinamento della finanza pubblica; le casse di risparmio regionali; gli enti di credito regionale; l’amministrazione della giustizia di pace.

Le prime due permetteranno accordi ad hoc delle regioni con Bruxelles. Previdenza complementare, coordinamento della finanza pubblica, casse di risparmio ed enti di credito regionali hanno un importante ruolo nella determinazione del quadro in cui si svolge l’attività imprenditoriale.

Che questa possibilità, di spacchettare le 23 materie, sia legalmente ammissibile, è ancora oggetto di dibattito. Persino dentro la maggioranza le opinioni non sono omogenee, ma Zaia ha deciso di forzare la mano, un po’ per rispondere al proprio elettorato, un po’ perché era sin dall’inizio il senso di fondo di questo progetto.

Il tema è che, al più, l’autonomia differenziata porta a compimento un percorso di smantellamento del ruolo dello stato e dei servizi essenziali cominciato con Maastricht e poi accelerato dalla riforma del Titolo V della Costituzione, fatta dal centrosinistra.

Quello che interessa davvero è accelerare sulla costruzione di filiere UE capaci di competere con altri grandi attori globali. Come andrà la mediazione col governo, vista anche la competizione interna tra le varie formazioni, non possiamo ancora saperlo, ma il percorso è quello e, come da sempre nella UE, è vincolato.

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Il Kenya nella trappola del debito

Il Royal Institute of International Affaires, più diffusamente noto come Chatham House, è un think tank britannico, tra i più rinomati per le sue analisi geopolitiche ed economiche. Ed è assolutamente vicino ai centri di potere occidentali.

L’istituto opera sotto il patrocinio della corona del Regno Unito, e ai suoi vertici sono previsti tre presidenti, per rappresentare i principali orientamenti politici nel regno.

Oggi, ad esempio, vi sono un ex direttrice dell’MI5 (i servizi segreti interni), un ex governatore della Banca d’Inghilterra e l’ex primo ministro John Major ne è presidente emerito.

È difficile quindi immaginare simpatie per quello che l’imperialismo euroatlantico ha designato come l’avversario strategico per eccellenza, ovvero la Cina.

Eppure, in genere è proprio da questo tipo di gruppi che ci si può aspettare una riflessione ripulita da ogni propaganda, che invece devasta l’informazione occidentale.

Oltre un anno fa, il Chatham House metteva in guardia sul debito del Kenya, ma si prodigava anche nel ridimensionare il peso dei prestiti contratti con Pechino rispetto a quelli con creditori che rispondono alla filiera occidentale.

Il think tank evidenziava già allora come l’Eurobond che è stato poi indirettamente all’origine delle proteste abbia anche impedito di alleggerire i costi degli interessi sul debito. Portando infine alla sfiducia delle istituzioni finanziarie occidentali e ai programmi promossi dal FMI.

Certo, i finanziatori cinesi sono pur sempre finanziatori, e alla fine se prestano vogliono riavere indietro i soldi. Non mancano dunque le accuse al male incarnato, ovvero la pericolosa Cina comunista, ma è reso chiaro che il circolo vizioso del debito è stato alimentato dall’Occidente.

Ma del resto, è stato lo stesso FMI che, in un rapporto del novembre del 2023, metteva nero su bianco il fatto che il debito verso la Cina non sia stato il principale contributore all’aumento del debito pubblico nella regione subsahariana negli ultimi 15 anni, e che la Cina è stata invece un attore chiave nelle recenti ristrutturazioni del debito, fornendo il 63% delle sospensioni del debito nel 2020 e 2021.

Insomma, dal Chatham era arrivato largamente in anticipo l’annuncio di come le politiche imposte a Nairobi dalle nostre centrali imperialiste avrebbero scatenato la protesta di massa. Che il FMI aveva invitato a ignorare, a dimostrazione di quanto viene tenuto di conto il dissenso popolare alle nostre latitudini.

Riportiamo l’analisi di Fergus Kell, con traduzione nostra. Essa fornisce utili informazioni per comprendere come la trappola del debito sia uno strumento perfezionato negli anni dall’Occidente per strozzare il “Sud Globale”.

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A dispetto delle recenti affermazioni (maggio 2023, ndr) secondo cui un team di hacker legato allo stato cinese avrebbe eseguito attacchi informatici sistematici alle istituzioni governative keniote, denunciati dal ministero dell’Interno come “propaganda sponsorizzata”, il debito del Kenya nei confronti della Cina è nuovamente sotto esame, poiché i presunti attacchi sarebbero stati motivati dal desiderio di valutare lo stato dei rimborsi.

È vero che i prestiti da parte della Cina sono aumentati nei primi anni dell’amministrazione Uhuru Kenyatta, dal 2013 al 2022 – mentre l’attuale presidente William Ruto ricopriva la carica di vice –, dominati da 5,3 miliardi di dollari in tre prestiti della China EXIM Bank per la costruzione di un ponte ferroviario a scartamento normale (SGR) che collegherà il porto di Mombasa con la capitale Nairobi.

Il timore tra i media e l’opinione pubblica keniota è stato che il porto strategico di Mombasa fosse posto a garanzia per questi prestiti, alimentando le accuse secondo cui la Cina indulgesse nella “diplomazia della trappola del debito” sia in Kenya sia in tutto il continente – e i rapporti sulle operazioni di hacking rischiano di riaccendere questa controversia sui prestiti cinesi.

I rapporti sono emersi proprio mentre il governo keniota tenta di imporre misure di austerità impopolari per gestire una crescente crisi di rimborso del debito. Anche se i prestiti cinesi sono consistenti, questa è solo una parte della storia.

I prestiti cinesi sono solo uno dei problemi

Con un ammontare di 6,3 miliardi di dollari a marzo 2023 secondo i dati del Tesoro, i prestiti cinesi rappresentano circa il 64% dell’attuale stock di debito estero bilaterale del Kenya e solo il 17% del debito pubblico estero totale. Il prestito da istituti multilaterali è quasi il doppio del totale di quello bilaterale, con la Banca Mondiale che è il più grande creditore esterno del Kenya.

La ricerca di Chatham House sulla crisi del debito in Africa e sui prestiti cinesi mette in luce il caso di studio del Kenya, che dimostra come i reclami per la trappola del debito si basano in gran parte su un’interpretazione errata della struttura e dei termini dei prestiti, che non comportano il diritto di sequestrare il porto di Mombasa in caso di inadempienza.

Non bisogna inoltre sottovalutare il contributo dei prestiti commerciali esteri nei riguardi del problema del debito del Kenya, soprattutto perché l’attuale corsa alla liquidità dell’amministrazione Ruto è in gran parte concentrata su un Eurobond da 2 miliardi di dollari, in scadenza a giugno 2024.

Questo imminente rimborso è stato un fattore decisivo nel far sì che dal 2020 le previsioni economiche del FMI e della Banca Mondiale per il Kenya indicassero un superamento della soglia per essere classificato ad alto rischio di dissesto del debito, nonostante l’onere complessivo del debito del Kenya fosse giudicato sostenibile.

Il Kenya ha anche concordato una serie di costosi prestiti sindacati durante la frenesia dei prestiti dell’ultimo decennio, consegnandogli pesanti costi di servizio da pagare. Dal luglio 2022 al marzo 2023, il servizio del debito sui prestiti commerciali e i prestiti della SGR alla Cina è stato simile, rispettivamente a circa 850 milioni di dollari e 800 milioni di dollari.

Il Kenya esposto a pressioni che vanno oltre il suo controllo

Kristalina Georgieva, direttrice del FMI, ha descritto il Kenya come uno “spettatore innocente” di fronte agli shock esterni, alle notevoli pressioni che deve affrontare da parte di finanziatori esteri come la Cina, e alla sua posizione all’interno di un ambiente finanziario globale instabile.

I prestiti SGR cinesi sono denominati in dollari e due hanno tassi di interesse variabili, fissati al 3,6 o al 3% in più rispetto alla media del LIBOR (London Interbank Offered Rate). La stretta monetaria globale e l’indebolimento dello scellino keniota hanno aumentato l’onere del loro servizio dopo la scadenza dei periodi di grazia iniziali sui rimborsi del capitale.

Sia i finanziatori cinesi che quelli commerciali hanno esercitato un’influenza limitante sulla strategia complessiva di gestione del debito del Kenya. I timori che una clausola sugli Eurobond del Kenya potesse far risultare qualsiasi riduzione del debito come default – innescando potenzialmente un richiamo completo del prestito – hanno inizialmente impedito al Kenya di accedere all’Iniziativa del G20 per la sospensione del servizio del debito (DSSI) nel 2020.

Quando il Kenya alla fine ha aderito alla DSSI, il suo pieno impatto è stato limitato alla prima metà del 2021 poiché la Cina ha rifiutato unilateralmente qualsiasi proroga oltre tale data.

Con i paesi africani di fatto esclusi dai mercati internazionali nelle attuali condizioni globali, il Kenya sta tornando con riluttanza a costosi prestiti sindacati per integrare gli afflussi dal FMI e dalla Banca Mondiale nel colmare il divario degli Eurobond del 2024, mentre si destreggia con altri programmi per affrontare le pressioni sui cambi a breve termine, così come per un credito petrolifero.

Aggravando la mancanza di flessibilità della Cina, il tanto ambito accesso al mercato del Kenya è riuscito a rappresentare insieme un ostacolo agli aiuti e a renderlo allo stesso tempo spesso inaccessibile, quando necessario.

L’emergenza debitoria è causata da decisioni nazionali inadeguate

Sebbene il rimborso dei prestiti della SGR sia stato oneroso, ci sarebbe dovuta essere una preoccupazione molto maggiore per i costi di costruzione gonfiati della ferrovia e la sua sostanziale incapacità di generare entrate, nonostante l’intervento del governo per imporre il traffico delle merci.

Questa è un’eredità del pessimo processo decisionale keniota e di un processo di pianificazione guidato più da esigenze elettorali a breve termine che da esigenze strategiche. I prestiti cinesi sono stati una componente dell’impennata dei prestiti sotto l’amministrazione Kenyatta che ha visto il rapporto debito/PIL del Kenya salire dal 42 al 69% tra il 2013 e il 2020.

Il consolidamento fiscale volto ad affrontare la conseguente pressione del debito e a mantenere il sostegno del FMI è stato una caratteristica distintiva dei primi nove mesi in carica dell’amministrazione Ruto, con la rimozione dei sussidi governativi su cibo e carburante ora (maggio 2023, ndr) affiancata dalla proposta di aumenti fiscali.

Tali misure si stanno rivelando profondamente impopolari tra i cittadini del Kenya, già provati dalla pressione dell’elevata inflazione e dalla svalutazione della moneta, e molti hanno cercato di evidenziare una disparità con la riluttanza del governo a ridurre le proprie spese e gli sprechi, in particolare un sistema di gonfiamento delle spese attraverso delle nomine.

Limitare la dissolutezza del governo darebbe ulteriore credibilità alla condanna di Ruto di un sistema finanziario globale che dice “non è riuscito a rispondere alle esigenze delle economie emergenti“.

Sebbene le segnalazioni di hackeraggio rafforzino l’immagine della Cina come un creditore spietato e autoritario nei confronti dell’Africa (e con qualche giustificazione), i problemi di debito del Kenya non iniziano e finiscono con i finanziamenti cinesi.

Le controversie sulla Cina non dovrebbero oscurare il modo in cui le strutture del sistema finanziario globale e le dinamiche della governance nazionale interagiscono per determinare l’emergenza debitoria, sia in Kenya che altrove.

Con un importante vertice in arrivo sulle questioni finanziarie nel prossimo giugno (2023, ndr) a Parigi, Ruto deve cogliere ora l’opportunità per convincere i paesi africani e le altre economie emergenti a lavorare insieme per trovare risposte più sistemiche alle loro lotte per il debito.

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01/07/2024

La cura dal benessere (2016) di Gore Verbinski - Minirece

Police - King of Pain

Suicidi in carcere. Sentenze non scritte di pena di morte e gli ergastoli percepiti

“Nel mio caso non era il carcere, intesa come Istituzione Totale, era il carcere intesa come situazione esistenziale totalizzante: qualcosa che polverizzava più il futuro, che il presente. Provare a uccidermi era il mio unico atto di liberazione possibile rispetto a me stesso, ai miei errori, a tutto quello che avevo perso e che sapevo non avrei mai più ritrovato. Non era la claustrofobia della cella, ma il freddo nel guardarmi, nel giudicarmi, nell’incapacità di immaginarmi in un futuro vivibile. L’ergastolo, non come sentenza di un giudice, ma come destino che vede nella morte l’unico fine pena possibile.”

Ponticelli pallida madre: è la sintesi della vita di Angelo, dentro e fuori dalle relazioni di amore, di famiglia, di lavoro, di socialità. Dentro e fuori dal carcere, dalle comunità, dalle dipendenze. Un dentro e fuori che come un’altalena ha cancellato la progressione del tempo, arrivando a confondere ogni suo passato bruciato, con ogni orizzonte di futuro. Così questo pendolare lo ha condotto ad essere un balordo, senza esserlo. Un bastardo, pur volendo essere padre, figlio e marito esemplare. Un detenuto, un ergastolano: anche quando era a piede libero si portava questo nero nell’anima fatto di ferro e di paura.

“È come vivere la vita di un altro, ma farlo talmente tanto in fretta da non accorgersene. Fino a ritrovarsi in una cella schifosa e a non avere nessuna voglia di uscire, proprio perché la prigione è quella che hai al cervello e non solo quella delle sbarre.”

Angelo non riuscì ad uccidersi. Non ne ebbe il coraggio, meglio, non ci ha provato con grande convinzione. I tentati suicidi hanno molteplici meccanismi, assai poco sintetizzabili, ma due categorie si possono comunque tentare di tracciare: a) i falliti suicidi, b) i suicidi troppo timidi per essere realmente suicidi. Angelo, sempre secondo me, appartiene alla seconda categoria: una specie di volerlo fare per dire a sé stesso e agli altri di averci provato.

Un urlo, più che un gesto: un urlo, però, che a volte uccide lo stesso. Dopo il carcere è stato qualche anno in comunità, ma una volta fuori ha ricominciato la fetente vita di sempre. Poi il fantasma di sé stesso gli ha chiesto nuovamente il conto e, guarda caso, sempre dentro una cella buia di una prigione. “Vuoi vivere o vuoi morire? Decidi, ma senza rompere le palle al mondo”, si senti dire una mattina da una vocina acida nel suo cervellino alienato. È vivo ed è un ottimo amico.

40 suicidi in carcere quest’anno. 1 ogni 3 giorni. 85 nel 2022. 70 nel 2023. Atti di autolesionismo quotidiani. Ma anche altro: morti provocate da auto annientamento dovuto alla atarassia, quel lasciarsi andare che nessuna autopsia può diagnosticare e nessuna statistica conteggiare. Perché?

“Non ti vedi più. Questo è il problema. Il passaggio stretto della detenzione è crudele, vero, ma è la ferocia con la quale si cancella ogni avvenire possibile che ti annienta. Io, ad esempio, in carcere come in comunità stavo bene, anzi, trovavo anche equilibrio e interessi. Fuori non ho mai letto, neanche un fumetto, invece quando sono “chiuso” riesco a leggere tantissimo. Pensa che, ancora oggi, per leggere mi chiudo da qualche parte. Il mio guaio è che non riuscivo ad immaginarmi altro che quello. Quando ho provato ad uccidermi non reggevo più me stesso, non è che non reggevo il carcere. Non reggevo questa specie di mio ergastolo universale, circolare, forse frutto di una sentenza scritta anche da me, o dalla società e non da un giudice, ma comunque qualcosa che mi opprimeva, mi toglieva il respiro. Un ergastolo del cuore, del sentire, del dovere essere per forza lo sbandato violento e stupido. Non reggevo più questo orrore. La morte, il tentare di uccidersi, diventa scelta minima, quasi come comprarsi o no un gelato in casi come il mio. Diventa una delle opportunità concesse. Non sentivo di valere nulla per me e per nessuno: la cella, con i suoi riti e ritmi, ti sbatte in faccia ogni istante quanto sei meschino, fragile, inutile. La morte ti salva da te stesso, non dalla galera.”

Gli studiosi descrivono le Istituzioni Totali, chi pro o contro, sono d’accordo però nell’individuare queste “strutture” in luoghi ben precisi, con burocrazie ben definite. Una diagnosi, una sentenza, o altro che corrispondono a luoghi fisici: carcere, ospedale, manicomio, comunità e altri. Quello che stupisce, però, è che queste definizioni non spiegano i meccanismi che azionano i tanti suicidi, perché di per sé la situazione di deprivazione spiega solo una minima parte del fenomeno.

Dietro i suicidi in carcere, invece, si dovrebbe parlare di Istituzioni Totalizzanti, traslare quindi il concetto detentivo, dal luogo dove viene effettuata, alle implicazioni emotive che comporta che, in questo, non sono intrinseche nel luogo, quanto nelle elaborazioni mentali che quel luogo spinge a fare. Implicazioni che vanno ben oltre le misure restrittive della detenzione.

Contesti sociali di appartenenza, traumi fatti o subiti, alienazioni perpetue, dipendenze croniche, mancanza di stimoli e prospettive professionali, stigma e tantissime criticità che provocano i suicidi tra le mura carcerarie, vero, ma si riferiscono direttamente a contesti che non sono in quei luoghi, che sono nel ricordo o nell’orizzonte di un futuro che si percepisce impossibile o di un passato indigeribile. Angelo, ad esempio, sovrapponeva le condizioni estreme della vita carceraria, con il suo “fuori” altrettanto estremo. Era, a suo dire, l’oscillazione devastante tra questi due dentro che lo stava portando al creatore.

Mentre spesso l’attenzione dei media si concentra sulle condizioni carcerarie che, per quanto orribili, da sole non spiegano questa mattanza, anche perché spesso si ci uccide a inizio o a fine pena e, ancora, durante detenzioni non lunghissime. L’ergastolo percepito da Angelo è fatto di entrambe queste detenzioni e, per quanto orribile dirlo, è una sensazione che scaturisce dalle sentenze non scritte di inutilità e marginalità perpetua che la società emette e che, in qualche modo, il carcere tira fuori.

Non è un caso, quindi, che si eseguono queste condanne a morte non scritte, perlopiù nei giorni comandati: ad agosto, come nelle festività. Non perché con il caldo manca l’aria condizionata o a Natale il banchetto di famiglia, quanto perché sono giorni in cui il cervello del condannato si sposta in altri luoghi, quelli della memoria e dei bilanci: sono questi due macigni che spingono al gesto estremo.

Poi è anche vero che la brutalità della vita detentiva fa deflagrare ogni malessere ma, di fondo, agisce su psiche turbate, dove le torsioni della prigionia scavano solchi che solo un diritto reale alla tenerezza, oltre che ad un reinserimento sociale, può lenire.

Una volta Angelo mi disse che da quel buio una mano lo aveva afferrato per i capelli e tirato fuori. La cosa mi fece scoppiare a ridere: Angelo è calvo. Però, stabilito di voler vivere, dovette chiudere con entrambe le detenzioni e uscito da Poggioreale cambiò tutto, anche rispetto alla detenzione del suo fuori. Casa, abbigliamento, giri sociali, abitudini, numero del telefono, rapporti con la famiglia: uno tsunami identitario forzato, forse frutto di disciplina, ma che fino ora gli ha salvato la vita.

Del resto il detenuto 7047 delle galere fasciste, Antonio Gramsci, per salvarsi dalle trasformazioni molecolari che la vita detentiva gli imponeva, si diede una disciplina ferrea. Quel “per sempre”, che si impose scrivendolo in tedesco, che indicava un’attenzione intellettuale verso il suo Io di fuori, il suo Io identitario, senza cadere nelle trappole delle maschere dell’imprigionato, della ossessione verso sé. Gli stessi “Quaderni” sono frutto di questa auto disciplina da contrappore alla disciplina fascista: una Resistenza.

Così negli ergastoli “percepiti” della modernità turbocapitalista bisogna dare come implicite le pene accessorie non scritte che traslano il carcere, da luogo fisico, a luogo dello spirito: dove l’annientamento non è dato dalla detenzione brutale, ma dalle implicazioni che questa imprime a fuoco nei cervelli dei più fragili e nei disfunzionali. Una torsione che, molto aldilà dei reati commessi e dalle sentenze da scontare, può trasformarsi in ergastoli o in pene di morte.

Non resta che opporsi, anche per chi detenuto non è, con una disciplina che rimandi ad altri valori e a futuri possibili. Immagini, forse, ma uniche forme per preservare la Dignità di chi è caduto nelle tante detenzioni della società del consumismo. Resistenza Umana, da contrappore alla tenaglia dei due nero, quello specifico della detenzione e quello sfumato della super alienazione, che vede nella segregazione lo strumento principe per trasformare l’Uomo in altro.

“Comprendere la mia malattia. Accettarla. Mi ha dato la possibilità di creare uno spazio dove non mi sento giudicato. Così ho trovato degli interessi che, ancora oggi, mi isolano dai contesti di degrado nei quali sono cresciuto. Ma devo ricordarmi che sono gli unici che ho e che questa forma di nuova detenzione, che mi auto impongo, mi rende diverso dagli altri.

Oggi posso trascorrere intere domeniche a leggere. Posso giustificarmi del fatto che non vedo mio fratello da anni, perché è ancora dentro i casini e non vuole uscirne. Una specie di egoismo, ma forse è l’unica difesa che ho da quel nero che, storto o morto, ho dentro di me. Arrivare sul confine tra la vita e la non vita ti dà una forza magica: sono l’Angelo che rubava nelle chiese le elemosine nelle cassette dei santi, ma sono anche l’Angelo che oggi è a servizio degli amici e si sta riallacciando gradatamente al genere Umano. Sono entrambe queste cose e guardarmi dall’alto, da quel confine assurdo della voglia di farla finita, mi ricorda chi sono e cosa devo fare per non tornare ad esserlo.

Il carcere, almeno nei miei sprofondi, entra poco: è una piccola parte, nemmeno la peggiore, delle mie prigioni. Però è quella che ha messo a nudo la mia fragilità, spingendomi ai tentati suicidi. Si ci ammazza in carcere perché ci sta un preciso momento in cui si vede con nitidezza quanto si è scesi nella fogna e quanto non ci sia una strada per uscirne. È quello il botto del buio pesto, quello in cui una piccolissima cosa, che sia una scorreggia di un compagno o uno scarafaggio che si aggira sul pavimento che fa esplodere tutto. La rabbia che ti fa bruciare è improvvisa e persino il dolore di tagliarsi o conficcarsi uno stuzzicadenti nella mano ti distrae da quel nero dentro che è talmente solido da ingoiare ogni luce.”

Forse è questo l’errore delle analisi sui suicidi in carcere. Si discute tra la definizione di “dentro” e si contrappone a quella del “fuori”, mentre in realtà molte di queste esistenze oscillano tra due dentro. La Pubblica Opinione si indigna sulle condizioni inumane del dentro stigmatizzando carenza di strutture, sovrappopolamento, carenza di personale eccetera eccetera, mentre spesso è l’assenza di un fuori che spinge all’auto annientamento e al suicidio.

Quel “fuori che aspetta” come elemento principale di sogni, di bisogni, di speranze che nelle vite perdute si liquefano progressivamente in una grammatica dove sparisce il tempo. Passato, Presente, Futuro triturati in un nero che non lascia spazio all’amore.

Quando il detenuto Angelo ha percepito il fermarsi del tempo, del suo tempo, ha anche decretato la sua fine. Il suicidio, secondo me, è il fisiologico esercitare l’ultimo dei propri diritti, quando tutti gli altri sono stati offuscati e non il gesto estremo di non reggere alla detenzione, ma quello di rivendicare una libertà. L’unica libertà possibile. “Ci vuole umiltà e non orgoglio” scriveva Pavese, ma nel caso dei suicidi in carcere ci sta la combinazione di questi due fattori.

“Aprire tutte le prigioni dell’essere affinché l’umanità abbia tutti gli avveniri possibili”

Rubo la citazione di Gaston Bachelard, da “Il bosco di bistorco” il primo libro edito da Sensibili alle Foglie, la cooperativa editoriale messa su, proprio dentro un carcere, da Renato Curcio, Stefano Petrelli e Nicola Valentino: esperienza che va letta proprio in chiave di Resistenza di un Io identitario rispetto alla decomposizione di ogni Io carcerario.

Ma come hai resistito?

“Difficile da spiegare. Penso che sia la capacità, del detenuto o sofferente che sia, di mantenere un filo di comunicazione con sé stesso. Senza recidere quelle specificità proprie che ti mantengono Uomo, quando tutto ti spinge a diventare bestia. Una luce, uno spazio mentale, una piccolissima cosa nella quale si mantiene un margine di Dignità. Quando questo filo sottilissimo si rompe, si entra in una spirale dove alla devastazione delle Istituzioni e della propria stessa vita, si aggiunge un non so ché di cronico, di eterno, di irreversibile che rende la sopravvivenza stessa impossibile.

Gli altri, forse anche in buona fede, tentano invece di legittimare questa discesa verso una omologazione tra la figura del carcerato e il carcere stesso. Una sovrapposizione che cancella ogni speranza, che annega quel che resta di te in una vergogna sorda, invalidante. Il suicidio diventa quindi non l’atto finale di una scelta, ma la conseguenza di una incapacità a reggere l’ergastolo nel cuore e non tanto la detenzione che si sta scontando. Ma il carcere è questo: annientare, non rieducare. Nascondere, non punire. Come ti spieghi, ad esempio, che hanno proibito farina e lievito a Cospito? Come ti spieghi che gli hanno già proibito musica e foto di famiglia?

È la scelta, non tanto del sistema Carcere, quanto della società intera di annullare, piegare, scomporre ogni residuo di Umanità in chi cade, quanto in chi sbaglia. Riuscire a resistere a questi pesi non è dato dalla forza, anzi, ma dalla leggerezza. Essere farfalla, non leone. Poi ci sta, almeno nel mio caso, la creatività: il perdersi dietro un passatempo anche ore, abitudine che rende ogni tipo di detenzione superabile. Non è il solito “adda passà a nuttata”, anzi è volerla vivere, in qualche modo, fino in fondo. Decidere di essere libero. Di essere, contemporaneamente, attore e spettatore della propria tragedia. Io mi sono salvato così: una lettera d’amore a donne che non conoscevo, una poesia che non sapevo decifrare, un sogno che sapevo di non poter vivere. Ma quando si sceglie di continuare a stare al mondo, nonostante ci si senta un numero grigio e si sia palesato dentro l’idea di darsi la morte, bisogna inondare di colori la propria esistenza. Di avveniri possibili, esattamente come dici tu.”

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Francia - Vince l’estrema destra

In Francia la prevista, storica vittoria dell’estrema destra c’è stata, anche se in misura leggermente inferiore rispetto ai sondaggi della vigilia e agli exit poll resi noti ieri alle 20, subito dopo la chiusura delle urne nelle grandi città (nella maggior parte delle località francesi, invece, lo spoglio delle schede era iniziato già alle 18:00).

Per timori di scontri dopo la diffusione dei risultati, il Ministero degli Interni aveva mobilitato decine di migliaia di agenti e fatto ricorso anche all’esercito, ma alla fine le manifestazioni convocate dai vari partiti si sono svolte in completa tranquillità.

Il trionfo dell’estrema destra 

Le elezioni anticipate convocate la sera stessa del voto europeo dal presidente Emmanuel Macron dopo la sconfitta del suo movimento centrista “Ensemble” le ha vinte il Rassemblement National, in una giornata caratterizzata da un tasso record di partecipazione – il più alto dal 1997 – che ha creato lunghe file in molti seggi. Alle urne si è recato il 66,7% degli aventi diritto, con un balzo del 19% rispetto a due anni fa. La stragrande maggioranza degli elettori si è divisa tra i tre principali blocchi politici che insieme rappresentano più dell’80% dei consensi.

Il partito di Marine Le Pen e del giovane Jordan Bardella (28 anni) ha ottenuto il 29,2%, al quale occorre aggiungere il 4% conquistato dai Repubblicani che hanno deciso di allearsi con l’ultradestra, che in totale ha portato a casa 10 milioni di voti. Un trionfo rispetto alle legislative del 2022, quando il Rassemblement National, già in forte crescita, si era fermato al 18,7%. Il RN ha eletto ieri 39 deputati, tra cui Marine Le Pen e Sébastien Chenu, ed è cresciuto soprattutto nelle aree rurali e nei piccoli centri.

Le sinistre resistono e conquistano Parigi 

In seconda posizione si è piazzato il Nuovo Fronte Popolare, formato in tutta fretta dai partiti di sinistra e centrosinistra due settimane fa, superando le rivalità che avevano paralizzato la NUPES (Nouvelle Union populaire écologique et sociale), un’alleanza simile che aveva corso alle scorse legislative.

Insieme socialisti, France Insoumise, Ecologisti, Comunisti e Anticapitalisti hanno ottenuto il 28% dei consensi e quasi 9 milioni di voti, eleggendo al primo turno 32 deputati. Nel 2022 la Nupes aveva raccolto 6 milioni di voti e il 26%, a cui occorre sommare i risultati di altre liste minori che stavolta sono entrate nell’alleanza.

In sintesi, il NFP conferma il suo spazio politico e mobilita nuovi elettori, ad esempio a Parigi dove arriva in testa in 13 collegi su 18 ed elegge ben 9 candidati al primo turno. Le sinistre aumentano i consensi anche tra gli elettori più giovani (il 41 per cento degli elettori tra 18 e 24 anni hanno votato per le Nouveau Front Populaire, il 23% ha scelto il RN e i suoi alleati e solo il 13% ha votato al centro) ma percentualmente non sfondano rispetto alle scorse elezioni, regredendo anzi in molte circoscrizioni lontane dalle grandi città. Inoltre, nell’alleanza ha notevolmente aumentato il suo peso l’ala moderata rappresentata dai socialisti, cresciuti fino a ottenere circa il 14%.

Sconfitta storica per Macron 

La sconfitta della maggioranza parlamentare uscente e dell’inquilino dell’Eliseo, Emmanuel Macron, è innegabile, anche se con il 20% e i quasi 7 milioni di voti “Ensemble pour la Republique” recupera un po’ di ossigeno rispetto al 14% delle europee. Ma al primo turno i macroniani di “Renaissance”, con i loro alleati di “Horizons” e “MoDem”, eleggono solo 2 deputati. Nel 2022 “Ensemble” si era piazzata in testa con il 25,75% e 8 milioni di voti. Ha funzionato solo in parte l’appello del presidente a votare i centristi per fare “argine” agli opposti estremismi rappresentati secondo lui da Le Pen e Melenchon, così come la scelta di sciogliere improvvisamente il parlamento pensando che il timore di una vittoria dell’ultradestra avrebbe convinto molti francesi a scegliere, obtorto collo, il suo partito.

Dal voto di ieri escono fortemente ridimensionati anche i i neogollisti (centro-destra) divisi tra coloro, tra cui l’ex presidente Eric Ciotti, che hanno varato un patto di desistenza con Marine Le Pen (e che hanno ottenuto circa il 4%) e la maggioranza dei Républicains rimasta indipendente, che da sola ha preso il 6,6%.

Reconquête, il partito di estrema destra oltranzista guidato da Eric Zemmour che alla fine non è riuscito ad allearsi con Le Pen e che anzi ha perso pezzi a vantaggio del Rassemblement National – a partire da Marion Maréchal, nipote di Marine Le Pen tornata all’ovile per queste elezioni – ha preso solo lo 0,8%.

La vera partita si gioca al secondo turno 

Visto il bassissimo numero di deputati eletti ieri, il duello fondamentale si giocherà il 7 luglio prossimo, quando in ognuna delle circoscrizioni dove ieri nessun candidato ha ottenuto almeno il 50%, si scontreranno tutti coloro che hanno superato il 12,5% degli aventi diritto. In ben 306 casi a concorrere saranno 3 candidati ed in altri 4 ben 4, ed in 297 circoscrizioni in testa è arrivato un candidato lepenista o un neogollista di Ciotti.

Di qui l’importanza dei patti di desistenza e del “fronte repubblicano”, invocato soprattutto a sinistra e nel centrosinistra per impedire che il 33% dell’estrema destra si traduca in una valanga di seggi.
Le Pen e Bardella aspirano infatti a ottenere la maggioranza assoluta (almeno 290 seggi) per provare a resistere ai condizionamenti di un presidente della Repubblica che rimarrà all’Eliseo fino al 2027, sperando che un eventuale governo del Rassemblement consumi nel frattempo l’estrema destra.

Mentre i leader dei partiti di centrosinistra e sinistra hanno da subito chiarito che ritireranno i candidati del NFP laddove sono giunti terzi per far convergere il voto “repubblicano” (cioè antifascista) sui candidati contrapposti al RN meglio piazzati, non è affatto detto che anche i macroniani facciano lo stesso.

Per Macron e i gollisti Le Pen e Melenchon pari sono 

Ieri il presidente, che con le sue politiche autoritarie e liberiste – a partire dalla contestatissima riforma delle pensioni e dai tagli allo stato sociale, passando per la posizione oltranzista di sostegno all’Ucraina – va considerato il primo responsabile del boom del voto di estrema destra, ha fatto appello a creare un blocco “chiaramente democratico e repubblicano” per sbarrare la strada al RN al secondo turno. Al momento, però, non sembra che “Ensemble” intenda rinunciare in tutti i collegi dove i candidati de La France Insoumise sono meglio piazzati di quelli centristi, favorendo di fatto il partito di Le Pen e Bardella.

Il primo ministro uscente Gabriel Attal ha dichiarato che i candidati di Ensemble arrivati in terza posizione si ritireranno dalla competizione ma in un’intervista dopo il voto, il Ministro dell’Economia uscente ed esponente di punta macroniano, Bruno Le Maire, ha equiparato sinistra radicale ed estrema destra, affermando che se «il Rassemblement National è un pericolo per la Repubblica la France Insoumise è un pericolo per la nazione» suscitando le proteste delle sinistre e alcune critiche nel suo stesso schieramento. Alcuni candidati di Ensemble hanno già fatto sapere che non si ritireranno anche se la loro presenza al secondo turno potrebbe portare all’elezione di deputati lepenisti.

Anche i repubblicani, sostenuti da pezzi consistenti dell’establishment economico e intellettuale, hanno deciso che daranno indicazioni ai propri elettori “caso per caso”, per impedire la vittoria dei candidati più a sinistra.

Sul fronte opposto, anche per molti elettori della sinistra radicale sarà difficile votare per gli esponenti dell’ex maggioranza macroniana responsabili delle misure più contestate e antipopolari.

In attesa di sapere quanti seggi conquisterà l’ex Front National abilmente ripulito negli ultimi anni dalla figlia del fondatore Jean-Marie Le Pen, è probabile che dal ballottaggio del 7 luglio esca un parlamento senza una netta maggioranza e si apra un periodo di instabilità politica ed economica per una Francia che appare – in primis ai suoi abitanti – in forte declino rispetto al passato, sia sul piano egemonico che sul piano economico.

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[Contributo al dibattito] - Le condizioni della Germania - Intervista a Sahra Wagenknecht

L’economia tedesca deve affrontare molteplici crisi convergenti, sia strutturali che congiunturali. L’impennata dei costi energetici dovuta alla guerra con la Russia; lo shock del costo della vita, con un’inflazione elevata, alti tassi d’interesse e salari reali in calo; l’austerità imposta dal freno costituzionale al debito, mentre i concorrenti americani puntano all’espansione fiscale; la transizione verde che colpirà settori chiave come l’industria automobilistica, l’acciaio e la chimica; e la trasformazione della Cina, uno dei più importanti partner commerciali della Germania, in un concorrente in settori come i veicoli elettrici. Può dirci innanzitutto quali sono le regioni più colpite dalla crisi?

C’è in corso una crisi generale, la più grave degli ultimi decenni, e la Germania si trova in una situazione peggiore di qualsiasi altra grande economia. Le più colpite sono le regioni industriali, finora spina dorsale del modello tedesco: la Grande Monaco, il Baden-Württemberg, il Reno-Neckar, la Ruhr. Durante la pandemia, il commercio al dettaglio e i servizi sono stati i più colpiti. Ma ora le nostre imprese del Mittelstand sono sottoposte a una forte pressione. Nel 2022 e 2023, le imprese industriali ad alta intensità energetica hanno subito un calo della produzione del 25%. È un dato senza precedenti. Hanno appena iniziato ad annunciare licenziamenti di massa. Queste piccole e medie imprese a conduzione familiare – molte delle quali specializzate in ingegneria o produttrici di macchine utensili, ricambi auto, apparecchiature elettriche – sono davvero importanti per la Germania. Sono perlopiù gestite dai proprietari o a conduzione familiare, quindi non sono quotate in borsa e spesso hanno un carattere piuttosto robusto.

Ma hanno una cultura aziendale propria, concentrata sul lungo termine, sulla prossima generazione, piuttosto che sui profitti trimestrali. Sono radicate nelle loro comunità locali, spesso effettuano scambi commerciali business-to-business. Vogliono trattenere i loro lavoratori, invece di sfruttare ogni scappatoia, come le grandi aziende, di cui anche noi siamo pieni.

Sono le imprese del Mittelstand a soffrire davvero nella crisi attuale. Con il perdurare dei prezzi elevati dell’energia, c’è il rischio concreto che i posti di lavoro nel settore manifatturiero vengano distrutti su larga scala. E quando l’industria se ne va, se ne va tutto: posti di lavoro dignitosamente retribuiti, potere d’acquisto, coesione della comunità. Basta guardare il Nord dell’Inghilterra o la deindustrializzazione dei Länder orientali. Il fatto che abbiamo questa solida base industriale significa che abbiamo ancora un numero relativamente alto di posti di lavoro ben retribuiti. Ma le imprese del Mittelstand sono sotto pressione da molto tempo. I politici tradizionali amano tessere le loro lodi, perché sono molto popolari in Germania: è una bella conquista aver mantenuto queste piccole aziende familiari altamente qualificate contro le pressioni delle acquisizioni aziendali e della globalizzazione. Aiutate in parte dall’euro a buon mercato e dal gas russo a basso prezzo, alcune di esse sono diventate i cosiddetti campioni nascosti e leader del mercato mondiale. Ma i governi tedeschi, spinti dal capitale globale, hanno inasprito le condizioni in cui operano. Questo fa parte della svolta neoliberista della coalizione rosso-verde di Gerhard Schröder all’inizio del millennio. Schröder ha abolito il vecchio modello delle banche locali che detenevano grandi blocchi di azioni di società locali; questo aveva almeno il vantaggio che la maggior parte delle azioni non erano scambiate liberamente, quindi non c’era la pressione sul valore degli azionisti da parte di gruppi finanziari o hedge fund per massimizzare i rendimenti. Schröder ha anche concesso un’esenzione dall’imposta sui profitti, per invogliare le banche a vendere le loro quote industriali: se non l’avesse fatto, il modello probabilmente non si sarebbe rotto.

Non voglio idealizzare il Mittelstand. Ci sono aziende a conduzione familiare che sfruttano duramente i propri dipendenti. Ma si tratta comunque di una cultura diversa da quella delle società quotate in borsa con investitori internazionali, prevalentemente istituzionali, interessati solo a inseguire rendimenti a due cifre. Lasciare che il Mittelstand venga distrutto sarebbe un vero e proprio errore politico, perché molti aspetti della crisi economica hanno le loro radici in decisioni politiche sbagliate – decisioni come la guerra con la Russia, come il modo in cui viene gestita la transizione verde, come l’atteggiamento antagonista nei confronti della Cina, tutte decisioni che vanno chiaramente contro gli interessi economici della Germania. Schröder era der Genosse der Bosse – il compagno dei padroni, come eravamo soliti chiamarlo – ma almeno guardava la situazione e capiva l’importanza di garantire il flusso di gas a prezzi accessibili nei gasdotti. L’attuale governo è passato al costo elevato del gas naturale liquefatto americano per ragioni puramente politiche. Tutti e tre i partiti della coalizione di governo – Spd, Fpd e Verdi – sono crollati nei sondaggi perché la gente è stufa del modo in cui il Paese viene governato.

Vorremmo esaminare queste decisioni politiche, una per una. In primo luogo, l’enorme aumento dei costi energetici tedeschi è una conseguenza diretta della guerra in Ucraina. Secondo lei, l’invasione russa poteva essere evitata? Si dice comunemente che sia stata guidata dal nazionalismo revanscista della Grande Russia, che poteva essere fermato solo con la forza delle armi.

La mia impressione è che Washington non abbia mai cercato di fermare l’invasione russa, se non con mezzi militari. Con l’Ucraina che si muoveva rapidamente verso l’adesione all’UE e alla NATO, doveva essere chiaro che era necessario un qualche tipo di regime di sicurezza concordato per rassicurare gli interessi di sicurezza nazionale dello Stato russo. Ma gli Stati Uniti hanno posto fine a tutti i trattati di controllo degli armamenti e alle misure di rafforzamento della fiducia nel 2020, e nell’inverno del 2021-22 l’amministrazione Biden ha rifiutato di parlare con la Russia del futuro status dell’Ucraina. Non c’è bisogno del “nazionalismo revanscista della Grande Russia” per spiegare perché la Russia abbia pensato di non poter più stare a guardare mentre l’Ucraina veniva trasformata in un’importante base della Nato.

La Germania è sottoposta a forti pressioni da parte degli Stati Uniti per ridurre i suoi legami economici con la Cina. Come vede questa relazione?

La situazione è un po’ più ambigua rispetto alla Russia. Il fatto che la Cina stia diventando un concorrente non è colpa della Germania, questo è chiaro. Ma se dovessimo tagliarci fuori dal mercato cinese, oltre a tagliarci fuori dall’energia a basso costo, in Germania si spegnerebbe davvero la luce. Ecco perché c’è una certa pressione, anche tra le grandi aziende, a non adottare una strategia isolazionista. In percentuale del PIL, esportiamo in Cina molto più di quanto non facciano gli Stati Uniti, quindi la nostra economia dipende molto di più da essa. Ma i Verdi sono stati fanatici su questo punto, così completamente asserviti agli Stati Uniti da adottare una posizione virulentemente anti-cinese. Baerbock, il ministro degli Esteri dei Verdi, ha commesso delle vere e proprie gaffe diplomatiche. In almeno un caso, nel Saarland, ha fatto scappare un importante investimento cinese con annessi posti di lavoro. Si tratta quindi di un nuovo preoccupante sviluppo. I cinesi possiedono molte aziende in Germania, che spesso vanno meglio di quelle rilevate dagli hedge fund americani. Di norma, i cinesi pianificano investimenti a lungo termine, non il tipo di pensiero trimestrale che caratterizza molte società finanziarie americane. Naturalmente vogliono ricavare un profitto, e anche le tecnologie non sono disinteressate; ma offrono anche posti di lavoro sicuri.

Questo è molto importante per la nostra economia. Non credo che Scholz abbia ancora deciso come posizionarsi. Anche l’Fdp sta manovrando, sotto la forte pressione delle imprese tedesche. Si sta svolgendo un dibattito parallelo sulle riserve valutarie congelate della Russia: se le esproprieranno, anche solo per gli interessi che maturano, invieranno un segnale inequivocabile alla Cina affinché eviti, se possibile, le riserve in euro. Alcune vengono già scambiate con l’oro. Gli Stati Uniti non stanno espropriando le riserve russe, per una buona ragione. Quindi, ancora una volta, sono solo gli europei a rendersi ridicoli. Stiamo rovinando le nostre prospettive economiche in modo che i cinesi possano – perché in realtà puntano a farlo – diventare comunque sempre più autosufficienti. Hanno ancora bisogno del commercio, ma forse tra vent’anni ne avranno meno bisogno di quanto noi ne avremo bisogno di loro.

Secondo Robert Habeck, ministro dell’Economia ed ex co-leader dei Verdi, la più grande sfida economica della Germania è la carenza di lavoratori, sia qualificati che non, con circa 700.000 posti vacanti. Dato l’invecchiamento della società, il governo stima che il Paese sarà privo di 7 milioni di lavoratori entro il 2035. Se la salute del capitalismo tedesco è una priorità per il vostro nuovo partito, questo non richiede un livello significativo di immigrazione?

Il sistema educativo tedesco è in uno stato miserevole. Il numero di giovani adulti senza titolo di studio è in continuo aumento dal 2015. Nel 2022, 2,86 milioni di persone tra i 20 e i 34 anni non avevano una qualifica formale, tra cui molte persone con un background migratorio. Ciò corrisponde a quasi un quinto di tutte le persone in questa fascia d’età. Ogni anno in Germania più di 50.000 studenti lasciano la scuola senza un diploma, con conseguenze drammatiche per loro stessi e per la società. Per loro, il dibattito sulla mancanza di lavoratori qualificati suona come una presa in giro. La nostra priorità è inserire queste persone nella formazione professionale.

Ciononostante è necessaria una certa immigrazione, data la situazione demografica della Germania. Ma deve essere gestita, in modo da tenere conto degli interessi di tutte le parti: i Paesi di origine, la popolazione del Paese di accoglienza e gli stessi immigrati. Per questo è necessaria una preparazione, che in questo momento non c’è. Non crediamo che un regime di immigrazione neoliberale, in cui tutti possono andare ovunque e poi devono in qualche modo cercare di adattarsi e sopravvivere, sia una buona idea. Dobbiamo accogliere le persone che vogliono lavorare e vivere nel nostro Paese e dovremmo imparare a farlo. Ma questo non deve portare a sconvolgere la vita di chi già vive qui e non deve sovraccaricare le risorse collettive, per le quali le persone hanno lavorato e pagato le tasse. Altrimenti, l’ascesa di una politica di destra nativista sarà inevitabile. In effetti, l’AfD nella sua forma attuale è in gran parte un’eredità di Angela Merkel. In Germania abbiamo una drammatica carenza di alloggi, soprattutto per le persone a basso reddito, e la qualità dell’istruzione nelle scuole pubbliche è diventata a tratti spaventosa. La nostra capacità di dare agli immigrati una possibilità di partecipazione paritaria alla nostra economia e società non è infinita. Riteniamo inoltre che sia molto meglio se le persone possono trovare istruzione e lavoro nei loro Paesi d’origine, e dovremmo sentirci obbligati ad aiutarli in questo, non da ultimo con un migliore accesso al capitale d’investimento e un regime commerciale equo, piuttosto che assorbire alcuni dei giovani più intraprendenti e talentuosi di quei Paesi nella nostra economia per colmare le nostre lacune demografiche. Dovremmo anche rimborsare ai Paesi di origine i costi di formazione dei lavoratori altamente qualificati che si trasferiscono in Germania, come i medici. E dovremmo affrontare il lato dell’immigrazione legato al traffico di esseri umani, le bande che guadagnano milioni aiutando a entrare in Europa persone che non hanno realmente bisogno di asilo.

Molti di coloro che potrebbero essere solidali con la Bsw temono che affermazioni come il suo commento dello scorso novembre sul vertice sulla politica migratoria a Berlino – “La Germania è sopraffatta, la Germania non ha più spazio” – contribuiscano a creare un’atmosfera xenofoba. Non è forse importante essere chiari nell’evitare qualsiasi suggestione di razzismo o xenofobia quando si discute di quale potrebbe essere una politica migratoria giusta?

Il razzismo va sempre combattuto, non solo evitato, ma combattuto. Ma indicare le reali carenze sociali – la domanda supera la capacità – non è xenofobo. Sono solo fatti. Per esempio, in Germania c’è una carenza di alloggi di 700.000 unità. Ci sono decine di migliaia di posti di lavoro nel campo dell’insegnamento non coperti. Naturalmente, l’arrivo improvviso di un gran numero di richiedenti asilo in fuga dalle guerre – un milione nel 2015, soprattutto da Siria, Iraq e Afghanistan; un milione dall’Ucraina nel 2022 – produce un’enorme impennata della domanda, che non viene soddisfatta da alcun aumento della capacità. Questo crea un’intensa competizione per le scarse risorse e alimenta la xenofobia. Non è giusto per i nuovi arrivati, ma non è giusto nemmeno per le famiglie tedesche che hanno bisogno di alloggi a prezzi accessibili, o i cui figli frequentano scuole in cui gli insegnanti sono completamente oberati perché metà della classe non parla tedesco. E questo sempre nelle aree residenziali più povere, dove la gente è già sotto stress.

Non è utile negare o sorvolare su questi problemi. È quello che hanno cercato di fare gli altri partiti e che alla fine ha semplicemente rafforzato l’AfD. La migrazione avverrà sempre in un mondo aperto e spesso può essere un arricchimento per entrambe le parti. Ma è essenziale che la sua portata non sfugga di mano e che le ondate migratorie improvvise siano tenute sotto controllo.

Lei dice che il razzismo deve essere combattuto, ma quando il manifesto del Parlamento europeo del Bsw dichiara che in Francia e in Germania ci sono “società parallele influenzate dall’Islam” in cui “i bambini crescono odiando la cultura occidentale”, questo suona come pura demonizzazione. Eppure, allo stesso tempo, la leadership e la rappresentanza parlamentare del Bsw è senza dubbio la più multiculturale per provenienza di qualsiasi partito tedesco. Come risponderebbe a questo?

Ci sono luoghi del genere in Germania, non così tanti come in Svezia o in Francia, ma si notano. Se si considerano le persone solo come fattori di produzione e la società solo come un’economia difesa da una forza di polizia, questo non deve preoccupare più di tanto. Vogliamo evitare una spirale di sfiducia e ostilità reciproca. Coloro che fanno parte del nostro gruppo e che hanno un cosiddetto “background multiculturale” conoscono entrambe le parti e hanno un interesse vitale per una società in cui tutte le persone possano vivere insieme in pace, libere dallo sfruttamento. Conoscono in prima persona la vacuità delle politiche neoliberali sull’immigrazione – le “frontiere aperte” sono esattamente questo – quando si tratta di mantenere le promesse. Le donne del nostro gruppo, in particolare, sono felici di vivere in un Paese che ha ampiamente superato il patriarcato e non vogliono che venga reintrodotto per vie traverse.

Lei ha citato le politiche di transizione verde come contrarie agli interessi economici della Germania. A cosa si riferiva?

L’approccio dei Verdi alla politica ambientale è economicamente punitivo per la maggior parte delle persone. Sono favorevoli a prezzi elevati per la CO2, rendendo i combustibili fossili più costosi per creare un incentivo ad abbandonarli. Questo può funzionare per le persone benestanti che possono permettersi di acquistare un’auto elettrica, ma se non si hanno molti soldi, significa solo che si sta peggio. I Verdi irradiano arroganza nei confronti dei più poveri e per questo sono odiati da gran parte della popolazione. L’AfD fa leva su questo: prospera sull’odio verso i Verdi, o meglio verso le politiche che i Verdi perseguono. Alla gente non piace sentirsi dire dai politici cosa mangiare, come parlare, come pensare. E i Verdi sono prototipici di questo atteggiamento missionario nel portare avanti la loro agenda pseudo-progressista. Certo, se potete permettervi un’auto elettrica, dovreste guidarne una. Ma non si dovrebbe credere di essere una persona migliore di chi guida una vecchia auto diesel di fascia media perché non può permettersi altro. Al giorno d’oggi, gli elettori dei Verdi tendono a essere molto benestanti – i più “economicamente soddisfatti”, secondo i sondaggi, anche più degli elettori del Fdp. Incarnano un senso di autocompiacimento, anche se fanno aumentare il costo della vita per le persone che faticano a tirare avanti: siamo i più virtuosi, perché possiamo permetterci di comprare cibo biologico. Possiamo permetterci una cargo bike. Possiamo permetterci di installare una pompa di calore. Possiamo permetterci tutto”.

Lei critica l’approccio dei Verdi, ma quali politiche ambientali perseguirebbe?

Politiche con cui la grande maggioranza delle persone nel nostro Paese possa convivere, economicamente e socialmente. Abbiamo bisogno di un’ampia offerta pubblica per le conseguenze immediate del cambiamento climatico, dalla pianificazione urbana alla silvicoltura, dall’agricoltura ai trasporti pubblici. Tutto ciò sarà costoso. Preferiamo la spesa pubblica per la mitigazione dei cambiamenti climatici rispetto, ad esempio, all’aumento del bilancio della cosiddetta “difesa” al 3% del PIL o più. Non possiamo pagare tutto in una volta. Abbiamo bisogno di pace con i nostri vicini per poter dichiarare guerra al “riscaldamento globale”. Distruggere l’industria automobilistica nazionale rendendo obbligatorie le auto elettriche solo per soddisfare alcuni standard arbitrari sulle emissioni non è ciò che sosteniamo. Nessuno di noi vivrà per vedere le temperature medie abbassarsi di nuovo, indipendentemente da quanto ridurremo le emissioni di carbonio. Per prima cosa, dotiamo le case degli anziani, gli ospedali e i centri di assistenza all’infanzia di aria condizionata a spese pubbliche, e rendiamo sicuri i luoghi vicini ai fiumi e ai torrenti contro le inondazioni. Assicuriamoci che i costi del perseguimento di ambiziose scadenze di riduzione delle emissioni non vengano imposti alla gente comune che già fatica a far quadrare i conti.

Anche la Germania è attualmente scossa da una crisi culturale per il massacro di oltre 30.000 palestinesi a Gaza da parte di Israele. Lei è uno dei pochi politici ad aver sfidato il divieto tedesco di criticare Israele e a essersi espresso contro la fornitura di armi da parte della Germania al governo di Netanyahu, insieme a Stati Uniti e Regno Unito. L’attuale offensiva culturale filo-sionista rappresenta l’opinione popolare in Germania?

Naturalmente in Germania c’è un background storico diverso, quindi è comprensibile e giusto che abbiamo un rapporto diverso con Israele rispetto ad altri Paesi. Non si può dimenticare che la Germania è stata l’artefice dell’Olocausto, non si deve mai dimenticare questo fatto. Ma questo non giustifica la fornitura di armi per i terribili crimini di guerra che si stanno verificando nella Striscia di Gaza. E se si guarda ai sondaggi di opinione, la maggioranza della popolazione non è d’accordo. La copertura mediatica è sempre selettiva, naturalmente, ma anche così è ovvio che la gente non può andarsene, che viene brutalmente bombardata. La gente muore di fame, le malattie dilagano, gli ospedali sono sotto attacco e disperatamente mal equipaggiati. Tutto questo è evidente, e sul campo in Germania ci sono sicuramente posizioni molto critiche. Ma in politica, chiunque esprima critiche viene immediatamente colpito con la clava dell’antisemitismo. Lo stesso vale nel discorso sociale e culturale, come nel caso della cerimonia di premiazione della Berlinale: nel momento in cui si criticano le azioni del governo israeliano – e naturalmente molti ebrei le criticano – si viene dipinti come antisemiti. E questo naturalmente intimorisce, perché chi vuole essere un antisemita?

Nell’ottobre 2021, molti pensavano che un governo a guida SPD avrebbe rappresentato una svolta a sinistra, dopo sedici anni di cancellierato della Merkel. Invece, la Germania si è spostata a destra. La “coalizione semaforo” ha aumentato il bilancio della difesa di 100 miliardi di euro. La politica estera tedesca ha preso una piega aggressivamente atlantista. La Zeitenwende di Scholz è stata una sorpresa per lei? E che ruolo hanno avuto i partner di coalizione dell’Spd nello spingerlo su questa strada?

Le tendenze sono presenti da tempo. L’Spd ha guidato la Germania nella guerra contro la Jugoslavia nel 1999, poi nell’occupazione militare dell’Afghanistan nel 2001. Schröder si è almeno opposto agli americani sull’invasione dell’Iraq, con un forte sostegno all’interno dell’Spd. Ma l’Spd ha perso completamente la sua vecchia personalità ed è diventata una sorta di partito della guerra. Ciò che spaventa è che c’è così poca opposizione all’interno del partito. I suoi attuali leader sono figure che in realtà non hanno alcuna posizione propria. Potrebbero far parte della Cdu-Csu o dei liberali. Ecco perché l’immagine pubblica dell’Spd è stata in gran parte distrutta. Non c’è più nulla di autentico. Non è più sinonimo di giustizia sociale – al contrario, il Paese è diventato sempre più ingiusto, il divario sociale è cresciuto e ci sono sempre più persone veramente povere o a rischio di povertà. E ha abbandonato del tutto la sua politica di distensione. Naturalmente, la Spd è spinta in questa direzione anche dai Verdi e dall’Fdp. I Verdi sono oggi il partito più falco della Germania – uno sviluppo notevole per un gruppo nato dalle grandi manifestazioni pacifiste degli anni Ottanta. Oggi sono i più grandi militaristi di tutti, spingendo sempre per l’esportazione di armi e l’aumento della spesa per la difesa. E questo non fa che rafforzare la tendenza all’interno dell’Spd.

La contrapposizione verso la Russia è stata guidata da questa dinamica. All’inizio sembrava che Scholz cedesse alle pressioni su alcune questioni, ma non su altre. Ad esempio, ha istituito un fondo speciale per l’Ucraina, ma non voleva essere coinvolto nel conflitto e inizialmente ha consegnato solo 5.000 elmetti. Ma poi la situazione è cambiata ed è emerso un modello. All’inizio Scholz esita. Poi viene attaccato da Friedrich Merz, leader dell’opposizione Cdu-Csu. Poi i suoi partner di coalizione, i Verdi e l’Fdp, aumentano la pressione. Infine, Scholz fa un discorso in cui annuncia che è stata superata un’altra linea rossa. Il dibattito si è spostato sui mezzi corazzati, poi sui carri armati, poi sui jet da combattimento. Scholz ha sempre detto “Nein” all’inizio, poi il no si è trasformato in un “Jein“, un “no-sì”, e poi a un certo punto in un “Ja”.

Ora si è arrivati al punto che i Paesi della Nato e l’Ucraina stanno spingendo affinché la Germania fornisca missili da crociera Taurus, in grado di attaccare obiettivi in territorio russo lontani dalla prima linea. Rappresentano l’escalation più pericolosa finora, perché sono chiaramente destinati a un uso offensivo contro obiettivi russi. Non sono sicuro che la consegna da parte della Germania sia effettivamente nell’interesse dell’America, perché il rischio è estremamente elevato. Se forniamo armi tedesche per distruggere obiettivi russi come il ponte di Kerch tra la Crimea e la terraferma, la Russia reagirà contro la Germania. Spero che questo significhi che non saranno fornite. Ma non si può essere sicuri, data la mancanza di spina dorsale e la tendenza al ripiegamento di Scholz. È difficile pensare a un cancelliere che abbia avuto un curriculum così misero. E anche l’intera coalizione: non c’è mai stato un governo in Germania così privo di vita, dopo appena due anni e mezzo di potere. E naturalmente la Cdu-Csu non è un’alternativa. Merz è ancora peggiore sulla questione della guerra e della pace, e anche sulle questioni economiche. La destra non ha una strategia, ma sarà la principale beneficiaria dei pessimi risultati del governo.

Forse l’intercettazione dei capi della Luftwaffe che discutevano se per i missili Taurus sarebbe stato necessario l’intervento della Germania sul terreno – e che ha rivelato che le truppe britanniche e francesi erano già attive in Ucraina, lanciando missili Storm Shadow e Scalp – ha messo in secondo piano la questione per il momento. Ma la strategia di Merz non è forse quella di virare a destra, per attirare gli elettori dell’AfD? Non ha avuto successo in questo senso?

Merz semplicemente non ha una posizione credibile sulla maggior parte delle questioni. L’AfD ha raccolto consensi su tre questioni: primo, l'immigrazione, cioè il numero di richiedenti asilo in Germania; secondo, le chiusure durante la pandemia; terzo, la guerra in Ucraina. Sui richiedenti asilo, Merz è molto eterogeneo. A volte fa l’AfD e sproloquia sui piccoli pascià, poi viene attaccato e si rimangia tutto. Ma ovviamente questa è stata l’eredità della Merkel, quindi la Cdu non è credibile da questo punto di vista. Lo stesso vale per la crisi del Covid: anche la Cdu-Csu era a favore delle serrate e delle vaccinazioni obbligatorie, e si è comportata male come tutti gli altri. Poi è arrivata la questione della pace, ed è questo che è così perfido in Germania. Prima che lanciassimo il Bsw, l’AfD era l’unico partito che si schierava coerentemente a favore di una soluzione negoziata e contro le forniture di armi all’Ucraina, una questione vitale per molti elettori dell’est. La Cdu-Csu voleva fornire ancora più armi e Die Linke era divisa sulla questione. Se si voleva un ritorno a una politica di distensione, se si volevano i negoziati, se non si voleva partecipare alla guerra con la fornitura di armi, non c’era nessun altro a cui rivolgersi. Per quanto riguarda Israele, ovviamente, l’AfD è determinata a fornire ancora più armi, perché è un partito anti-islamico e ovviamente approva le cose terribili che accadono in quel Paese. Questo è stato uno dei motivi principali per cui alla fine abbiamo deciso di fondare un nuovo partito, in modo che le persone legittimamente insoddisfatte del mainstream, ma che non sono estremisti di destra – e questo include una grande fetta di elettori dell’AfD – avessero un partito serio a cui rivolgersi.

Come paragonare l’attuale Cdu al partito di Helmut Kohl? È stato lui a calpestare la Grundgesetz per integrare i nuovi Länder.

La Cdu sotto Kohl ha sempre avuto una forte ala sociale, una forte ala operaia. Questo era ciò che Norbert Blüm e Heiner Geißler rappresentavano agli esordi. Si sono schierati a favore dei diritti sociali e della sicurezza sociale, il che ha reso la Cdu qualcosa di simile a un partito popolare. Ha sempre avuto un forte sostegno da parte dei lavoratori, dei cosiddetti “kleinen Leute”, persone normali con un reddito basso. Merz è a favore del capitalismo di BlackRock, non solo perché lavorava per BlackRock, ma perché rappresenta quel punto di vista in termini di economia politica. Vuole aumentare l’età pensionabile, il che significa un nuovo taglio alle pensioni. Vuole ridurre i sussidi sociali; dice che lo Stato sociale è troppo grande, deve essere smantellato. È contrario a un aumento del salario minimo, tutte cose che la Cdu era solita sostenere. Questo faceva parte della dottrina sociale cattolica, che aveva un posto nella Cdu. Si battevano per un capitalismo addomesticato, per un ordine economico che avesse una forte componente sociale, un forte stato sociale. Ed erano credibili, perché il vero attacco ai diritti sociali in Germania è avvenuto nel 2004 sotto Schröder e il governo dei Verdi. Quindi, è un po’ diverso dal Regno Unito. La Cdu ha effettivamente ritardato l’assalto neoliberista. Merz è una svolta per loro.

Può spiegare perché ha deciso di lasciare Die Linke, dopo tanti anni?

L’aspetto principale è che la stessa Die Linke è cambiata. Ora vuole essere più verde dei Verdi e copia il loro modello. La politica identitaria predomina e le questioni sociali sono state messe da parte. Die Linke aveva un discreto successo – nel 2009 aveva ottenuto il 12%, oltre 5 milioni di voti – ma nel 2021 era scesa sotto la soglia del 5%, con soli 2,2 milioni di voti. Questi discorsi privilegiati, se così posso chiamarli, sono popolari nei circoli accademici metropolitani, ma non sono popolari tra la gente comune che votava a sinistra. Li si allontana. Die Linke aveva un forte radicamento nella Germania orientale, ma lì la gente non può affrontare questi dibattiti sulla diversità, almeno nella lingua in cui vengono espressi; sono semplicemente alienanti per gli elettori che vogliono pensioni dignitose, salari dignitosi e, naturalmente, pari diritti. Siamo favorevoli a che tutti possano vivere e amare come desiderano. Ma c’è un tipo esagerato di politica identitaria in cui devi scusarti se parli di un argomento se non hai un background migratorio, o devi scusarti perché sei etero. Die Linke si è immersa in questo tipo di discorso e di conseguenza ha perso voti. Alcuni si sono spostati nel campo dei non votanti e altri a destra.

Non avevamo più la maggioranza nel partito perché l’ambiente che sosteneva Die Linke era cambiato. Era chiaro che non si poteva salvare. Un gruppo di noi si è detto: o continuiamo a guardare il partito affondare, o dobbiamo fare qualcosa. È importante che chi è insoddisfatto abbia un posto dove andare. Molte persone dicevano: “Non sappiamo più per chi votare, non vogliamo votare per l’AfD, ma non possiamo nemmeno votare per nessun altro”. Questa è stata la motivazione che ci ha spinto a dire: facciamo qualcosa per conto nostro e fondiamo un nuovo partito. Non tutti proveniamo da sinistra; siamo un po’ più di un revival di sinistra, per così dire. Abbiamo anche incorporato altre tradizioni in una certa misura. Nel mio libro, Die Selbstgerechten, l’ho definita “sinistra conservatrice”.nota2 In altre parole: socialmente e politicamente siamo di sinistra, ma in termini socio-culturali vogliamo incontrare le persone dove sono, non fare proselitismo su cose che rifiutano.

Quali insegnamenti, negativi o positivi, ha tratto dall’esperienza di Aufstehen, il movimento che ha lanciato nel 2018?

Alla sua fondazione, Aufstehen ha ottenuto una risposta travolgente, con oltre 170.000 persone interessate. Le aspettative erano enormi. Il mio più grande errore di allora è stato quello di non essermi preparata adeguatamente. Mi ero illusa che le strutture si sarebbero formate una volta iniziate; non appena ci fossero state molte persone, tutto avrebbe cominciato a funzionare. Ma presto è diventato chiaro che le strutture necessarie per un movimento funzionante – i Länder, le città, i comuni – non possono essere create da un giorno all’altro. Ci vogliono tempo e attenzione. Questa è stata una lezione importante per lo sviluppo del Bsw: nessuna persona può fondare un partito, ci vogliono buoni organizzatori, persone con esperienza e un team affidabile.

La Bsw è stata lanciata da un gruppo impressionante di parlamentari. Quali competenze hanno, quali sono le loro specializzazioni e le loro aree di impegno?

Il gruppo Bsw al Bundestag ha uno staff forte. Klaus Ernst, il vicepresidente, è un sindacalista esperto di ig-Metall, cofondatore e presidente del Wasg e poi di Die Linke. Alexander Ulrich è un altro sindacalista, anch’egli esperto politico di partito. Amira Mohamed Ali, che ha presieduto il gruppo parlamentare di Die Linke, ha lavorato come avvocato per una grande azienda prima di entrare in politica. Sevim Dağdelen è un esperto di politica estera con una vasta rete in Germania e nel mondo. Altri parlamentari del Bsw sono Christian Leye, Jessica Tatti, Żaklin Nastić, Ali Al Dailami e Andrej Hunko. Ci sono figure importanti anche al di fuori del Bundestag.

Qual è il programma della Bsw?

Il nostro documento fondativo ha quattro assi portanti. Il primo è una politica di buon senso economico. Sembra un concetto vago, ma si riferisce alla situazione in Germania, dove le politiche governative stanno distruggendo la nostra economia industriale. E se l’industria viene distrutta, la situazione è negativa anche per i lavoratori e per lo Stato sociale. Quindi: una politica energetica sensata, una politica industriale sensata, questa è la prima priorità.

Si tratta di una strategia economica alternativa basata sul lavoro, come quella sviluppata dalla sinistra britannica attorno a Tony Benn negli anni Settanta, o è concepita come una politica nazionale-industriale convenzionale?

In Germania non c’è mai stata la stessa coscienza di dentità operaia che c’era in Gran Bretagna negli anni ’70 e ’80, durante lo sciopero dei minatori, anche se oggi tutto quello non esiste più. La Repubblica Federale è sempre stata più una società borghese, in cui i lavoratori tendevano a vedersi come parte della classe media. Ciò che conta in Germania è il Mittelstand, il forte blocco di piccole imprese che possono opporsi alle grandi aziende. Questa opposizione è importante quanto la polarità tra capitale e lavoro. In Germania bisogna prenderla sul serio. Se ci si rivolge alle persone solo su base di classe, non si otterrà alcuna risposta. Ma se ci si rivolge a loro in quanto parte del settore della società che crea ricchezza, comprese le aziende gestite dai proprietari, in contrasto con le grandi imprese – i cui profitti vengono convogliati agli azionisti e ai dirigenti di alto livello, senza che quasi nulla vada ai lavoratori – questo colpisce nel segno. La gente capisce quello che dite, si identifica e si mobilita su questa base per difendersi. Non si trova la stessa opposizione nelle piccole imprese, perché spesso sono loro stesse in difficoltà. Non hanno il margine di manovra per aumentare i salari, dato che i prezzi bassi sono dettati dai grandi operatori. Ma so che la Germania è un po’ diversa da questo punto di vista, rispetto alla Francia, alla Gran Bretagna o ad altri Paesi. Quindi, una politica energetica e una politica industriale di buon senso inizierebbero a considerare le esigenze del Mittelstand, in modo da incoraggiare i proprietari e le loro famiglie a tenere duro piuttosto che vendere le loro aziende a qualche investitore finanziario.

Questo segnerebbe una distinzione con il tacito fondamento della politica governativa degli ultimi vent’anni, almeno, in cui – nonostante tutti i discorsi entusiastici sulla Mittelstand – la strategia di Merkel era chiaramente orientata alle grandi imprese e, con un po’ di ambientalismo, alle grandi città. Lo stesso vale ovviamente per l’Fdp e, in pratica, per i Verdi. Quindi, per lei, il confine più importante è la differenza tra capitale finanziario e capitale regionale o di medio livello?

Sì, ma come ho detto, non voglio nemmeno idealizzare questo aspetto. C’è sicuramente sfruttamento a tutti i livelli. Ma c’è comunque una differenza rispetto ad Amazon, ad esempio, o ad alcune società del Dax. Oggi, ad esempio, anche se l’economia si sta riducendo, le società del Dax stanno distribuendo più dividendi che mai. In alcuni casi, le società distribuiscono l’intero utile annuale, o anche di più. Da anni ormai, la Germania ha un rapporto di investimento molto basso, perché vengono versati molti soldi agli azionisti, a causa della pressione dei gruppi finanziari globali. In proporzione, le aziende del Mittelstand investono molto di più.

Quali sono gli altri punti del programma del Bsw?

Il secondo asse è la giustizia sociale. Questo punto è assolutamente centrale per noi. Anche quando l’economia andava bene, il settore dei bassi salari era in crescita, la povertà e le disuguaglianze sociali aumentavano. Uno Stato sociale forte è fondamentale. Il servizio sanitario tedesco è sottoposto a enormi tensioni. Si possono aspettare mesi prima di poter vedere uno specialista. Il personale infermieristico è terribilmente sovraccarico di lavoro e sottopagato – abbiamo sostenuto con forza il loro sciopero nel 2021. Anche il sistema scolastico sta fallendo. Come ho già detto, una percentuale considerevole di giovani che escono dalla Realschule o dalla Hauptschule non hanno le conoscenze elementari di base per essere assunti come apprendisti o tirocinanti. Inoltre, le infrastrutture tedesche stanno cadendo in rovina. Ci sono circa tremila ponti fatiscenti, che non vengono riparati e che prima o poi dovranno essere demoliti. La Deutsche Bahn, il servizio ferroviario, è perennemente in ritardo. L’amministrazione pubblica ha attrezzature obsolete. I politici tradizionali sono ben consapevoli di tutto questo, ma non fanno nulla al riguardo.

Il terzo asse è la pace. Ci opponiamo alla militarizzazione della politica estera tedesca, con un’escalation dei conflitti verso la guerra. Il nostro obiettivo è un nuovo ordine di sicurezza europeo, che dovrebbe includere la Russia nel lungo periodo. La pace e la sicurezza in Europa non possono essere garantite in modo stabile e duraturo se non si esclude il conflitto con la Russia, una potenza nucleare. Sosteniamo inoltre che l’Europa non dovrebbe lasciarsi trascinare in un conflitto tra Stati Uniti e Cina, ma dovrebbe perseguire i propri interessi attraverso partenariati commerciali ed energetici diversificati. Per quanto riguarda l’Ucraina, chiediamo un cessate il fuoco e negoziati di pace. La guerra è un sanguinoso conflitto per procura tra Stati Uniti e Russia. Ad oggi, non ci sono stati sforzi seri da parte dell’Occidente per porvi fine attraverso i negoziati. Le opportunità che esistevano sono state sprecate. Di conseguenza, la posizione negoziale dell’Ucraina si è notevolmente deteriorata. Comunque finisca questa guerra, lascerà all’Europa un Paese ferito, impoverito e spopolato. Ma almeno si potrà porre fine alle attuali sofferenze umane.

E il quarto asse?

Il quarto asse è la libertà di espressione. Qui c’è una pressione sempre più forte a conformarsi all’interno di uno spettro ristretto di opinioni ammissibili. Abbiamo parlato di Gaza, ma la questione va ben oltre. Il ministro degli Interni dell’Spd, Nancy Faeser, ha appena presentato un disegno di legge sulla “promozione della democrazia” che renderebbe reato la derisione del governo. Ci opponiamo, naturalmente, per motivi democratici. La Repubblica Federale ha una brutta tradizione, che germoglia sempre nuovi fiori. Non c’è bisogno di tornare indietro alla repressione degli anni ’70, al tentativo di bandire gli “estremisti di sinistra” dai posti di lavoro nel settore pubblico. Il ricorso alla coercizione ideologica è stato immediato durante la pandemia, e lo è ancora di più ora con l’Ucraina e Gaza.
Questi sono i quattro assi principali. Il nostro obiettivo generale è quello di catalizzare un nuovo inizio politico e garantire che il malcontento non vada alla deriva verso destra, come è successo negli ultimi anni.

Quali sono i programmi elettorali del Bsw per le prossime elezioni del Parlamento europeo e dei Länder? Quali coalizioni prenderete in considerazione nei Parlamenti dei Länder?

Per quanto riguarda le coalizioni, non dividiamo la pelliccia dell’orso prima che venga ucciso, come diciamo noi. Siamo sufficientemente distinti da tutti gli altri partiti per poter prendere in considerazione qualsiasi proposta essi vogliano fare sulle coalizioni, o su altre forme di partecipazione al governo come la tolleranza o le maggioranze flessibili. Per il momento vogliamo solo convincere il maggior numero possibile di cittadini che i loro interessi sono in buone mani con noi. In quanto nuovo partito, vogliamo ottenere un buon risultato alle elezioni europee, la nostra prima occasione per cercare di ottenere il sostegno per il nostro nuovo approccio alla politica. Chiederemo agli elettori che gli Stati membri democratici dell’UE siano i principali responsabili della gestione dei problemi delle società e delle economie europee, piuttosto che la burocrazia e la giurisprudenza di Bruxelles.

Per quanto riguarda la sua autodefinizione di “sinistra conservatrice”, lei ha parlato con calore della vecchia tradizione della Cdu, della sua dottrina sociale e del “capitalismo addomesticato”. Come differenzierebbe la Bsw dalla vecchia Cdu, se alleata, ad esempio, alla politica estera di Willy Brandt?

La Democrazia Cristiana del dopoguerra era conservatrice nel senso che non era neoliberista. La vecchia Cdu-Csu combinava un elemento conservatore e uno radical-liberale; il fatto che potesse farlo era dovuto all’immaginazione politica di un uomo come Konrad Adenauer, anche se qualcosa di simile esisteva anche in Italia e, in parte, in Francia. Il conservatorismo di allora significava proteggere la società dal vortice del progresso capitalistico, in contrapposizione all’adeguamento della società alle esigenze del capitalismo, come nel caso del (pseudo)conservatorismo neoliberale. Dal punto di vista della società, il neoliberismo è rivoluzionario, non conservatore. Oggi la Cdu, ora guidata da un personaggio come Merz, è riuscita a sradicare la vecchia concezione cristiano-democratica secondo cui l’economia deve servire la società e non viceversa. Anche la socialdemocrazia, la Spd di un tempo, aveva un elemento conservatore, con al centro la classe operaia piuttosto che la società nel suo complesso. Questo è finito quando la Terza Via nel Regno Unito e Schröder in Germania hanno consegnato il mercato del lavoro e l’economia a una marcatocrazia globalista-tecnocratica. Proprio come in politica estera, crediamo di avere il diritto di considerarci i legittimi eredi sia del “capitalismo addomesticato” del conservatorismo del dopoguerra sia del progressismo socialdemocratico, interno ed estero, dell’epoca di Brandt, Kreisky e Palme, applicato alle mutate circostanze politiche del nostro tempo.

A livello internazionale, quali forze nell’UE – o anche oltre – vede come potenziali alleati della Bsw?

Non sono la persona più adatta a cui fare domande su questo argomento, poiché la mia attenzione si concentra sulla politica interna. So che spesso dall’estero si ha una visione distorta di noi, e spero di non vedere gli altri Paesi in modo distorto. All’inizio avevamo stretti legami con La France Insoumise, ma non so come si siano sviluppati negli ultimi anni. Poi c’è stato il Movimento Cinque Stelle in Italia, che è un po’ diverso, ma anche lì ci sono alcune sovrapposizioni. In generale, saremmo sulla stessa lunghezza d’onda di qualsiasi partito di sinistra fortemente orientato alla giustizia sociale ma non invischiato in discorsi identitari.

Lei dice che i Die Linke sono diventati “più verdi dei Verdi”, emarginando le questioni sociali. Ma i Verdi stessi un tempo avevano un forte programma sociale, con una strategia industriale verde che aveva una forte componente sociale e, naturalmente, la smilitarizzazione dell’Europa. Secondo lei, cosa è successo negli anni ’90, quando hanno perso questa dimensione?

È stato lo stesso per molti ex partiti di sinistra. In parte la risposta è che l’ambiente di sostegno è cambiato. I partiti di sinistra erano tradizionalmente ancorati alla classe operaia, anche se erano guidati da intellettuali. Ma il loro elettorato è cambiato. Piketty lo spiega in dettaglio in Capitale e ideologia. Negli ultimi trent’anni si è espansa in modo massiccio una nuova classe professionale con istruzione universitaria, relativamente indenne dal neoliberismo perché dispone di un buon reddito e di una ricchezza patrimoniale in crescita, e non dipende necessariamente dallo Stato sociale. I giovani che sono cresciuti in questo ambiente non hanno mai conosciuto la paura o il disagio sociale, perché sono stati protetti fin dall’inizio. Questo è oggi l’ambiente principale dei Verdi, persone relativamente benestanti, preoccupate per il clima – il che depone a loro favore – ma che mirano a risolvere il problema attraverso decisioni individuali di consumo. Persone che non hanno mai dovuto fare a meno di qualcosa, che predicano la rinuncia a coloro per i quali la rinuncia fa parte della vita quotidiana.

Ma non è forse così anche per i partiti tradizionali? I Verdi, forse, in modo più drammatico rispetto a ciò che erano negli anni Ottanta. Ma la Cdu, come lei dice, ha abbandonato la sua componente sociale. L’Spd ha guidato la svolta neoliberista. C’è una causa più profonda di questo spostamento a destra, o verso il capitale finanziario o globale?

In primo luogo, come hanno analizzato molto bene sociologi come Andreas Reckwitz, abbiamo a che fare con un ambiente sociale forte e in crescita, che svolge un ruolo di primo piano nella formazione dell’opinione pubblica. È predominante nei media, nella politica, nelle grandi città dove si formano le opinioni. Non si tratta dei proprietari di grandi aziende – quello è un altro livello. Ma è un’influenza potente e modella gli attori di tutti i partiti politici. Qui a Berlino, tutti i politici si muovono all’interno di questo ambiente – la Cdu, la Spd – e ciò ha una forte influenza su di loro. I cosiddetti piccoli cittadini, quelli delle piccole città e dei paesi, senza laurea, hanno sempre meno accesso reale alla politica. Un tempo i partiti avevano un’ampia base, erano veri e propri partiti popolari: la Cdu attraverso le chiese, la Spd attraverso i sindacati. Ora tutto questo non c’è più. I partiti sono molto più piccoli e i loro candidati sono reclutati da una base più ristretta, di solito la classe media con istruzione universitaria. Spesso la loro esperienza si limita alla sala conferenze, al think tank, alla camera plenaria. Diventano deputati senza aver mai sperimentato il mondo al di là della vita politica professionale.

Con il Bsw, stiamo cercando di inserire nuove leve politiche che hanno lavorato in altri campi, in molti altri settori della società, per uscire il più possibile da questo ambiente. Ma il vecchio modello di partito popolare è tramontato, perché non esiste più la base per farlo.

Le chiediamo infine di parlare della sua formazione politica e personale. Quali sono, a suo avviso, le influenze più importanti sulla sua visione del mondo – esperienziali, intellettuali?

Ho letto molto nel corso della mia vita e ci sono state epifanie, quando ho iniziato a pensare in una nuova direzione. Ho studiato Goethe in modo approfondito e lì ho iniziato a pensare alla politica e alla società, alla convivenza umana e ai futuri possibili. Rosa Luxemburg è sempre stata una figura importante per me, in particolare le sue lettere; potevo identificarmi con lei. Thomas Mann, naturalmente, mi ha certamente influenzato e colpito. Quando ero giovane, lo scrittore e drammaturgo Peter Hacks è stato un importante interlocutore intellettuale. Marx mi ha influenzato molto e trovo ancora molto utile la sua analisi delle crisi capitalistiche e dei rapporti di proprietà. Non sono favorevole alla nazionalizzazione totale o alla pianificazione centrale, ma sono interessata a esplorare le terze opzioni, tra proprietà privata e proprietà statale, come le fondazioni o gli amministratori, per esempio, che impediscono a un’azienda di essere saccheggiata dagli azionisti; punti che ho discusso in Prosperità senza avidità.

Un’altra esperienza formativa è stata l’interazione con le persone durante gli eventi che organizziamo. È stata una decisione consapevole quella di andare in giro per il Paese, fare molti incontri e cogliere ogni occasione per parlare con le persone, per capire cosa le muove, come pensano e perché pensano in quel modo. È così importante non muoversi all’interno di una bolla, vedendo solo le persone che si conoscono già. Questo ha plasmato la mia politica e forse mi ha cambiato un po’. Credo che come politico non si debba pensare di capire tutto meglio degli elettori. C’è sempre una corrispondenza tra interessi e punti di vista, non uno a uno, ma spesso, se ci si pensa, si può capire perché le persone dicono le cose che fanno.

Come descriverebbe la sua traiettoria politica dagli anni ’90?

Sono in politica da ben trent’anni. Ho ricoperto posizioni chiave nel Spd e in Die Linke. Sono membro del Bundestag dal 2009 e sono stata co-presidente del gruppo parlamentare di Die Linke dal 2015 al 2019. Ma direi che sono rimasta fedele agli obiettivi per cui sono entrata in politica. Abbiamo bisogno di un sistema economico diverso che metta al centro le persone e non il profitto. Le condizioni di vita oggi possono essere umilianti; non è raro che gli anziani rovistino nei bidoni della spazzatura alla ricerca di bottiglie a rendere per sbarcare il lunario. Non voglio ignorare queste cose, voglio cambiare in meglio le loro condizioni di base. Sono spesso in viaggio e ovunque vada sento che ci sono molte persone che non si sentono più rappresentate da nessuno dei partiti. C’è un grande vuoto politico. Questo porta la gente ad arrabbiarsi: non è un bene per la democrazia. È tempo di costruire qualcosa di nuovo e di fare un intervento politico serio. Non voglio dovermi dire a un certo punto: c’è stata una finestra di opportunità in cui avreste potuto cambiare le cose e non l’avete fatto. Stiamo fondando il nostro nuovo partito affinché le politiche attuali, che stanno dividendo il nostro Paese e mettendo a rischio il suo futuro, possano essere superate, insieme all’incompetenza e all’arroganza della bolla di Berlino.

Note

1 Bündnis Sahra Wagenknecht: für Vernunft und Gerechtigkeit [Alleanza di Sahra Wagenknecht: per la ragione e la giustizia].

2 Sahra Wagenknecht, The Self-Righteous. Mein Gegenprogramm-fürGemeinsinn und Zusammenhalt [I Giusti di sé: il mio controprogramma per lo spirito comunitario e la coesione], Frankfurt 2021.

Fonte