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23/07/2025

L’attacco dialettico dei giganti

di Luca Cangianti

L’antagonista, il villain, il mostro, il nemico si presentano come doppio dell’eroe. Di questo abbiamo parlato in un articolo precedente. Nell’Attacco dei giganti – manga di Hajime Isayama dal quale è stato in seguito realizzato un anime – si fa un passo avanti verso una relazione dialettica dalle tinte hegeliane.

Uno spoiler titanico

Per argomentare questa tesi partiamo da un’esposizione priva di qualsiasi cautela in materia di spoiler. Da cento anni l’umanità residua vive nella città di Paradis protetta da un muro alto cinquanta metri. Fuori c’è il “nemico naturale”, i giganti. Si tratta di umanoidi che ricordano degli zombie in formato ciclopico. Nei documenti storici non c’è traccia della causa che ha portato alla loro apparizione; divorano solo gli esseri umani, ma non disponendo di un apparato digerente li rigurgitano; non respirano, non soffrono la fame né la sete, non hanno organi sessuali e se privati di un arto lo rigenerano. Hanno bisogno solo di luce e il loro punto debole si trova dietro il collo.

L’incidente scatenante avviene quando due giganti, il Colossale e il Corazzato, aprono una breccia nelle mura: i mostri dilagano causando morte e distruzione. Eren Jaeger, l’eroe, assiste impotente alla morte della madre. Giura vendetta e, insieme ai suoi amici Armin e Mikasa, si unisce al Corpo di Ricerca, il cui scopo è scoprire l’origine e la natura dei giganti. I suoi militi, tenaci e indomiti, sono gli unici a uscire dalle mura. Sono rivoluzionari e sognatori: in una società chiusa e dominata dalla paura, rappresentano la speranza di un mondo migliore, il coraggio di andare oltre i limiti, praticamente e metaforicamente. Il loro motto è: «Offriamo i nostri cuori!»

Nel corso degli eventi Eren scopre di avere la capacità di trasformarsi egli stesso in gigante, pur conservando la sua coscienza umana. Inizia così una lunga guerra, non solo per sconfiggere i giganti, ma anche per svelare molti misteri. Si scopre che i giganti sono esseri umani trasformati e che il vero nemico è il mondo esterno alle mura – in particolare la nazione di Marley, che da secoli opprime gli eldiani, gli unici esseri umani capaci di trasformarsi in giganti. L’isola di Paradis altro non è che l’ultimo rifugio di questo popolo dopo la caduta dell’impero di Eldia. Gli abitanti della città fortificata pensavano di combattere contro i mostri e adesso scoprono che i mostri sono loro, o almeno che il mondo li considera tali.

Ereditando i ricordi del padre, Eren scopre l’origine dei nove giganti primordiali, la storia del popolo di Ymir, cioè Eldia, e i conflitti tra questa e Marley. Eren decide allora di distruggere il mondo per garantire la sopravvivenza del suo popolo. Alleatosi temporaneamente con il fratellastro Zeke Jaeger, s’impossessa del potere della Fondatrice Ymir che permette il controllo assoluto su tutti i giganti. Infine scatena il Boato della Terra che consiste nella liberazione di milioni di giganti colossali imprigionati nelle mura di Paradis. Questi si mettono in marcia per sterminare l’umanità fuori dall’isola.

Quando Mikasa e Armin scoprono gli intenti di Eren, si ribellano al suo piano e formano un’alleanza con alcuni ex avversari, uniti da un obiettivo comune: fermare Eren e salvare l’umanità. Quest’ultimo nel frattempo si è trasformato in un mega-mostro osseo. Durante lo scontro finale, Armin colpisce la bestia con il potere del Colossale, mentre Mikasa penetra all’interno della struttura titanica per cercare il corpo umano di Eren. Lo trova in stato semicosciente, con un’espressione di pace sul volto. Mikasa, da sempre legata a Eren da un amore tragico e sconfinato, si trova di fronte alla scelta più difficile: salvare il mondo oppure l’uomo che ama. Gli taglia la testa e lo bacia (esattamente in quest’ordine). In una realtà alternativa mostrata nei capitoli finali, Eren rivela a Mikasa di aver voluto essere fermato da lei. Sapeva di essere oltre ogni redenzione, ma desiderava che fosse Mikasa a chiudere il cerchio. Il potere dei giganti scompare e l’umanità, pur se ridotta a un misero venti per cento, sopravvive. Ciò nonostante la tensione tra Paradis e le altre nazioni rimane.

La negazione determinata

 L’attacco dei giganti è una narrazione di scontro, di guerra, di svolte, di rivelazioni e di paradossi, ma i termini che si oppongono e cozzano non sono estrinseci. Essi si strutturano secondo uno schema prossimo alla negazione determinata di Hegel. Come il filosofo spiega nella Scienza della logica «L’unico punto, per ottenere il progresso scientifico […] è la conoscenza […] che il negativo è insieme anche il positivo, ossia che quello che si contraddice non si risolve nello zero, nel nulla astratto, ma si risolve essenzialmente solo nella negazione del suo contenuto particolare, vale a dire che una tale negazione non è una negazione qualunque, ma la negazione di quella cosa determinata che si risolve, ed è perciò negazione determinata. […] Codesta negazione è un nuovo concetto, ma un concetto che è superiore e più ricco che non il precedente […] ed è l’unità di quel concetto e del suo opposto.»1 

Facciamo un esempio: nel confliggere frontale di due figure sociali (negazione astratta), una potrebbe esser pronta a sottomettersi all’altra per salvare la propria vita (negazione di sé). Si genera così la relazione tra servo e signore descritta nella Fenomenologia dello spirito.2 Hegel dice che il lato dominato di questo rapporto è costretto a lavorare per quello dominante, ma in questo modo apprende a plasmare gli oggetti e il mondo, dunque acquisisce potere e coscienza di sé (negazione determinata), mentre il signore si limita a fruire immediatamente dei prodotti creati dal servo. Quest’ultimo grazie al lavoro nega sé stesso come pura passività e trasforma tale negazione in un momento positivo: si forma nel lavoro e si riconosce come soggetto più libero e cosciente del signore. La negazione determinata non comporta distruzione, ma trasformazione e conservazione di un contenuto in un nuovo contesto più avanzato.

Le contraddizioni dei giganti

 Riassumiamo ora i conflitti principali dell’Attacco dei giganti.

1) I giganti sono nemici degli umani rinchiusi in Paradis, ma poi si rivela che anche quest’ultimi possono trasformarsi in giganti. L’alterità nemica è quindi interiorizzata e il conflitto si sposta fuori le mura.
2) Le mura proteggono l’umanità dai giganti, ma la loro capacità di resistenza è dovuta al potere d’indurimento dei giganti che sono intrappolati all’interno delle fortificazioni stesse.
3) Eren e Armin sognano il mare e la libertà oltre le mura e i giganti, ma scopriranno che al di là dell’oceano c’è Marley che vuole sterminare gli abitanti di Paradis considerandoli mostri. È da Marley infatti che provengono i giganti che assediano Paradis. Essi altro non sono che parte della popolazione eldiana trasformata forzosamente.
4) Eren è l’eroe che sogna un mondo migliore, ma si trasforma nel distruttore della Terra.
5) Sempre lui dichiara: «Io sono uno schiavo della libertà!». Vuole andare oltre le mura, conoscere il mondo, essere libero di scegliere, ma quando accede ai ricordi del futuro del Gigante Fondatore si rende conto che le sue azioni erano già state previste. È lui che ha mostrato al padre gli eventi a venire per costringerlo a compiere determinate azioni.
6) Mikasa ama Eren, ma lo uccide: la ragazza compie l’impresa dell’eroe Eren sconfiggendo l’antagonista Eren e la sua dialettica priva di sintesi – il Boato della Terra.

L’amore di Mikasa 

«Il primo momento nell’amore», sostiene Hegel nei Lineamenti di filosofia del diritto, «è che io non voglio essere una persona autonoma per me e che, se lo fossi, mi sentirei manchevole e incompleto. Il secondo momento è che io acquisto me in un’altra persona, che io valgo in lei ciò che a sua volta essa consegue in me. L’amore è pertanto la contraddizione più prodigiosa, che l’intelletto non può sciogliere, giacché non vi è nulla di più arduo di questo carattere puntiforme dell’autocoscienza, che viene negato e che io pur tuttavia devo avere come affermativo.»3 Il primo momento è simbolizzato da Mikasa che non si separa mai dalla sciarpa regalatale da Eren; il secondo dalle caratteristiche di Eren che attraggono Mikasa: lo spirito combattivo, il desiderio di giustizia e di libertà. Il motto ricorrente dell’eroe è infatti: «Combatti, devi combattere!» Nel momento in cui questi stessi elementi rischiano di provocare la distruzione, Mikasa compie il più grande atto di amore. Uccide il suo amato per conservarne le aspirazioni. Gli taglia la testa e, dopo un bacio che toglie il fiato, la trattiene in grembo. In questo modo, prossemicamente, Mikasa nega, ma conserva Eren e ciò che egli simbolizza. Dando la morte, Mikasa è la vita che trionfa sulla morte, la dialettica allo stato puro, lancinante, eroica, struggente. Per questo non si può che amare Mikasa.

L’antagonista come motore della storia

Jean Hyppolite afferma che nella Fenomenologia dello spirito «la dialettica producentesi nell’esteriorità si traspone all’interno dell’autocoscienza stessa». In questo modo «la dualità delle autocoscienze viventi diviene la duplicazione dell’autocoscienza all’interno di sé. L’indipendenza del signore e la severa educazione del servo divengono la padronanza-di-sé dello stoico – sempre libero quali che siano le circostanze o i casi della sorte – o l’esperienza della libertà assoluta dello scettico, il quale dissolve ogni posizione diversa da quella dell’io stesso.»4 E così come Alexandre Kojève ricorda che la negazione dell’Altro in Hegel non è assoluta, ma sempre determinata,5 noi possiamo affermare che il gigante rappresenta la negazione determinata di Eren e che, più in generale in narratologia, l’antagonista nega determinatamente l’eroe. Questo infatti riesce a compiere il proprio viaggio6 grazie alla lotta con l’antagonista così come il servo progredisce spiritualmente in virtù del conflitto con il signore, che funge da catalizzatore. Il nemico, l’antagonista, non è mera opposizione esterna, ma momento interno del processo dialettico che permette all’eroe di confliggere, negarsi e autogenerarsi in una nuova superiore identità. Non si sconfigge il nemico annientandolo, ma passandoci attraverso, interiorizzandolo come negativo.

Marx affermava che «È il lato cattivo a produrre il movimento che fa la storia». Noi possiamo aggiungere che senza «questo inconveniente della società»7 non ci sarebbe stato né incidente scatenante né conflitto. Saremmo rimasti a casa, non avremmo intrapreso viaggio alcuno e di conseguenza non ci saremmo evoluti. Nessuna storia sarebbe stata scritta o raccontata; non ci saremmo innamorati di Mikasa, non saremmo morti e non continueremmo a vivere in lei.

Note

1) G.W.F. Hegel, Scienza della logica, vol. I, Laterza, 1988, p. 36.

2) Cfr. id., Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, 1988, pp. 159-164.

3) Id. Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello stato in compendio con le aggiunte di Eduard Gans, a cura di G. Marini, Laterza, 1999, pp. 332-333.

4) Jean Hyppolite, Genesi e struttura della «Fenomenologia dello spirito» di Hegel, La Nuova Italia, 1989, p. 191.

5) Cfr. A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, 1996, p. 65.

6) Cfr. A. Penequo (a cura di), Il viaggio rivoluzionario dell’eroe. Narrare, conoscere, ribellarsi, Mimesis 2020.

6) K. Marx, Miseria della filosofia, Editori Riuniti, 1993, pp. 78-79.

Fonte

03/06/2025

Lefebvre e il doppio sfondamento di Marx e Nietzsche contro Hegel

di Fabio Ciabatti

Henri Lefebvre, Hegel Marx Nietzsche o il regno delle ombre, DeriveApprodi, Bologna 2025, pp. 208, € 20,00

Marx e Nietzsche uniti nella lotta contro Hegel? Dai, non esageriamo. Piuttosto i primi due possono marciare divisi per colpire uniti il terzo, almeno secondo quanto scrive Henri Lefebvre in Hegel Marx Nietzsche o il regno delle ombre. Questo libro, pubblicato nel 1975 e per la prima volta tradotto in Italia dopo cinquant’anni, nasce dall’idea del suo autore di un “doppio sfondamento: attraverso la politica e la critica della politica per superarla in quanto tale, attraverso la poesia, l’eros, il simbolo e l’immaginario”. Uno sfondamento nei confronti dello stato di cose presenti condensato nella filosofia dello Stato di Hegel. Siamo negli anni Settanta del secolo scorso e la riscoperta di Nietzsche da parte del pensiero radicale di sinistra fa parte, potremmo dire, di un certo spirito del tempo. Basti ricordare autori come Deleuze, Guattari o Foucault. L’approccio di Lefebvre ha però una sua originalità: rileva punti di contatto e profonde discordanze tra Marx e Nietzsche senza tentare alcun tipo di sintesi. Si limita a invocare un pensiero che sappia farsi multidimensionale.

Secondo Lefebvre, Hegel pone al centro della sua riflessione la rivoluzione, quella francese, e annuncia la sua definitiva cristallizzazione nello stato nazionale. Stato costituzionale e certamente non reazionario, ma, al tempo stesso, più borghese che democratico. Nello Stato, vera incarnazione dell’Idea, si perfeziona la fusione tra sapere e potere. Anche le sue capacità repressive e belliche rivelano un fondamento razionale e per questo legittimo. Questa fusione può avvenire perché la classe media porta la cultura alla coscienza dello Stato. È infatti questa classe, luogo di elezione della cultura, che costituisce la sua base sociale in quanto bacino di reclutamento della burocrazia. L’unione di sapere e potere consente allo Stato di preservarsi come totalità coerente pur contenendo momenti contraddittori. Gli consente di inglobare e subordinare la società civile, di cementare il corpo sociale che senza di esso cadrebbe a pezzi. Lo Stato, dunque, si afferma come un automatismo perfetto, come modello di un sistema che si autoregola. Con lo Stato il tempo finisce e il suo risultato si diffonde e si attualizza nello spazio.

La rottura di Marx con Hegel, prosegue Lefebvre, è in primo luogo di natura politica: egli rompe con l’apologia hegeliana dello Stato, in modo sempre più netto dalle prime alle ultime sue opere. Questa porta con sé una rottura filosofica (dall’idealismo al materialismo) e una epistemologica (dall’ideologia alla scienza). Marx voleva stabilire razionalmente la fiducia nel possibile. Voleva riunire la scienza basata sul passato e l’apertura sul futuro, in contrapposizione alla coincidenza tra reale e possibile che la teoria hegeliana dello Stato voleva già realizzata. Lo Stato, così, da struttura portante della società diventa sovrastruttura che poggia sui rapporti sociali di produzione e che, con il modificarsi di questi ultimi, è destinato a modificarsi a sua volta e infine a crollare. La filosofia, dunque, non può realizzarsi nello stato hegeliano, ma solo nella classe operaia che, facendosi soggetto collettivo autonomo, è destinata a riassorbire nella dimensione sociale tanto quella economica quanto quella politica.

Marx, sostiene ancora Lefebvre, mantiene la concezione hegeliana di una razionalità soggiacente alla storia, ma allo stesso tempo esita nel riconoscere un senso immanente alla società capitalistica che, a buon diritto, può essere considerata assurda perché disumana e ingiusta. Mantiene il progetto di costruire un rigoroso sapere scientifico in grado di raggiungere l’essenza della società capitalistica, ma riprende anche la formula faustiana “In principio era l’azione”. Detto altrimenti, esita tra il sapere e l’agire, tra il conoscere e il vissuto pratico.

Un vissuto in cui Marx evidenzia una triade misconosciuta: sfruttamento, oppressione, umiliazione. Questi tre concetti, pur senza confondersi, si possono riassumere in un unico termine, quello di alienazione. Questo, staccato dall’architettura hegeliana, manca di uno statuto teorico solido ma, al tempo stesso, acquisisce una inesauribile fecondità per la comprensione del vissuto sociale. Concetti come plusvalore o plusprodotto hanno ben altra compattezza da un punto di vista scientifico ed epistemologico. Ma nessuno è disposto a morire combattendo contro il plusvalore, mentre moltissimi esseri umani hanno lottato fino alle estreme conseguenze contro l’umiliazione e l’oppressione, attraverso le quali hanno sperimentano lo sfruttamento.

Cosa si è realizzato del progetto marxiano? Niente, o quasi niente, sostiene Lefebvre. Una gran parte di quello di cui Marx aveva annunciato la scomparsa continua a sopravvivere, anche se “marcisce sul posto”. In nessun luogo la classe operaia ha potuto diventare un soggetto collettivo autonomo. “In entrambi i fronti, capitalista e socialista, la vita sociale scompare, schiacciata tra l’economico e il politico. Qui predomina il primo, là il secondo”.1

Sin dai tempi di Marx, mentre lui celebrava il tentativo della Comune parigina di abbattere lo Stato borghese, la già potente classe operaia tedesca stava cadendo nella trappola del nazionalismo e dello statalismo, per di più guidata da un sedicente seguace dello stesso Marx, Lasalle. E l’amara ironia della storia prosegue con l’Unione Sovietica che trasforma in dottrina di Stato la critica radicale dello Stato di Marx. Una dottrina in verità super hegeliana anche se mascherata sotto un lessico marxiano. Questo destino beffardo non deve però nascondere una fondamentale conclusione che si deve trarre dalla teoria del pensatore tedesco: se la rivoluzione si fa contro lo Stato, quest’ultimo, a un dato momento, diventa controrivoluzionario.

Cosa ne conclude Lefebvre? “Fallimenti del pensiero marxista? Sì. Morte? No”.2 Il pensiero di Marx non muore perché non opera nel mondo moderno come un sistema in grado di fornire certezze granitiche, ma “Agisce come un germe, come un fermento”.3 Il rivoluzionario tedesco aspira certamente alla totalità nella sua opera teorica, ma il momento critico scuote l’edificio prima del suo completamento. Per questo il marxismo, in senso proprio, non esiste. Possono esistere solo diversi marxismi figli di differenti interpretazioni di Marx. Il problema non sta nell’oscurità o nello stato embrionale del suo pensiero, ma nel fatto che egli “annuncia, propone, progetta, anziché osservare, ratificare (apparentemente) il fatto e sistematizzare il compiuto, come l’hegelismo”.4

Vale dunque la pena continuare, insieme a Marx, a “esplorare con la teoria il possibile e l’impossibile”.5 E in questa esplorazione Lefebvre incontra la critica di Nietzsche che “ha lo stesso terreno della critica marxista: Hegel e l’hegelismo come teoria dello Stato, principio e pratica dello Stato come messa in atto della razionalità politica, particolare dell’Europa, che Hegel ha teorizzato. Stesso terreno di partenza in direzioni divergenti”.6

Nietzsche ci aiuta a risolvere i problemi che Marx lascia in sospeso? Non proprio. Verrebbe piuttosto la tentazione di commentare, utilizzando Samuel Beckett, che Nietzsche ci aiuta a “Fallire di nuovo. Fallire meglio”. Perché, pur sgomberando il campo dal surrettizio utilizzo filonazista del suo pensiero, rimangono all’orizzonte possibili esiti alquanto oscuri: l’elitismo, il nichilismo, la follia. Nietzsche non è certo un rivoluzionario. Ma di sicuro è un ribelle. La sua è una rivolta del vissuto, del corpo, della differenza, del soggettivo, del desiderio. Una rivolta contro il Logos occidentale che si arroga il diritto di escludere tutto ciò che perturba la coesione e la coerenza sociale esercitando il peggiore dei ricatti: ogni critica della Ragione porterebbe all’irragionevolezza e all’apologia della violenza.

Nel Logos, dunque, il sapere si fa potere. E con ciò si fa Stato, ipocritamente travestito da virtù morale e da onestà intellettuale. Ma al di sotto di questa apparenza menzognera c’è solo la volontà di potenza, pura ricerca del potere per il potere e manifestazione dell’energia vitale che agisce nel corpo.

Questa energia viene però misconosciuta perché l’uomo sperimenta se stesso soprattutto attraverso il risentimento che nasce quasi sempre da un’umiliazione. Un’umiliazione rimossa da cui si trae una singolare voluttà attraverso la virtù dell’umiltà. Si finisce così per accettare l’umiliazione e, addirittura, per cercarla nuovamente offrendosi come vittima, preda, oggetto per la volontà di potenza che l’ha atterrato. Salvo che ogni umiliato ha sotto di sé altri umiliati che lui a sua volta può umiliare. In questo modo, sostiene Lefebvre, Nietzsche “prosegue l’abissale scavo del concetto di alienazione”7 che per lui, però, ha qualcosa di irreparabile e di irreversibile.

L’alienazione, infatti, non dà luogo a un superamento dialettico. Nessuna negazione della negazione, nella versione hegeliana o marxiana. Nessuna conservazione del presente e del passato ad un livello superiore. Il passato è considerato come decadenza e non come risorsa, maturazione, preparazione al possibile. La storia è concepita da Nietzsche come “Un caos di casi, di volontà, di determinismi”.8 Una concezione che, spezzando la servitù della finalità, fa acquisire alla libertà una nuova dimensione. Solo un pensiero teologico può attribuire un senso alla storia. Ma oramai Dio è morto. Il superamento del presente si dà dunque come distruzione e non come elevazione. Il superamento nietzscheano “denega, rinnega, smentisce, confuta, rifiuta, precipita nell’abisso”,9 senza alcuna possibile previsione del suo risultato. La rivolta di Nietzsche è adesione al vissuto, alla volontà di potenza, non per accettarli come tali, ma per dare luogo a una loro metamorfosi, il salto dall’umano al sovraumano, che può avvenire qui ed ora attraverso una pratica poetica. “Pertanto, nessuna transizione in Nietzsche, ma una capriola”.10

L’analisi di Lefebvre del pensiero di Hegel, Marx e Nietzsche non vuole essere di natura filologica. A lui questi autori interessano perché ci permettono di comprendere il mondo moderno. Nel suo libro si respira un’aria battagliera che è difficile ritrovare nello stile anestetizzante degli scritti accademici contemporanei e che lo rende coinvolgente anche quando non si condividono appieno le sue conclusioni. Seguendo il suo approccio si può allora notare che alcune delle analisi del pensatore francese mostrino i segni del tempo. La rivolta nietzschiana a cui si rifà Lefebvre è figlia degli anni Sessanta e Settanta, come emerge con chiarezza quando afferma, riprendendo un celebre slogan sessantottino, che essa si oppone “alla rivoluzione politica per ottenere ‘tutto e subito’”.11 Nel frattempo, però, quel tipo di rivolta è stata riassorbita dal capitale postmoderno che è stato in grado di mettere a valore proprio il vissuto, il corpo, la differenza, il soggettivo e il desiderio. Considerazione che, comunque, non ci autorizza a trattare con hegeliana sufficienza il vissuto soggettivo della rivolta, come si trattasse della mera espressione di “coscienze infelici” o di “anime belle”.

Rimane forse l’importanza di Nietzsche come “rivelatore”. In particolare, rilevatore delle difficoltà di alcuni passaggi fondamentali del progetto marxiano. Da un punto di vista teorico forse non c’è nulla di particolarmente oscuro quando Marx sostiene che occorre “lottare sul piano politico per porre fine al politico”12 o quando afferma che “la classe operaia [...] si afferma negandosi, supera se stessa superando il capitalismo”.13 Il problema nasce quando questo discorso cerca di tradursi in prassi. Siamo nel cuore magmatico e vorticoso del momento rivoluzionario in cui la dialettica si confonde facilmente con il paradosso. Da queste difficoltà non ci si può tirare fuori con il leninismo perché il suo punto più “scabroso”, sostiene Lefebvre, è proprio la teoria del sapere e del partito.
Il partito politico, sostegno o soggetto del sapere, lo trasmette agli operai, lo comunica, lo rende accessibile, senza smettere di detenerlo. Ora il partito politico tende, con lo Stato e con la copertura dello Stato, a elevarsi al di sopra della società. L’esperienza lo mostra e la teoria lo dimostra. Ogni partito politico, che lo sappia o no, è hegeliano per essenza14.
Insomma, arriva un punto in cui non c’è sapere pregresso che possa assicurare il procedere della rivoluzione se a spingere in avanti non interviene il vissuto, non del singolo individuo straordinario, ma delle masse. Giunge un momento in cui la conoscenza acquisita attraverso le lezioni della storia, per quanto necessaria, non è più sufficiente e diventa indispensabile, anche per Marx, fare affidamento sulla poesia del futuro, intesa coma capacità di produrre il novum. A quel punto, se non si vuole cadere all’indietro bisogna fare una capriola in avanti, senza avere alcuna garanzia sul fatto che si riuscirà ad atterrare sui propri piedi invece di rompersi la testa. Questo è quello che Nietzsche chiama salto nel sovrumano. Un salto che, proprio perché privo di solidi punti di appoggio, si espone al rischio dell’eterno ritorno della vecchia merda.

Questa dinamica, tutto sommato, non è estranea al pensiero di Marx che, però, ne mette in evidenza, come momento risolutivo, il lato oggettivo. In particolare quando afferma che le rivoluzioni proletarie
sembra che abbattano il loro avversario solo perché questo attinga dalla terra nuove forze e si levi di nuovo più formidabile di fronte ad esse; si ritraggono continuamente, spaventate dall’infinita immensità dei loro propri scopi, sino a che si crea la situazione in cui è reso impossibile ogni ritorno indietro e le circostanze stesse gridano: Hic Rhodus, hic salta!15
Rodi marcisce sul posto, ma ancora non è crollata. I fuochi della catastrofe sociale oramai si allargano a macchia di leopardo anche nel cuore dell’impero. Le rivolte si sono certamente moltiplicate, ma spesso a prevalere è stato un nietzscheano risentimento di massa che ha portato gli individui, riuniti in pseudo-soggettività collettive, a “adorare chi ha potere su di loro […] e identificarvisi provando godimento nell’umiliazione”.16 Anche quando chi ha il potere, per rispondere a questa catastrofe sociale, spinge con sempre più forza verso l’apocalisse bellica. Di fronte al baratro occorre tutta la lucidità di cui ci rende capaci il pensiero dialettico marxiano che va alla caparbia ricerca di quelle tendenze immanenti alla realtà in grado di costituire le premesse per una sua radicale trasformazione, restringendo il grado di aleatorietà della prassi rivoluzionaria. Ma sarà anche bene predisporsi al salto se non si vuole sprofondare in un abisso nietzscheano o, se si preferisce, nella comune rovina delle classi in lotta di marxiana memoria. Non sarà Nietzsche a salvarci, ma l’idea di Lefebvre di un pensiero multidimensionale potrebbe non essere del tutto campata in aria.

Note

1) H. Lefebvre, Hegel Marx Nietzsche o il regno delle ombre, DeriveApprodi, Bologna 2025, p. 113, edizione Kindle. ↩

2) Ivi, p. 31.

3) Ivi, p. 136.

4) Ivi, p. 131.

5) Ibidem.

6) Ivi, p. 190.

7) Ivi, p. 223.

8) Ivi, p. 32.

9) Ivi, p. 233.

10) Ivi, p. 253.

11) Ivi, p. 165.

12) Ivi, p. 263.

13) Ibidem.

14) Ivi, p. 167.

15) K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte.

16) H. Lefebvre, cit. p. 254.

Fonte

30/07/2024

Aporie dell'utopia comunitaria - Il Marx di Preve fra Hegel e Aristotele

Premessa
Il secondo volume delle Opere (Inschibbolleth Editore, a cura di Alessandro Monchietto) di Costanzo Preve raccoglie due testi, il primo postumo e parzialmente incompleto (Manifesto filosofico del comunismo comunitario), il secondo (Elogio del comunitarismo) originariamente editato da Controcorrente (2006). Il tutto è preceduto da una Introduzione ("Comunità e comunismo nell’ultimo Preve") di Mimmo Porcaro, alla quale rinvio per tutti gli argomenti che non riuscirò a trattare nel presente articolo, dato che i problemi sollevati da questi due scritti sono numerosi e complessi, tanto da non poter essere esaurientemente affrontati in un articolo che deve rispettare gli standard di lunghezza che mi sono autoimposto per i materiali di questa pagina.

Gli obiettivi che Preve si è posto in questi lavori sono a dir poco ambiziosi: si tratta, fra le altre cose, di abbozzare un bilancio storico-critico della teoria marxista e dei tentativi, condotti dai partiti comunisti novecenteschi, di metterne in atto i principi per realizzare formazioni sociali postcapitaliste; di riscattare dalla damnatio memoriae questi grandiosi esperimenti, evitando di buttare il bambino con l'acqua sporca, evitando, cioè, di liquidare quello che Preve – pur considerando la velleità di restaurare il “vero” pensiero di Marx impresa al tempo stesso vana e impossibile (1) – considera il progetto marxiano originario, vale a dire il sogno di realizzare non uno stato socialista, bensì una comunità di individui liberi ed uguali; di contestare il dogma che inchioda Marx al ruolo di filosofo “materialista”, di colui che ha “rimesso con i piedi per terra” la dialettica di Hegel, e di descriverlo invece come il punto più alto di una linea di pensiero che si dipana da Aristotele a Hegel per culminare appunto con il maestro di Treviri; di smascherare la finta polarità destra/sinistra, svelando il gioco delle parti fra due strategie politico-culturali complementari, entrambe finalizzate a conservare l’egemonia del capitale sulle classi subalterne (indicando nella sinistra, in quanto primo custode della neolingua e del codice etico “politicamente corretti”, il nemico principale); di rifondare teoricamente l'utopia comunistico-comunitaria depurandola dagli equivoci e dalle ambiguità associate ai vari comunitarismi localisti, razzisti e primitivisti; di analizzare le fondamenta teologiche – veterotestamentarie e calviniste – del sistema neoliberale di rito anglosassone, sgombrando il campo dalle chiacchiere sulle presunte radici ebraico-cristiane della modernità occidentale. Il tutto mettendo criticamente a fuoco i concetti di modernità, verità, universalità, totalità, libertà, democrazia, utopia.

Per analizzare esaurientemente questa enorme mole di questioni, anche senza pretendere di approfondire più di tanto il modo in cui Preve le affronta, occorrerebbero centinaia di pagine. Rinunciando a priori a una simile impresa, mi limiterò ad entrare nel merito di parte delle questioni trattate, motivando perché, mentre alcune delle tesi di Preve mi paiono azzeccate, altre mi trovano in disaccordo. Prima di affrontare le critiche che Preve rivolge al comunismo reale e al “canone” marxista, e di analizzare l’alternativa comunitarista che suggerisce, mi occuperò di tre argomenti che, mentre possono apparire marginali a chi li associa alla sfera “sovrastrutturale”, considero invece dirimenti per cogliere il nucleo essenziale del lascito filosofico-politico di Costanzo Preve: mi riferisco ai fondamenti teologici della modernità capitalistica, alla presunta o reale derivazione greca della visione politica e dei principi etici marxiani e alla feroce critica dell'ideologia del politicamente corretto.

I.
La tesi di fondo di Preve in merito al codice religioso dell’occidentalismo imperiale (o, se si preferisce, dell'imperialismo occidentale) è che esso non si fonda sulla secolarizzazione di temi ebraico-cristiani, come ossessivamente ribadito dall’ideologia veicolata da accademici, politici e giornalisti di regime, bensì sulla secolarizzazione del protestantesimo calvinista (in particolare nella variante puritana di matrice anglosassone) caratterizzato dal dogma della predestinazione, il quale si è via via esteso dalla predestinazione individuale (sancita dal successo economico) alla predestinazione del popolo anglosassone, che trova espressione compiuta nella tesi dell’eccezionalismo americano, e nella sua auto attribuita missione di diffondere il verbo della democrazia liberale e del capitalismo nel mondo intero.

La presunta convergenza fra cristianesimo ed ebraismo è invece il prodotto dell’appiattimento del primo sul protestantesimo e della condivisione dello stesso libro sacro (la Bibbia e non i Vangeli cristiani) che accomuna protestanti ed ebrei. Essa si è dunque prodotta al prezzo di una serie di rimozioni: da quella relativa allo spirito (e all’ancoraggio sociale) del cristianesimo primitivo che, oltre a essere messianico e apocalittico, era animato da una forma di comunismo comunitario che si è prolungata nei movimenti ereticali medievali (Preve ricorda che la stessa teologia francescana era basata sui concetti di povertà e semplicità e promuoveva un’etica di tipo cenobitico-comunista); a quella dell’universalismo cristiano e del suo rifiuto del concetto razzista di popolo eletto (cristianesimo e islamismo, argomenta Preve, sono forme di universalismo religioso, laddove ebraismo e induismo sono forme di “tribalismo” religioso); infine a quella della opposizione fra onnipotenza dell’Uno e dialettica trinitaria, in base alla quale la verità (il Padre) esce da sé nel mondo (il Figlio) e torna a sé stessa (lo Spirito Santo) (2). Il protestantesimo veterotestamentario, argomenta Preve, privilegia il Padre, “divenendo così eresia individualistica ebraica”, mentre il cattolicesimo privilegia il Figlio “che corre a soccorrere le vittime dei credenti idolatri del Padre”.

Sofisticherie teologiche prive di sostanziali implicazioni storico-politiche? Non secondo Preve, il quale ricorda che non a caso tutta la grande filosofia ebraica, da Gesù a Lukacs, passando per Spinoza e Marx, si è fondata sulla critica universalistica alla superstizione per cui ci sarebbe un solo Dio che ha scelto il suo “popolo eletto”. Purtroppo l’ancoraggio delle sinistre ebraiche al pensiero di questi maestri è venuto meno, o è stato ridotto al silenzio, a mano a mano che il sionismo ha preso il sopravvento, legittimando il ruolo dello stato colonialista e razzista di Israele. Questa radicale presa di posizione antisionista, ancorché condivisa da intellettuali di origine ebraica come Ilan Pappé (3), è una delle ragioni per cui Preve viene sistematicamente tacciato di “rossobrunismo” e antisemitismo.

A inasprire tale scomunica contribuisce il fatto (che personalmente ritengo uno dei suoi meriti maggiori) che Preve vede, in quella che definisce “religione olocaustica” (che si tratti di una religione, argomenta, lo conferma il fatto che il negazionismo venga considerato reato penale, laddove i più spericolati revisionismi storici godono di piena libertà di espressione) una delle armi più letali per legittimare l’egemonia imperiale americana. Il “balletto dei milioni di vittime”, scrive, non serve a celebrare la memoria dei crimini nazisti – opportunamente identificati con il “male assoluto”, sia per far impallidire quella dei crimini perpetrati dai regimi liberal-democratici, sia per mascherarne le comuni radici, che affondano nella modernità occidentale (4) – serve piuttosto a legittimare il dominio del nuovo centro imperiale: il complesso di colpa europeo – che tocca vertici parossistici nel caso della Germania (5) – contribuisce a tenere l’Europa sotto il tallone dell’impero a stelle e strisce, così come contribuisce a legittimare i comportamenti razzisti e genocidi del sionismo contro il popolo palestinese (6).

Per farla breve: il fondamentalismo sionista-protestate è la “religione idolatrica dell’impero Usa” – religione che, dopo il crollo dell’URSS e dei Paesi socialisti dell’Est Europa, è assurta al ruolo di culto universale, delegittimando l’intero Novecento in quanto “secolo delle ideologie assassine da sostituire con un secolo del libero commercio globalizzato mondiale” (7).

La costruzione occidentale della modernità – “un concetto fantasma che sostituisce e occulta il concetto di modo di produzione capitalistico”(8) – non si fonda però esclusivamente sulla religione olocaustica. Il processo è alimentato anche da una narrazione “laicista” che non si ispira a una fantomatica “ragione in generale”, bensì alla secolarizzazione illuministica della tradizione cristiana occidentale; tradizione che appare identificata con la sua variante individualistico-protestante a mano a mano che il codice della modernità anglosassone – elaborato dai vari Hobbes, Locke, Hume e Adam Smith – prevale sui codici dell’illuminismo continentale (franco-tedesco). Questi padri fondatori della ragione liberale (9) hanno gettato le basi di una teoria politica che ha legittimato il processo di individualizzazione anti-comunitaria, in assenza del quale i rapporti di produzione capitalistici non avrebbero potuto affermarsi. Questa ragione liberal democratica si fonda poi su un altro pilastro religioso della modernità occidentale: quel culto dei diritti umani che, una volta elevato a principio assoluto, è divenuto titolare tanto “del diritto militare di distruzione” quanto del diritto “giuridico-giudiziario di limitazione della sovranità di stati, nazioni e popoli”.

Il Nuovo Ordine Mondiale che si prospetta, a mano a mano che l’egemonia ideologica fondata sui pilastri appena descritti si consolida, non è caratterizzato, come argomentano certi suoi critici “di sinistra”, da un principio di esclusione, bensì da un principio di “inclusione subalterna di tutti i popoli e le nazioni del mondo in un unico modello internazionalizzato di capitalismo liberale”. Si tratta dell’ordine totalitario (10) dell’economia capitalistica, gestito da un’oligarchia che si legittima mediante referendum periodici che presuppongono l’impotenza degli oppositori” (11).

II.
So che l’affermazione che mi appresto a fare scandalizzerà sia i filosofi accademici (e, se fosse ancora vivo, avrebbe scandalizzato lo stesso Preve, che certo accademico non era), sia i marxisti (ortodossi e non): personalmente non ritengo rilevante stabilire se abbiano ragione i filosofi (marxisti e non) che definisco Marx materialista (sia pure precisando materialista storico, dialettico ecc.) oppure se abbia ragione l’eretico Preve, che lo considera un esponente della grande scuola idealista tedesca, assieme a Fichte ed Hegel. Lascio volentieri il giudizio alla ristretta cerchia degli esperti di hegelo-marxismo. Quanto a me, ritengo che, in quanto filosofo della prassi, Marx si collocasse al di là dell’opposizione nominalistica materialismo-idealismo, postura che ritengo di poter attribuire anche all’ultimo Lukacs della Ontologia dell’essere sociale (12). Non entrerò quindi nel merito delle parti del secondo volume delle Opere in cui Preve affronta il tema.

Pur confessandomi non meno ignorante in materia di filologia e storia della cultura greca classica, non mi esimerò invece dal discutere le tesi di Preve in merito al presunto debito di Marx nei confronti del pensiero greco (e in particolare di Aristotele). Questo perché, anche se non sono in grado di valutare l’attendibilità di certe interpretazioni etimologiche e di certe contestualizzazioni storiche che Preve usa a sostegno delle proprie argomentazioni, vorrei mettere in luce in che misura queste “contaminazioni” fra il pensiero di Aristotele e quello di Marx influenzino la sua visione (che discuterò criticamente nell'ultima parte di questo articolo) di come dovrebbe essere un mondo post capitalista.

Parto dalla critica radicale che Preve rivolge a tutti coloro che spacciano la cultura greca classica per la legittima antenata della modernità occidentale. La “teoria del miracolo” (secondo cui il Logos si sarebbe misteriosamente incarnato nella mente degli antichi Greci, facendone gli antesignani della libertà, della democrazia e dell’individualismo che sostanziano la modernità occidentale), scrive Preve, serve “come osceno pedigree razzista (13) per legittimare filosoficamente la presunta superiorità dell’occidentalismo contemporaneo verso tutte le altre civiltà”; laddove l’analisi comparatistica ci suggerisce che idee analoghe (si pensi al pensiero di Eraclito, Buddha, Confucio, e Zarathustra) si sono sviluppate contemporaneamente e indipendentemente le une dalle altre, smentendo la presunta “eccezionalità” della ragione greca. Quanto alla libertà individuale, Preve smantella la lettura nietzschiana, affermando che la virtù individuale dei greci poteva “essere praticata solo all’interno di un sistema di valori accettato dalla comunità”, per cui è del tutto fuorviante attribuire loro la scoperta della libertà individuale che è piuttosto “prodotto esclusivo di quattro filosofi britannici [Hobbes, Hume, Locke, Smith] cittadini del paese che ha inaugurato la produzione capitalistica sulla base dell’estremizzazione puritana del calvinismo”.

Diverso il discorso sulla democrazia greca che, sostiene Preve, fu il prodotto di un fatto storico e sociale, vale a dire della “minaccia di insensatezza della vita individuale e sociale dovuta alla dissoluzione delle forme di vita comunitarie”, minaccia associata all’irruzione del denaro come fattore centrale nelle relazioni economiche, e al suo potere dissolutore nei confronti del legame sociale. In altre parole, la democrazia sarebbe nata come intervento correttivo sulle disuguaglianze create dall’evento in questione. Aristotele, scrive Preve, basa non a caso tutta la sua riflessione economica sulla distinzione fra economia (intesa come riproduzione dell’unità famigliare allargata) e crematistica, vale a dire l’accumulazione illimitata di ricchezza che genera la contrapposizione fra una minoranza di super ricchi e una massa di poveri. La democrazia antica, nascerebbe insomma da una soluzione razionalistica ai conflitti generati dall’impossibilità di eliminare la lotta di classe, soluzione che consiste nel limitare quest’ultima attraverso la sottomissione dei movimenti economici alla decisione politica (per inciso questa tesi di Preve è in sintonia con quella di Karl Polanyi (14) sulla non autonomia della sfera economica nelle formazioni sociali precapitalistiche).

È noto che una delle critiche più diffuse alla possibilità di accostare democrazia antica e democrazia moderna consiste nel fatto che nella prima vigeva il principio di esclusione nei confronti delle donne, ma soprattutto degli schiavi. Preve obietta che la visione aristotelica non rispecchiava un modo di produzione schiavistico compiuto (che sarebbe arrivato assai dopo) bensì un modo di produzione di piccoli proprietari indipendenti. Lascio agli storici di professione il giudizio sulla correttezza di tale affermazione. Qui mi interessa mettere in luce che, secondo Preve, il modo di produzione in questione era sensibile alla smisuratezza del potere e delle ricchezze (e alla necessità di limitare/contenere tale smisuratezza in quanto fattore di corruzione e dissoluzione politica e sociale).

È qui che si innesca quella che Preve descrive come la convergenza fra il punto di vista di Aristotele e quello di Marx: così come il primo interpreta il sentimento di una società che teme le conseguenze dell’illimitatezza provocata dal prevalere della crematistica sull’economia, il secondo condanna la smisuratezza del principio di accumulazione illimitata che governa il modo di produzione capitalistico, per cui il comunismo di Marx si basa sul concetto di bisogno (ancorché ricco) che a sua volta sta alla base del concetto di comunità solidaristica. Discuterò più avanti il fatto che Preve spinge questa convergenza fino a identificare anche la propria utopia comunistico-comunitaria con un’economia di piccoli produttori indipendenti. Così come discuterò più avanti il concetto di universalità che Preve deriva dall’esperienza della grecità classica, laddove scrive che “proprio radicalizzando la loro particolarità i greci sono stati in grado di proporre un modello universalistico”.

III.
A inchiodare l’etichetta di rossobrunismo sul pensiero di Preve ha contribuito, altrettanto se non più della durezza del suo giudizio sul sionismo, quella sul movimento femminista, e più in generale sulla cultura politica delle sinistre post sessantottine e sul canone politicamente corretto. Se l’occidentalismo imperiale fondato sulla teologia individualistico-protestante, analizzato nel primo paragrafo, rappresenta la forma “hard” dell’ideologia imperiale, l’ideologia del politicamente corretto ne incarna la forma “soft”. Le differenze fra le due sono apparenti, in quanto si tratta di varianti meramente tattiche che convergono nella finalità strategica, vale a dire assicurare il dominio dell'imperialismo occidentale sul mondo. A fornire la prova più evidente in merito è la corale convergenza delle sinistre occidentali sulla “teologia interventistica dei diritti umani” che, in buona o in mala fede, ha assicurato una copertura ideologica costante per le guerre imperiali di conquista (gli esempi degli ultimi decenni sono infiniti: per quanto riguarda l’Italia, il più clamoroso è probabilmente il coinvolgimento del centro-sinistra nell’aggressione NATO contro la Serbia, per tacere – ma questo Preve non ha fatto in tempo a metterlo in elenco – dell’attuale vergognosa legittimazione dell’appoggio al governo golpista ucraino di estrema destra nella guerra contro la Russia). “Il principio massimo del politicamente corretto”, commenta icasticamente Preve evocando implicitamente il romanzo distopico di Orwell, “consiste nel chiamare pace la guerra”.

Le considerazioni critiche di Preve sul politicamente corretto come “neolingua cerimoniale della comunicazione diffusa” e sulle sue velleità totalitarie – sul tentativo cioè di silenziare le voci che non vi si adeguano – non rappresentano un contributo particolarmente originale: basti citare, fra gli altri, autori come la coppia di sociologi francesi Boltanski e Chiapello (15), lo svedese Friedman (16), l’americana Nancy Fraser (17), i molti critici della cosiddetta cultura woke (18) e le riflessioni che chi scrive ha dedicato al fenomeno in diversi libri (19). Più originale – e più stimolante al tempo stesso – è il tentativo di Preve di distinguere una seconda dimensione ideologico culturale del politicamente corretto in cui convergono sei fattori strutturanti: l’internità all’occidentalismo americano imperiale (la sinistra post moderna, scrive, si è costituita sulla sostituzione dell'internazionalismo con un cosmopolitismo astratto che ha assunto progressivamente i tratti del globalismo americanizzato); la criminalizzazione del comunismo novecentesco; l’eternizzazione dell’antifascismo in assenza di fascismo; le religione olocaustica; la teologia interventistica dei diritti umani; la riduzione del conflitto politico a “polarità idraulica” di vasi comunicanti (destra e sinistra).

Della conversione all'occidentalismo imperiale, della religione olocaustica e della teologia interventistica dei diritti umani si è già detto. La criminalizzazione del comunismo novecentesco e l’intercambiabilità fra destra e sinistra – temi strettamente intrecciati – saranno oggetto dei prossimi paragrafi. Più problematico appare il punto relativo all’antifascismo in assenza di fascismo – punto che, anche a causa della stima che Preve manifestò per il pensatore francese della nuova destra Alain de Benoist, gli è stato ritorto contro da una sinistra inviperita dalle sue ficcanti critiche. Il sottoscritto, che pure ha in passato espresso analoghi giudizi sull’antifascismo “da parata”, è convinto che Preve avrebbe forse riformulato, o almeno approfondito, la questione in relazione all’emergere di destre europee di nuovo tipo, assai più agguerrite e pericolose dei patetici residui dei fascismi d’antan. Ciò nulla toglie al fatto che la pregiudiziale antifascista abbia svolto, e tuttora svolga, un ruolo deleterio nel legittimare le convergenze opportunistiche fra sinistre post moderne e destre neoliberali (vedasi il recente Fronte Popolare in Francia, che ha inchiodato France Insoumise all’alleanza con una destra socialista atlantista e guerrafondaia e le ha affibbiato il ruolo di utile idiota per tenere in piedi il progetto neoliberale di Macron – o di chi ne prenderà il posto).

Una considerazione a parte merita la posizione critica di Preve nei confronti del femminismo. Anche in questo caso non si tratta di argomenti particolarmente inediti o originali, tanto da essere condivisi dalle esponenti più lucide della stessa cultura femminista (20), anche se certi toni accesi sono stati sfruttati per la “rossobrunizzazione” del nostro. Il ragionamento di Preve si articola su due piani, socioeconomico e socioculturale. Per quanto riguarda il primo, Preve sostiene – a mio avviso correttamente – che il femminismo, al pari di altri movimenti politicamente corretti, è funzionale “al processo di allargamento della base sociale, economica, politica e culturale della produzione capitalistica”. Ciò è del resto ammesso dalle teoriche femministe di ispirazione neo-marxista che hanno affrontato la questione della “femminilizzazione del lavoro”, alcune delle quali (21) distinguono fra l’emancipazione di genere rivendicata dal movimento originario e le rivendicazioni di parità-mobilità verso l’alto progressivamente egemoni nelle ondate successive (“il ruolo dell’imprenditore”, commenta in merito Preve, “si apre al sesso femminile ma pretende una iniziazione che lo porti a una forma di maschilismo mimetico”). “Solo la stupidità”, conclude il nostro, “ha divulgato l’idea che il femminismo sia di sinistra, laddove la sua logica porta inesorabilmente alla rottura della solidarietà fra i sessi, all’individualismo narcisistico e alla delegittimazione della comunità [familiare ma non solo]”. Sommando tutte le riflessioni critiche concisamente riassunte in questo paragrafo, Preve arriva a concludere che “il nemico principale è oggi la cultura della degenerazione individualistico-radicale del ceto degli intellettuali ‘di sinistra’”. E con questo ha posto un’altra pietra per il monumento alla sua damnatio memoriae...

IV.
Prima di discutere la lettura di Marx su cui Preve fonda la propria visione utopica – sappiamo (vedi nota 1) che per lui “non esiste e non può esistere un fantomatico vero Marx che si tratterebbe di scoprire”, il che non gli impedisce di rivendicare la “sua” verità su Marx – riassumerò in questo paragrafo le critiche che rivolge al marxismo in quanto costrutto ideologico e agli esperimenti storici che ha ispirato.

Il marxismo, argomenta Preve, è una successione di formazioni ideologiche, ma è innegabile che la sua forma “canonica” consista in “un codice sistematizzato da Engels e Kautsky fra il 1875 e il 1895 su committenza dei socialdemocratici tedeschi”, oggi improbabile in quanto datato e connotato da influenze positiviste, riduzioniste ed economiciste. In particolare, il fatto che in Marx vi sia inequivocabilmente un lato apologetico dello sviluppo capitalistico, ha consentito a molti suoi interpreti di “giocare Marx contro Marx” – o “oltre Marx” per dirla con Toni Negri (22). Vedi il “mantra”, ossessivamente ripetuto per più d’un secolo, in base al quale il capitalismo “è unità dialettica di emancipazione e alienazione” che, nella misura in cui coincide con l’ideologia borghese del “progresso”, ha legittimato infiniti compromessi opportunistici col nemico di classe. Vedi la lettura “stagnazionista” dell’esaurimento del ruolo storico del capitalismo in quanto motore dello sviluppo delle forze produttive, laddove, nota giustamente Preve, tale modo di produzione si è rivelato capace di uno sviluppo illimitato delle stesse, e laddove anche le crisi economiche più gravi si sono rivelate momenti di rafforzamento e non di decadenza del sistema, in assenza di una capacità soggettiva organizzata. Vedi l’illusione positivistica in merito al presunto “passaggio del socialismo dall’utopia alla scienza” e all’individuazione di cosiddette “leggi” del processo storico, concetto – peraltro smentito dallo stesso Marx (23) – che ha legittimato l'obbrobrio di quel “diamat” staliniano che ha naturalizzato la storia formulando il modello “dei cinque stadi”, che non ha alcunché da spartire con una seria analisi comparativa della storia universale. Vedi il dogma che associa la possibilità della transizione al socialismo al raggiungimento di un elevato livello di sviluppo delle forze produttive, rovesciato da Lenin (l’eretico era lui, chiosa Preve, e non il “rinnegato” Kautsky che difendeva la versione canonica del marxismo) e dalla sua capacità di incarnare, come sostiene Lukacs, l'attualità della rivoluzione, cioè il fatto che nella fase imperialistica dello sviluppo capitalistico ogni popolo può mettere in atto una rivoluzione “senza che vi sia il bisogno di una commissione di marxisti doc che ne stabiliscano il diritto dopo valutazione del livello di sviluppo delle forze produttive”.

Preve attribuisce a Lenin un altro merito, vale a dire quello di avere relativizzato il rapporto fra classe operaia e potere politico, prendendo atto che la classe può accedere tuttalpiù a una coscienza di tipo sindacale-rivendicativo, per cui l’utopia autogestionale diretta è impraticabile. Nel prossimo paragrafo vedremo come questo omaggio a Lenin sul tema della democrazia diretta è di fatto in contraddizione con l’utopia comunitaristica di Preve. Vedremo che è altresì in contraddizione con tale utopia una tesi di Preve che, viceversa, chi scrive non solo condivide, ma ha messo al centro delle proprie riflessioni sul socialismo del secolo XXI (24): mi riferisco all’affermazione secondo cui la classe operaia “mette in atto comportamenti ribellistici di massa solo nella sua prima fase di uscita dalla condizione contadina, bracciantile e artigiana, mentre tende a integrarsi nella seconda fase di inserimento all'interno delle masse, economicizzazione del conflitto, individualizzazione consumistica”. Questa tesi è fondamentale per capire perché le uniche rivoluzioni socialiste riuscite si siano date in Paesi in via di sviluppo e abbiano avuto come protagoniste principali le masse contadine alleate appunto a nuclei operai di recente formazione, dopodiché vedremo come Preve non riesca a sfruttare tale intuizione per comprendere il ruolo strategico delle rivoluzioni extraeuropee per l’affermazione del socialismo mondiale.

Di tutto ciò diremo più avanti. Qui importa sottolineare come Preve consideri erroneo il tentativo di Marx di criticare il concetto hegeliano di Universale superandolo/conservandolo (aufhebung), sostituendo cioè nel ruolo di incarnazione di tale concetto la figura del funzionario dello stato borghese con quella di una classe operaia che “liberando se stessa libererà l’intera umanità”. Questo “errore” è riproposto dall’intera tradizione marxista che non ha mai smesso di eleggere la classe operaia a classe universale e “soggetto decisivo nel conseguimento della capacità di egemonia” (vedi in particolare Antonio Gramsci). Mi pare di potere affermare che, per Costanzo Preve, questo “peccato originale” del marxismo sia la causa sostanziale del fallimento dell’esperimento sovietico. Mentre reagisce con giusta indignazione al bilancio ideologico, avvallato dagli intellettuali della sinistra postmoderna (25), del Novecento “come secolo orrendo del totalitarismo”, e mentre liquida tale demonizzazione assieme al concetto di totalitarismo, in quanto “pezzi ideologici della visione del mondo dell’oligarchia capitalistica di oggi”, Preve rifiuta di condannare lo stalinismo su basi moralistiche ma ne indica, analogamente a quanto sostenuto da una studiosa di storia sovietica come Rita de Leo (26), il primo fattore di autodissoluzione nel “progetto titanico e prometeico di modificazione antropologica del comportamento umano”(27) fondato sul tentativo di realizzare “un dispotismo operaio sul resto della società”, in particolare su quelle classi medie che saranno la punta di diamante della controrivoluzione della fine del secolo scorso. Il grandioso tentativo novecentesco di ristabilire il primato della politica sull’economia fallisce anche e soprattutto a causa di questo tragico errore che impedisce lo sviluppo comunitario “di un’armonica crescita di un sapere e di un potere sociale realmente diffuso in tutti i membri della comunità stessa”; un errore che è a sua volta alla radice della impossibilità storica di far convivere comunismo e democrazia.

V.
Una volta definite – certamente in modo più articolato rispetto alla sintesi che ne ho fatta – le proprie critiche al comunismo novecentesco – rifiutandone al tempo stesso la demonizzazione – Preve delinea il suo progetto alternativo di utopia sociale. In primo luogo, ammette esplicitamente che si tratta di una utopia e, rilanciandone l’apologia lukacsiana (28), sostiene che il termine è da intendersi positivamente perché, anche se provvisoriamente inapplicabile, “l’utopia è una sorta di ideale regolativo del comportamento umano che produce effetti concreti in un lasso di tempo a media scadenza" (condivido, anche se considero a dir poco ottimista quel “media”).

Quindi dedica ampio spazio a chiarire che la sua idea di comunitarismo non va confusa né con quella associata alle forme di localismo xenofobe se non esplicitamente razziste (occorre uscire “dal circolo vizioso del pregiudizio identitario”), né con il comunitarismo accademico di scuola anglosassone, né con i comunitarismi che tessono le lodi delle comunità organiche: le comunità primitive, argomenta, hanno il solo merito di dimostrare che la proprietà privata non è insita nella natura umana (29), e conclude seccamente che “ogni concezione del comunismo o del comunismo comunitario come ritorno della comunità primitiva è errata”. Preve ricorre al concetto di comunismo comunitario fondamentalmente per due ragioni: in primo luogo, per ribadire che esso non si oppone al comunismo, “ma si auto interpreta come una sua riforma interna alla sua storia ideale eterna” (dovremo tornare su quel “storia ideale eterna”); inoltre perché la sua tesi è che il concetto in questione è quello che meglio rispecchia l’utopia marxiana.

Si è visto sopra che Preve sostiene che non è possibile risalire al “vero” Marx ricostruendone fedelmente il pensiero; al tempo stesso ammette che in Marx non esiste una chiara definizione del comunismo, del quale il filosofo di Trevi ci spiega soprattutto che cosa non è, definendolo quasi esclusivamente in termini contrastivi al capitalismo e alle precedenti formazioni sociali, il che, commenta Preve, “non è la sua debolezza bensì la sua forza perché gli consente di sopravvivere all’obsolescenza delle sue firme storiche”. Questa doppia mossa consente a Preve di isolare una serie di concetti marxiani per poi “rimontarli” a sostegno del proprio progetto teorico. Vediamo quali. In primo luogo nega la possibilità – sostenuta in particolare da Althusser (30) – di separare la “fusione imperfetta” fra elemento utopico ed elemento “scientifico” nel pensiero marxiano, depurando il secondo dalle interferenze del primo. Poi nega che Marx possa essere considerato un pensatore rigidamente “classista” (vedi sopra) nel senso che il suo [innegabile!] classismo sarebbe stato “solo un mezzo per giungere a un fine che era appunto quello della comunità” (o meglio: “l’utopia di una sola comunità umana mondializzata”). Infine sostiene che Marx, parlando della proprietà comunista, ha in testa la proprietà individuale e non collettiva, in quanto il comunismo della libera individualità coincide con la società comunista della proprietà individuale. E qui siamo al dunque: “la mia proposta di interpretazione del comunismo comunitario di Marx” ammette Preve, “è direttamente ricavata dalla società dei piccoli proprietari e produttori indipendenti della grecità classica”. Preve sembra insomma volerci dire che per Marx, come per lui, “la storia ideale eterna” del comunismo dovrà risolversi in un ritorno (ovviamente a un livello superiore) non alle società organiche precapitaliste, bensì alla società dei piccoli proprietari e produttori indipendenti che ispirava il pensiero politico aristotelico. Della insostenibilità (storico-concreta, non idealtipica!) di tale utopia diremo fra poco; per ora vediamo come la tesi appena esposta si fondi sulla descrizione del comunismo comunitario propostaci da Preve.

Posto che, come si è visto, una delle cause, se non la causa prima, del fallimento dell’esperimento sovietico è stata, secondo Preve, l’incapacità di coniugare comunismo e democrazia, e posto che nella comunità, ciò che è comune non può “essere avocato a un gruppo ristretto di reggitori che prescrivono al resto della comunità il da farsi”, è evidente che una società comunistico-comunitaria dovrà istituzionalizzare la democrazia politica “intesa non tanto come principio di maggioranza, quanto come processo di estensione quantitativa e qualitativa della partecipazione dei membri della comunità”. Quindi: autogoverno politico e autogestione economica, consultazione stabile e permanente delle comunità e, più in dettaglio, “una abolizione della produzione capitalistica, una produzione fondata sull’autogestione solidale dei produttori, un mantenimento della piccola produzione mercantile con le inevitabili piccole disuguaglianze, il mantenimento degli stati nazionali per preservare eredità linguistiche e culturali e una confederazione mondiale di stati comunitari indipendenti”. In poche parole, una società basata “su un processo di democratizzazione radicale di famiglia, società civile e stato e non sulla loro abolizione”.

È evidente che discostandosi dalla tesi marxiana dell’abolizione dello stato, Preve è guidato dalla consapevolezza che anche nel suo mondo utopico non può sparire come per incanto la polarità fra individui e comunità, ma mentre in Lukacs, come ho argomentato altrove (31), questa consapevolezza serve a evitare la trappola della “fine della storia” in quanto fine di tutti i conflitti umani, Preve scrive che la polarità in questione “può dialetticamente evolvere in un mondo di individui liberati inseriti in comunità solidali”; e ancora “il comunitarismo nella mia interpretazione è una via comunitarista all’universalizzazione e al dialogo”. E qui torna il fantasma della fine della storia, di un futuro irenico in cui tutti i contrasti si stemperano nel dialogo, in cui trionfa cioè lo spirito umano universale. L’inciampo sta appunto nel concetto previano – illuministico, occidentalista e idealista – di universale.

VI.
Lo scoglio su cui va a sbattere la costruzione teorica di Preve, a conferma dei limiti di ogni visione idealista, è appunto la questione dell’universale, attorno alla quale viene accumulandosi una serie di contraddizioni di difficile superamento dialettico. Provo a partire dalla seguente affermazione, dividendola in due parti: nella prima, Preve ci dice che titolare dell’universalità non può essere un popolo, una religione, una nazione o una cultura particolare (e infatti afferma che “l’universalismo occidentale è un universalismo falso di una arrogante tribù”). Fin qui non si può che condividere; nella seconda parte della frase, tuttavia, si dice che titolare dell’universalità può essere solo il genere umano “che, a sua volta, non è presupposto ma l’esito di una potenzialità che si realizza in un processo storico di universalizzazione reale”. Anche questa affermazione deve a sua volta essere analizzata distinguendone una prima e una seconda parte. La prima presuppone l’esistenza di una natura umana in generale, il che confligge con quanto lo stesso Preve sostiene scrivendo che “l’Uomo non esiste, ci sono soltanto uomini diversi di diverse comunità”, così come confligge con la tradizione marxista che considera l’umanità concreta come il prodotto storico di specifiche relazioni sociali e considera l’idea del capitalismo come coronamento della natura umana la base dell'ideologia capitalista (in quanto tale “natura umana” letteralmente non esiste). Eppure Marx, sostiene Preve, non la pensava così, visto che “parlava dell’uomo come ente naturale generico ed era in sintonia con l’antropologia filosofica di Aristotele” [cioè l’uomo come animale, politico, sociale e comunitario, capace di linguaggio, ragione, ecc.].

Mettendo fra parentesi l’associazione fra Marx e Aristotele, argomenti a favore della tesi appena esposta si potrebbero trovare nel Libro I del Capitale, laddove Marx analizza il concetto del lavoro in generale in quanto ricambio organico fra uomo e natura, concetto che Lukacs definisce la forma originaria e il modello di ogni prassi trasformatrice (32). Concetto che tuttavia, a mio avviso, non consente molto più che distinguere uomo dall’animale (vedi l’arcinota metafora dell’ape e dell’architetto). Infatti ancora Lukacs mette in luce come le innumerevoli varianti concrete (storiche) di tale forma originaria (ideale-astratta) del ricambio organico uomo-natura producano esseri umani diversi in diversi contesti socioeconomici e culturali.

Ma proviamo a tornare sull'ultima parte dell’affermazione da cui ho fatto partire il ragionamento: Preve dice che il genere umano “non è il presupposto ma l’esito di una potenzialità che si realizza in un processo storico di universalizzazione reale”. Ammesso e non concesso che esista la possibilità che il processo storico approdi a una “universalizzazione reale” (che sarebbe di fatto l’hegeliana auto-realizzazione dello Spirito Assoluto e la fine della storia), in che modo si pensa che ciò possa realizzarsi a partire da una qualsiasi civiltà particolare? Preve riconosce infatti che ogni comunità è per sua natura particolare, “relativa al tempo e al luogo in cui sviluppa i propri costumi condivisi dal gruppo”; riconosce inoltre che il concetto di verità “nasce e si sviluppa come funzione di sopravvivenza e di riproduzione di una comunità” (falso è ciò che ne mette in pericolo la sopravvivenza e la riproduzione). Come emanciparsi, dunque, dal falso universalismo occidentale e dai suoi criteri di verità, in cui siamo nati e cresciuti, considerando che persino Marx non vi è riuscito, visto che immaginava “che il presupposto della mondializzazione del comunismo fosse la mondializzazione del modo di produzione capitalistico”? Eppure Preve è convinto che solo questa evasione da noi stessi può salvarci, se è vero che “non esiste comunismo comunitario se non ci si chiama fuori integralmente dall'occidentalismo imperiale in tutte le sue forme”.

Sappiamo (vedi il secondo paragrafo) che, secondo Preve, i Greci sarebbero stati in grado di proporre un modello universalistico radicalizzando la loro particolarità, e sappiamo che, sempre secondo Preve, tale particolarità era il prodotto di un modo di produzione di piccoli proprietari indipendenti. Il comunismo comunitaristico potrebbe e dovrebbe nascere non dall’impossibile radicale e totale ripudio delle nostre radici occidentali (benché lo stesso Preve – vedi sopra – sembri considerare necessario tale ripudio) ma dallo sforzo di darne una lettura alternativa. Il che vorrebbe dire “tornare” ai greci, o almeno a quelle che Preve considera le caratteristiche di una particolare fase della loro storia. Così descrive un comunitarismo solidale di libere individualità, “che sostiene la legittimità dell’universalità attraverso il riconoscimento della singolarità e della particolarità”, che “è una teoria e una pratica del rapporto fra la singolarità, la particolarità e l'individualità, da un lato, e l’universalità dall’altro”, e scrive che “la via maestra dell'universalismo reale da intendere non come un insieme di prescrizioni dogmatiche ‘universali’, ma un campo dialogico di confronto fra comunità unite dai caratteri essenziali del genere umano, della socialità e della razionalità”. A meno di non voler attribuire le caratteristiche appena elencate a un intervento divino, è evidente che le comunità così definite dovrebbero fondarsi a loro volta su un modo di produzione di piccoli proprietari indipendenti [!?]

VII.
Prima di ragionare sulle tre intuizioni che avrebbero a mio avviso consentito a Preve, ove non irretito da presupposti idealisti, di sviluppare una teoria alternativa credibile sulla transizione a una società post capitalista, provo a stilare un breve elenco delle tesi sin qui analizzate, sia quelle che considero condivisibili, sia quelle che mi lasciano perplesso.

Trovo assolutamente condivisibile la sua analisi delle basi teologiche – ebraico-protestanti – dell’ideologia imperiale del capitalismo neoliberale. In particolare, è evidente che l’attuale tentativo del blocco atlantico a guida Usa di scatenare una Terza guerra mondiale contro tutte le nazioni e i popoli che si oppongono al suo dominio, non è dovuto solo a incontestabili ragioni economiche (perdita di controllo di ampie fette del mercato mondiale dovuta all’emergere di competiror vecchi e nuovi come la Russia e la Cina), ma anche e soprattutto all’integralismo neocons che affida alla anglosfera la “missione” di convertire il mondo alla “democrazia” e al “libero” mercato (fattore da non liquidarsi come meramente “ideologico”, sovrastrutturale). Trovo parimenti condivisibile la sua tesi sul ruolo decisivo del pensiero di Lenin nel liquidare il marxismo “canonico” della II Internazionale e le sue scorie economiciste, evoluzioniste e positiviste, a partire dalle tesi secondo cui la transizione al socialismo sarebbe possibile solo laddove il livello di sviluppo delle forze produttive ha toccato i vertici massimi consentiti dalle contraddizioni del modo di produzione capitalistico, rimpiazzandola con la tesi dell’anello debole (crisi politico-istituzionale e perdita di capacità delle élite dominanti si esercitare egemonia). Trovo infine condivisibile la sua feroce critica delle sinistre postmoderne, a partire dal femminismo e dall’ideologia del politicamente corretto in tutte le sue articolazioni, una presa di posizione che chi scrive ha espresso nel capitolo intitolato “Le sinistre del capitale” del suo ultimo libro (33).

Il mio assenso è viceversa parziale nei confronti del modo in cui Preve affronta la questione del fallimento dell’esperimento sovietico: se mi pare giusto evidenziare l’errore di aver tentato di schiacciare le classi medie sotto una spietata dittatura operaia, creando i presupposti della controrivoluzione di fine Novecento, non condivido la sua critica al fatto che non siano stati garantiti i diritti “borghesi” (democrazia rappresentativa, libertà individuali, ecc.), anche se precisa che nella società comunistico comunitaria tali diritti assumerebbero carattere diverso. Soprattutto non condivido la sua visione di un comunitarismo associato a un modo di produzione di piccoli proprietari indipendenti. A tale proposito mi limito a citare letteralmente quanto ho scritto su questa pagina (34) a proposito dell’analoga visione proposta dal marxista calabrese Nicola Zitara e dal suo allievo Angelo Calemme: “ammesso e non concesso che oggi sia, non dico realizzabile, ma anche solo concepibile ‘una società di liberi produttori’ (Owen e Proudhon potevano ancora nutrire un simile sogno perché vivevano nella fase aurorale del capitalismo industriale, ma nemmeno loro avrebbero potuto farlo se fossero vissuti nell’era del tardo capitale monopolistico) non vedo come si possa non capire che tale società, in seguito alle differenze di capacità, talento, aggressività, ambizione, ecc. di questi produttori sarebbe destinata a subire un rapido processo di concentrazione dei capitali nella mani di una minoranza a scapito della maggioranza. Peggio mi sento di fronte alla schizofrenia teorica che, da un lato esclude ogni forma di liberismo economico [...] dall’altro indica nella proprietà privata e nella piena libertà di vendere e comprare il fondamento dei diritti individuali”.

Eppure, come detto poco sopra, Preve ha formulato tre intuizioni che avrebbero potuto condurlo in tutt’altra direzione. La prima è quella associata alla famosa lettera di Marx alla Zasulic in merito alla possibilità che la comunità contadina tradizionale russa (obscina) potesse approdare al socialismo senza passare dalle forche caudine del modo di produzione capitalistico. Marx, scrive Preve, ammettendo anche solo in via ipotetica tale possibilità (in barba ai suoi precedenti, duri giudizi nei confronti del potenziale rivoluzionario delle masse contadine), “compie un atto teorico anti-economicistico, anti-deterministico e anti individualistico”, evade cioè dal condizionamento associato alla sua appartenenza alla tradizione occidentale. Non è un caso se quest’ultimo Marx (35), come ho più volte ricordato analizzando il dibattito interno alla cultura marxista latinoamericana, sia ampiamente citato per legittimare il carattere oggettivamente anticapitalista della resistenza delle comunità originarie alla colonizzazione da parte del mercato. Né è un caso se un raffinato leader rivoluzionario africano come Amilcare Cabral parla di “classe nazione” (36) a proposito delle masse (prevalentemente contadine) in lotta per la liberazione dal giogo coloniale, ma proiettate verso un progetto di trasformazione socialista. Né è infine un caso se il “socialismo con caratteri cinesi” presenta evidenti debiti nei confronti della millenaria tradizione confuciana, che rispecchiava i valori del solidarismo comunitario contadino.

La seconda intuizione di Preve riguarda, da un lato, la necessità di superare la rigida opposizione bipolare operai/capitalisti (che, secondo lui, sarebbe stata in Marx strumentale alla realizzazione del comunismo comunitario, ciò di cui dubito ma che non è qui l’aspetto determinante); dall’altro lato, il riconoscimento che esistono civiltà culturalmente diverse [da quella occidentale] e forse inassimilabili come la cinese e la musulmana. Posto che aggiungerei certe civiltà amerindie e africane, c'erano qui i presupposti per capire che una larga fetta di umanità ha imboccato una via che – ancorché faticosa e tutt’altro che scontata – conduce al socialismo attraverso percorsi del tutto diversi da quelli immaginati dal marxismo occidentale. Invece, Preve resta suo malgrado occidentalista (in quanto rigorosamente hegeliano!), per cui è convinto che la via cinese – e più in generale quelle degli altri paesi in via di sviluppo – siano una nuova forma di sviluppo capitalistico (infatti sostiene – diversamente da Lenin (37) – che non possano esistere forme di capitalismo di stato che non siano forme di capitalismo tout court); ed è convinto che il capitalismo (come previsto dal Manifesto del 1848) abbia ormai conquistato il mondo senza residuare forme esterne. Eppure anche la terza intuizione, sintetizzata nell’affermazione “il comunismo comunitario che propongo si basa su un processo di democratizzazione radicale di famiglia, società civile e stato e non sulla loro abolizione” – affermazione con cui Preve prende le distanze dalla tesi marxiana sull’estinzione dello stato – avrebbe potuto aiutarlo a valutare la possibilità che uno stato socialista possa mantenere il controllo politico sull’economia senza liquidare l’intera classe capitalistica e servendosi di certe dinamiche del mercato senza abolirle integralmente. Ho ampiamente discusso di tale possibilità nel mio Elogio dei socialismi imperfetti (38) al quale rinvio il lettore, che potrà verificare come le forme sociali colà analizzate presentino non poche analogie con le caratteristiche che Preve immagina per il suo comunismo solidaristico (con tutte le differenze che distinguono la realtà storica concreta dagli idealtipi astratti).

Note

(1) Preve argomenta questa tesi in modo particolarmente convincente in un libro uscito negli anni Ottanta: cfr. La filosofia imperfetta, Franco Angeli, Milano 1984.

(2) Il riferimento alla dialettica hegeliana è qui talmente evidente da non meritare particolari commenti. Più interessante, dal punto di vista della storia delle religioni, sarebbe cogliere in questo “movimento” dell’essere divino tracce di alcune cosmologie gnostiche. Cfr. quanto ho scritto sull’immaginario gnostico in Immagini del vuoto, Liguori, Napoli 1989 e in Piccole apocalissi, Raffaello Cortina, Milano 1991.

(3) Cfr. I. Pappé, La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati, Fazi, Roma 2022.

(4) Preve si riferisce qui in particolare ai bombardamenti terroristici alleati sulle città tedesche quando l’esito della guerra era già deciso e alle bombe atomiche sul Giappone (finalizzate a terrorizzare i sovietici più che un Giappone già in ginocchio). Ma a negare la pretesa “unicità” del genocidio nazista ai danni del popolo ebraico sono in molti: vedi, fra gli altri, il libro di L. Pegoraro sui genocidi dei popoli originari da parte delle potenze coloniali occidentali (I dannati senza terra. I genocidi dei popoli indigeni in Nord America e in Australia, Meltemi, Milano 2019); vedi le riflessioni che Domenico Losurdo ha compiuto in diverse occasioni sull’aggressione nazista all’Unione Sovietica e sulle caratteristiche che la accomunano alle imprese criminali del colonialismo occidentale (spagnolo, inglese, olandese, portoghese, ecc.); vedi infine le riflessioni di Aimé Césaire nel suo Discorso sul colonialismo (ombre corte, Verona 2020) in cui l’autore antillano scrive che a risultare intollerabile agli occhi dei razzisti occidentali era il fatto che il razzismo hitleriano si rivolgeva contro popoli bianchi.

(5) Un interessante dossier sul pesante condizionamento che il complesso di colpa associato allo sterminio degli ebrei esercita tuttora sul popolo tedesco e sulla politica interna ed estera della Germania, bloccando a priori qualsiasi possibilità di un’autonoma visione geopolitica di quel Paese si trova nel numero 6 (giugno 2024) della rivista “Limes”, “La Germania senza qualità”.

(6) L’assoluta acquiescenza dell’Europa nei confronti dei diktat statunitensi si è manifestata in modo clamoroso nella doppia morale che l’Unione Europea ha adottato nei confronti della guerra ucraina, dove le vittime degli attacchi russi (che nel caso delle guerre imperiali americane erano “danni collaterali”) sono sistematicamente denunciate come “crimini di guerra”, mentre l’osceno sterminio perpetrato da Israele contro il popolo palestinese viene blandamente criticato come “eccesso di reazione”.

(7) Uno dei bersagli preferiti della rabbia di Preve nei confronti degli intellettuali “ di sinistra” che condannano senza se e senza ma il secolo delle rivoluzioni è Marco Revelli (vedi il suo Oltre il Novecento, Einaudi, Torino 2001).

(8) Questa sacrosanta identificazione fra apologia della modernità (ampiamente condivisa dalle sinistre occidentali, comunisti compresi) e apologia del modo di produzione capitalistico rinvia alla critica di Preve nei confronti della categoria del progresso e più in generale dell’infatuazione di sinistra per lo sviluppo in generale e lo sviluppo scientifico e tecnologico in particolare.Tuttavia, come vedremo nella parte finale di questo articolo, questa postura critica cede talvolta a una certa influenza dello storicismo hegeliano – ancorché negata – sulla visione sostanzialmente illuminista (e idealista) di Preve.

(9) Cfr. A. Zhok, Critica della ragione liberale, Meltemi, Milano 2020.

(10) “La totalità esiste”, scrive Preve, “e coincide con la riproduzione sistemica unitaria del sistema capitalista. Essa appare tuttavia come molteplicità infinita di individui frammentati al livello della produzione e artificialmente collegati al livello del consumo”. Considero questa frase come una delle più geniali descrizioni dell’essenza del modo di produzione capitalistico, nella misura in cui mette in relazione diretta il processo di disintegrazione sociale (atomismo individuale) con il dominio, impersonale e totalitario ad un tempo, dei rapporti di mercato.

(11) Questa definizione trova riscontro, oltre che nella crescente disaffezione dei cittadini nei confronti dei periodici riti elettorali, nelle analisi dei politologi che parlano ormai apertamente di post democrazia. Cfr., fra gli altri C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2013.

(12) Cfr. G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll., PGRECO, Milano 2012.

(13) Un esempio sconvolgente di questo osceno pedigree razzista è il film Trecento di Zack Snyder (2007) dove gli eroici spartani si scontrano con un esercito persiano di mostri ed esseri deformi tanto assetati di sangue quanto incapaci di combattere (con chiara allusione agli “eroici” soldati americani armati fino ai denti contro i “barbari” iracheni votati al massacro). Questa la versione pop, quanto alla versione sofisticata vedi quanto ho scritto ne Il socialismo è morto. Viva il socialismo (Meltemi, Milano 2019) ironizzando su un articolo del filosofo Roberto Esposito che celebra l’esclusivo “copyright” europeo sul pensiero filosofico (pp. 187 e segg.).

(14) Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.

(15) Cfr. L. Boltanski, L Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.

(16) Cfr. J. Friedman, Politicamente corretto. Il conformismo culturale come regime, Mimesis, Milano-Udine 2018.

(17) Cfr. N. Fraser, Fortune of Feminism, Verso, New York 2013.

(18) Cfr- C. Formenti, A proposito del cosiddetto capitalismo woke, https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2023/09/a-proposito-del-cosiddetto-capitalismo.html

(19) Vedi, in particolare, Guerra e rivoluzione, vol. I, Le macerie del capitale, Cap. V “Le sinistre del capitale”.

(20) Cfr. fra le altre, N. Fraser, Fortune…, cit., J. Butler, L’alleanza dei corpi, Nottetempo, Milano 2017; J. Crispin, Why I’m not a femminist. A femminist manifesto, Melville House, London 2017; S. Federici, Genere e capitale. Per una rilettura femminista di Marx, DeriveApprodi, Roma 2019.

(21) Cfr. S. Federici, op. cit.

(22) Cfr. A. Negri, Marx oltre Marx, Feltrinelli, Milano 1979.

(23) Mi riferisco alla nota polemica di Marx con il recensore dell’edizione russa del Capitale, nella quale Marx negava di avere voluto fissare le “leggi” dello sviluppo storico universale, ma di essersi limitato a descrivere il processo della nascita del capitalismo in condizioni storiche determinate.

(24) Cfr. Guerra e rivoluzione, cit.. Vedi, in particolare, Vol. II, Elogio dei socialismi imperfetti, capitoli I e III.

(25) Cfr. M. Revelli, op. cit.

(26) Cfr. R. di Leo, L’esperimento profano, Futura, Roma 2011.

(27) In realtà il mito del comunismo come nascita di un uomo nuovo non è una prerogativa staliniana, basti pensare al Principio speranza di E. Bloch (3 voll. Mimesis, Milano-Udine 2019) e all'immagine utopistica del socialismo cubano secondo Ernesto che Guevara.

(28) Cfr. G. Lukacs, Ontologia…, op. cit.

(29) In realtà, come argomenta A. G. Linera in Forma valor y forma comunidad (Traficantes de Suenos, Quito 2015) certe comunità originarie latinoamericane forniscono assai più della prova che la proprietà privata non è insita nella natura umana: forniscono, come già argomentava J. C. Mariategui (cfr. Sette saggi sulla realtà peruviana e altri scritti, Einaudi, Torino 1972) la prova dell’esistenza di forme sociali che potrebbero transitare al socialismo senza passare dalle forche caudine del capitalismo (per dirla con Marx quando discuteva con la Zasulic in merito alla stessa possibilità per l’obscina russa).

(30) Cfr. L. Althusser, Per Marx, Mimesis, Milano-Udine 2008.

(31) Cfr. C. Formenti, Ombre rosse. Saggi su Lukács e altre eresie, Meltemi, Milano 2022.

(32) Cfr. G. Lukacs, Ontologia, cit.

(33) Vedi nota 19.

(34) Cfr. C. Formenti, A proposito del proletariato esterno. Meriti e limiti del pensiero di Zitara, https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2024/04/a-proposito-del-proletariato-esterno.html

(35) Cfr. E. Dussel, L’ultimo Marx, Manifestolibri, Roma 2009.

(36) Cabral teorizzava che la rivoluzione di liberazione nazionale, per avviarsi verso il socialismo, avrebbe dovuto attraversare tre fasi: nella prima vi sarebbe stata la rivoluzione della classe-nazione contro il colonialismo; nella seconda, le differenze di classe sarebbero emerse e divenute più evidenti nella società postcoloniale; nella terza, vi sarebbe stata una rivoluzione socialista nella rivoluzione, attraverso la quale le masse avrebbero eliminato le differenze di classe. Questo terzo passaggio richiedeva che la piccola borghesia che era stata l’avanguardia del movimento per l’indipendenza si suicidasse in quanto classe. Se ciò non fosse avvenuto, la rivoluzione sarebbe degenerata in statalismo autoritario o capitalismo di stato.

(37) Negli anni in cui si apprestava a imporre la svolta della NEP Lenin teorizzò, contro le tesi dei bolscevichi “di sinistra”, che il capitalismo di stato della Russia sovietica non poteva essere confuso con il capitalismo di stato dei Paesi occidentali e, in un discorso del 1918 (citato da Vladimiro Giacché in Economia della rivoluzione, una raccolta di testi leniniani da lui curata per il Saggiatore), affermò: “Noi sappiamo quanto sia difficile la strada che porta dal capitalismo al socialismo, ma abbiamo il dovere di dire che la nostra repubblica dei soviet è socialista, perché noi ci siamo avviati su questo cammino. Si ha dunque ragione di dire che il nostro Stato è una repubblica socialista dei soviet”. Come si vede si tratta di una posizione non lontana da quella dei dirigenti cinesi post maoisti e in palese contrasto con il “purismo” ideologico di Preve.

(38) Cfr. op. cit.

Fonte

21/01/2024

Hegel: un ”cane morto” molto vivace. Intervista a Vladimiro Giacché

di Luca Cangianti

Nel “Poscritto alla seconda edizione” del Capitale Marx stigmatizzava la generale disposizione a trattare Hegel da «cane morto», si professava suo discepolo ed evidenziava l’imprescindibile necessità della dialettica per afferrare il funzionamento del modo di produzione capitalistico. Tuttavia, se in Marx vediamo la dialettica al lavoro, rimane pur sempre aperta la questione di che cosa sia nello specifico. Certo, ci si può rivolgere direttamente a Hegel per togliersi la curiosità, ma il pensiero di questo filosofo è notoriamente esposto con un linguaggio spesso oscuro. Per accostarci a questo pensatore, quindi, un’opera come Hegel. La dialettica di Vladimiro Giacché (Diarkos, 2023, pp. 240, € 18,00) risulta di grande utilità. Nella nuova edizione (la prima era uscita nel 2020 in piena pandemia), l’autore ha ulteriormente semplificato il linguaggio (in verità già ampiamente chiaro), arricchito la parte antologica e aggiornato i riferimenti alle nuove edizioni critiche.

LC – Hegel viene considerato da molti il filosofo della reazione prussiana. Eppure da giovane scrive opere sovversive (che si guarda bene dal pubblicare), sostiene la necessità dell’abolizione dello stato e manda alle stampe testi politici anonimi. Poi, nel corso di tutta la vita, intreccia rapporti con rivoluzionari, liberali ed ebrei fino ad aiutare un prigioniero politico. Insomma, che tipo di filosofia è quella di Hegel? Ha ragione Marx a ritenerla rivoluzionaria o di contro Popper a sostenere che fosse reazionaria?

VG – Popper sicuramente non ha ragione. Di contro alle opere giovanili e a quanto contenuto nelle lettere, è vero che nei volumi pubblicati e specialmente nella Filosofia del diritto si avverte un adeguamento alla situazione politica vigente. Ma il tema va affrontato in termini più filosofici che politici. Il problema è come interpretiamo il rapporto tra razionale e reale. Come noto, per Hegel «ciò che è reale è razionale”. Ma questo non significa affatto che tutto ciò che esiste, per il fatto stesso di esistere, sia razionale. Uno stato cattivo può ben esistere, ma per Hegel è “non-vero”, cioè inadeguato, imperfetto. Inoltre – Engels lo ha spiegato molto bene – il nesso realtà-razionalità in Hegel non può esser considerato in termini statici: in questo senso si può dire che era razionale il feudalesimo, ma anche il capitalismo che l’ha sostituito. La filosofia di Hegel è basata sulla processualità delle cose e sulla realtà della contraddizione. Questa non è un fallimento del pensiero, ma una sfida per il pensiero, che deve essere capace di comprenderla. Una filosofia del genere non si presta a giustificare un ordine economico e giuridico immutabile. Alla base del pensiero hegeliano c’è l’inquietudine.

LC – Nel tuo libro sottolinei l’importanza attribuita dalla filosofia hegeliana alla «capacità del soggetto di essere una struttura autocentrata, in grado di conservarsi e mantenersi in unità con sé nel rapporto con l’esterno» e noti come la Fenomenologia dello spirito sia stata pubblicata in Germania proprio quando erano diffusi i romanzi di formazione. In «queste opere letterarie – sostieni – veniva descritto il duro e necessario cammino, costellato di difficoltà e sconfitte, attraverso cui il protagonista della narrazione poteva infine giungere alla conquista della verità su se stesso e sulla vita.» Queste affermazioni mi fanno tornare in mente il viaggio dell’eroe così come concepito da Joseph Campbell e Christopher Vogler, ma anche da Carl Jung. Sono similitudini che vedo solo io o c’è qualcosa di più sostanziale?

VG – Hegel definiva i filosofi come «eroi della ragione pensante» e la stessa struttura della Fenomenologia è debitrice al modello letterario dei romanzi di formazione, quali il Wilhelm Meister di Goethe e l’Heinrich von Ofterdingen di Novalis. Bisogna tuttavia fare tre precisazioni.
La prima: la riflessione di Hegel è focalizzata sul concetto di soggettività e ha come riferimenti storici in primo luogo fonti filosofiche: Kant – che rivendica alla centralità del soggetto il processo conoscitivo -, l’irriducibilità dell’Io fichtiano e in misura minore la nostalgia romantica nei confronti dell’assoluto; in questo contesto per Hegel il soggetto (sia esso un essere umano, un organismo vivente o un sistema politico) è ciò che fa perno su di sé nel rapporto con l’altro, è la capacità di confrontarsi con il mondo esterno senza venire sopraffatti e senza perdere la propria identità; è questo che Hegel definisce «essere presso di sé nell’altro».
Seconda precisazione: Hegel non è un filosofo dell’originario. Per filosofia dell’originario intendo quelle concezioni che presuppongono una perfezione originaria perduta e da recuperare: alla fine del viaggio l’eroe si limita insomma a recuperare qualcosa che aveva perduto. Il ritorno di Hegel, invece, non è un vero ritorno, perché è il raggiungimento di una situazione più ricca. In una delle sue lezioni Hegel paragona l’idea assoluta (il punto d’arrivo della Scienza della logica) «al vecchio che pronuncia le stesse frasi religiose del fanciullo, ma per lui queste frasi hanno il significato di tutta quanta la sua vita». L’attenzione di Hegel non è rivolta al punto di partenza, ma al punto di arrivo, in quanto questo comprende in sé tutto il percorso compiuto: «l’interesse – afferma – sta nell’intero movimento».

LC – Insomma, il viaggio del soggetto hegeliano sembra un viaggio che non finisce, che, guarda caso, assomiglia agli itinerari più eterodossi della narratologia, quelli in cui l’eroe non torna a casa a restaurare l’ordine sconvolto dall’incidente scatenante, ma riparte per nuove avventure come l’Ulisse dantesco e il Che. Adesso però non dobbiamo dimenticarci della terza precisazione che avevi annunciato.

VG – Certo, si tratta di una caratteristica della soggettività hegeliana che non è in linea con molte tendenze contemporanee: il soggetto per Hegel non è un’entità ricombinabile a piacimento; l’autocoscienza nel suo confronto vincente con il mondo esterno non può plasmarsi fisicamente, psicologicamente, culturalmente a piacere. L’idea di un’identità indefinitamente plasmabile è estranea all’orizzonte hegeliano. Il soggetto hegeliano non è qualcosa di immobile, si evolve e cresce nel confronto e nello scontro con la realtà. Ma non è liquido.

LC – Tu, anche per motivi professionali, ti sei occupato molto di economia, anzi direi che sei più conosciuto come economista, malgrado la tua originaria formazione filosofica. In cosa può esser utile Hegel in una disciplina apparentemente così prosaica?

Non esiste un’economia hegeliana, anche se Hegel nella Filosofia del diritto si è occupato di questa disciplina studiando Adam Smith, riflettendo sul pauperismo e sulla società civile. Per rispondere alla tua domanda, tuttavia, bisogna tornare al nucleo della sua filosofia, al suo modo di pensare: Hegel offre un metodo che consente di reagire produttivamente alla sfida della complessità, quando le variabili in gioco sono molte, gli interessi in ballo molteplici, la linea causale non unica né univoca. Questo pensatore si trovava poco a suo agio con la meccanica newtoniana del suo tempo proprio perché il suo metodo alludeva ante litteram alla cibernetica, alla considerazione di dinamiche di azione e reazione, di correlazione tra quantitativo e qualitativo. Tutti strumenti concettuali ancora validi. Faccio un esempio: nelle crisi che abbiamo vissuto, prima del 2008 e poi del 2011, il sistema produttivo italiano ha avuto un cambiamento quantitativamente importante riducendosi di un quarto. Ciò ha provocato un mutamento qualitativo che impedisce ormai di riferirsi a questa formazione economico-sociale negli stessi termini di prima. La morfologia economica dell’Italia è ormai sostanzialmente differente rispetto a 15 anni fa. Un altro esempio: tutta l’insistenza sull’austerità e sul debito pubblico elevato che necessiterebbe di restrizioni di bilancio per contenere il deficit è profondamente anti-dialettica. Non considera infatti che la restrizione di bilancio può ridurre il denominatore, cioè la crescita, più del numeratore. Poi ci si sorprende (almeno chi è in buona fede) che alla fine della “cura” il debito sia aumentato! Non si capisce che ci sono delle interdipendenze che trascurate possono avere effetti opposti a quelli perseguiti.

LC – Nella storia del marxismo abbiamo avuto pensatori che hanno riconosciuto il debito di Marx nei confronti di Hegel e altri che lo hanno negato. Come si spiega questa divergenza di giudizio?

VG – Questi posizionamenti vanno collocati nella cultura del tempo. Le letture antihegeliane di Marx in Italia nascono come una critica alle correnti marxiste influenzate dallo storicismo crociano; in Francia nascevano da una forte egemonia dello strutturalismo, evidente in Althusser per esempio. C’erano inoltre elementi di critica politica nei confronti dei rispettivi partiti comunisti, sia in Italia che in Francia, ritenuti colpevoli di aver assorbito nelle loro culture politiche impostazioni storicistiche e umanistiche considerate sbagliate. In verità, al netto di queste considerazioni, non vanno dimenticate due cose: in primo luogo Marx – dopo la critica giovanile agli esiti politici dell’hegelismo di destra – nei Grundrisse e nel Capitale utilizza una quantità impressionante di strutture concettuali hegeliane; in secondo luogo, ritiene che gli strumenti teorici offerti da Hegel, in particolare in riferimento al concetto di soggettività, siano utili a illustrare l’automovimento del capitale, la sua struttura e la sua articolazione. Per Marx Hegel è stato decisivo per leggere la realtà economica in opposizione all’economia borghese del suo tempo. Ecco perché Lenin nei Quaderni filosofici diceva che se non si capisce Hegel non si capisce nemmeno Marx. E qui voglio infine ricordare Brecht che nel Me-ti definiva la dialettica come il «Grande Metodo»: un metodo che «permette di riconoscere nelle cose dei processi» e che «insegna a porre delle domande che rendono possibile l’azione». Trovo questa definizione di grande importanza, perché fa emergere come alla dialettica sia inerente un elemento intrinsecamente trasformativo.

Fonte