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27/06/2024

Presidenziali iraniane, il terzo uomo

Orgoglioso dell’origine azera il settantenne Masoud Pezeshkian è il candidato che l’elettorato interno e l’opinione pubblica internazionale non s’aspettavano. Invece il ‘Consiglio dei Guardiani’, l’organo che vigila e seleziona le candidature e ha scelto i sei sfidanti per la carica di presidente della Repubblica Islamica iraniana (si vota il 28 giugno) non solo l’ha inserito nel gruppo, ma non ne limita la campagna elettorale. I Guardiani non brillano per terzietà però una volta proposti i contendenti non interferiscono granché. Solo che fra i pretendenti alla carica, seconda in gerarchia solo a quella della Guida Suprema, Pezeshkian risulta un elemento ben distante dagli altri cinque, tutti conservatori, quattro laici e un chierico. Lui è un riformista, non proprio il Mousavi d’un quindicennio addietro, sicuramente non un ‘principalista’.

Il suo passato è legato agli studi in medicina che, durante il buio periodo di guerra contro l’Iraq, gli ha offerto la possibilità di entrare nelle squadre mediche, gente che serviva la prima linea ma non stava sotto le bombe e i gas di Saddam. Di quell’epoca Masoud può sfoggiare la foto in divisa da combattente, certo non rivendicare un passato da perfetto basij come Jalili, il ‘martire vivente’ con tanto di menomazione d’un arto. Ma della serietà nella vita privata Pezeshkian si fa vanto: ha cresciuto la prole dopo la morte prematura della consorte, ha conservato lutto e fedeltà nella vedovanza, ha adempiuto ai doveri paterni nonostante i molteplici impegni professionali di chirurgo presso l’Università di Scienze mediche Tabriz.

Tradizione e osservanza dei costumi islamici riguardo alla famiglia colpiscono l’elettorato conservatore che potrebbe passare sopra ai suoi orientamenti riformisti. Nati trent’anni fa quando fu viceministro e poi ministro della Salute durante la presidenza di Khatami. Nel 2009, criticando la repressione delle proteste dell’Onda Verde, s’inimicò l’intero fronte conservatore, clericale e laico. Eppure ha continuato a essere eletto nel Majlis, ha sostenuto le aperture per l’accordo nucleare di Rohani nel 2015 e di recente ha criticato la nuova repressione delle rivolte giovanili che denunciavano l’assassinio di Masha Amini.

Estraneo ad appartenenze claniste, chi si stupisce che in questa fase di rigido controllo sulla rappresentanza politica un elemento come Pezeshkian possa calamitare voti fuori dal coro (si vocifera che i fan di Ahmadinejad convoglierebbero le preferenze su di lui per sparigliare il campo e ostacolare la coppia dei favoriti Jalili e Ghalibaf) può trovare nella sua dedizione a Khamenei l’ancoraggio nel sestetto che si gioca la presidenza. Una duplice fede: al ruolo di Guida Suprema, che il riformismo radicale vorrebbe cancellare o ridimensionare insieme al superpotere del velayat-e faqih, e alla persona nonostante l’età, nonostante l’ipotesi d’un “pensionamento”. Il motivo del sentimento sarebbe la comune radice etnica azera, magari lo stesso grande vecchio guarda con occhio benevolo questo candidato spurio, dato tutt’al più per out-sider.

Proprio in apertura di campagna elettorale Pezeshkian s’è rivolto alle minoranze etniche come fattore aggregante per recuperare il voto dei numerosissimi astensionisti nelle aree del nord-ovest del Paese, dove più dura e partecipata era la protesta dell’ultimo biennio. Esiste ovviamente un rovescio della medaglia: messa sul piano etnico la propaganda fa voltare le spalle ai persiani che si ritengono il fulcro della nazione, specie nelle aree rurali.

Secondo i politologi la debolezza di Pezeshkian riguarda alcuni punti nodali della politica economica. Il candidato insiste nel richiedere aperture a capitali stranieri, ma quelli occidentali sono da tempo bloccati dal noto embargo, gli asiatici risentono degli orientamenti d’una geopolitica oscillante e per nulla lineare, proprio gli investimenti del colosso cinese che vanno e vengono starebbero a dimostralo.

Insomma Masoud ci prova, occorrerà vedere chi userà chi. La sua presenza attirerà senz’altro più elettori, e questa è la mossa usata dal “Consiglio dei Guardiani” per aumentare la partecipazione al voto. Ma la disillusione popolare verso il riformismo è elevata e il fronte principalista è attrezzato a evitare sorprese.

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Bolivia - Tentativo di colpo di stato in corso. Arce ed Evo Morales chiamano alla mobilitazione popolare

Ultim’ora: il tentato colpo di Stato in Bolivia è stato neutralizzato, dopo la denuncia fatta dal presidente Luis Arce e la mobilitazione popolare in difesa della democrazia del paese.

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Il governo boliviano ha denunciato oggi un tentativo di colpo di Stato. Il presidente boliviano Luis Arce ha lanciato un appello alla popolazione: “Abbiamo bisogno che il popolo boliviano si organizzi e si mobiliti contro il colpo di Stato e a favore della democrazia. Non possiamo permettere che i tentativi di colpo di stato tolgano ancora una volta vite ai boliviani. Vogliamo esortare tutti a difendere la democrazia e qui siamo fermi a Casa Grande con tutto il governo, con le nostre organizzazioni sociali. Salutiamo le organizzazioni sociali e le invitiamo cordialmente a mostrare ancora una volta la via della democrazia al popolo boliviano”.

La Centrale dei Lavoratori Boliviani (COB) ha dichiarato uno sciopero generale a tempo indeterminato a partire da oggi, in segno di rifiuto del tentativo di colpo di Stato contro il governo del presidente Luis Arce. L’organizzazione ha anche chiesto il trasferimento di tutte le organizzazioni sociali e sindacali nella città di La Paz, sede del governo boliviano, al fine di difendere e chiedere il ripristino dell’ordine costituzionale

Arce ha denunciato oggi movimenti irregolari dei membri dell’esercito, mentre le forze militari hanno chiuso piazza Murillo, a La Paz. “Denunciamo le mobilitazioni irregolari di alcune unità dell’esercito boliviano. La democrazia va rispettata”, ha denunciato il Capo dello Stato su X.

In precedenza, l’ex presidente Evo Morales aveva denunciato nella giornata di oggi un concentramento delle forze armate e del personale militare in piazza Murillo a La Paz. “Da un’ora a questa parte, i comandanti di divisione hanno dato istruzioni ai comandanti di reggimento di tornare immediatamente alle loro caserme in attesa di nuove disposizioni (acquartieramento). Questo solleva molti sospetti sul movimento militare in Bolivia”, ha scritto sul suo account X.

Carri armati e personale militare erano di stanza intorno al palazzo del governo, non si conoscono ancora informazioni ufficiali sulla situazione.

Il comandante generale dell’esercito, Juan José Zúñiga, si è recato sul posto con un carro armato. Zúñiga è entrato nel Palazzo del Governo e ha affermato che tutte le forze sono mobilitate, chiedendo un cambio totale di governo. Poi è tornato all’interno del carro armato parcheggiato in Plaza Murillo.

Il Presidente Luis Arce ha fronteggiato i militari entrati nel palazzo ordinandogli di ritirarsi . “Zúñiga, sei ancora in tempo”, ha fatto appello il ministro del Governo, Eduardo del Castillo, arrivato sul posto per lamentarsi con l’alto ufficiale.

Alle 15:01, Evo Morales ha scritto di nuovo su X e ha dichiarato che “si sta preparando un colpo di stato”. “In questo momento, il personale delle forze armate e i carri armati sono schierati in Plaza Murillo. Hanno convocato una riunione di emergenza alle 15:00 presso lo Stato Maggiore dell’Esercito a Miraflores in uniforme da combattimento. Facciamo appello ai movimenti sociali delle campagne e delle città per difendere la democrazia”, ha scritto.

Dopo le dichiarazioni del Comandante Generale dell’Esercito, Juan José Zúñiga, quando ha detto che le Forze Armate avrebbero arrestato l’ex Presidente Evo Morales se si fosse candidato ancora una volta, il presidente del Senato, Andrónico Rodríguez, ha detto che un generale non può esprimersi in questo modo e ha indicato una ristrutturazione delle Forze Armate.

“Siamo preoccupati per alcune azioni da parte di alcuni elementi della polizia e delle forze armate boliviane, non solo ora, ma dal 2019. Penso che sia importante che queste due istituzioni dirigano definitivamente il loro orizzonte per adempiere al loro ruolo fondamentale, in conformità con la Costituzione, (...) per una vera ristrutturazione o rifondazione di queste due istituzioni”, ha detto Rodríguez ai media mercoledì.

Martedì, Zúñiga, nel programma No Mentirás, aveva affermato che, se necessario, le forze armate arresteranno Morales se tenterà di candidarsi di nuovo alla presidenza.

“Quel signore non può più essere presidente di questo paese (...). È legalmente squalificato. La Costituzione dice che non può essere (presidente) per più di due mandati e l’uomo è già stato rieletto per tre, quattro mandati; le Forze Armate hanno la missione di far rispettare la Costituzione politica dello Stato”, ha spiegato il generale Zuniga.

Le sue parole sono state interpretate da una parte dell’ala evista del Movimento Verso il Socialismo (MAS) come una minaccia diretta a Morales.

“Siamo preoccupati che alcuni elementi forniscano dichiarazioni con un senso di interferenza politica (...), sono state espresse questioni politiche come se fosse un leader incline a un partito politico contro un cittadino”, ha replicato il presidente del Senato Andrónico Rodríguez

Secondo Rodríguez, “nessun elemento delle Forze Armate” può esprimersi con tanta leggerezza su questioni così delicate.

Allo stesso modo, il senatore ha messo in dubbio l’operato della Polizia, dal momento che, nelle ultime settimane, l’ala evista ha denunciato l’esistenza del cosiddetto “Piano Boquerón”; attraverso il quale si intende, presumibilmente, reprimere con la forza i tentativi di mobilitazione del MAS evista. “La polizia boliviana è destinata a garantire la sicurezza interna dei cittadini; le Forze Armate, la sicurezza esterna (...), ma questo non si vede”, ha denunciato Rodriguez.

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26/06/2024

The wicker man (1973) di Robin Hardy - Richiesta

Synchronicity, l'apoteosi finale di tre musicisti in conflitto

A sleep trance, a dream dance
A shared romance
Synchronicity

Toccare il vertice per poi dissolversi poco dopo. Un copione non raro nella storia del rock e riproposto, con sincronismo perfetto, anche nel caso dei Police. Una band che non ha mai voluto ripetersi, pur avendo tutte le carte in regola per farlo con successo, e che ha preferito abbandonare la scena al top della popolarità. Senza mai più neanche riprendere in esame l’idea di tornare. O forse fu proprio la tensione ormai allo spasmo tra i membri del trio londinese a produrre lo scatto finale, quello che consentì a Sting, Stewart Copeland e Andy Summers di completare la loro parabola, di coronare tutte le intuizioni precedenti nel loro lavoro più maturo e futuristico, quello di maggior successo e quello che probabilmente regge anche meglio la prova del tempo. Il disco perfetto, privo anche di quei piccoli filler o punti deboli che avevano minato i pur ragguardevoli predecessori. Perché non c’è una sola nota inutile, in “Synchronicity”: dall’assalto travolgente dell’ouverture alla dissolvenza finale di “Tea In The Sahara”. Poco di più di 44 minuti di musica dinamica, tecnologica, abbagliante. Oggi, come quel 17 giugno 1983 in cui quel caleidoscopio di suoni e di colori (vedasi copertina) invase i negozi di tutto il mondo. Esattamente 41 anni fa.

Separati in casa (e in copertina)

Riascoltato a distanza di quattro decenni, “Synchronicity” mantiene tutta la sua scorza luccicante, associata a suoni tutt’altro che convenzionali o facili, anche nelle declinazioni più melodiche. È al tempo stesso il lavoro più commerciale e più “art rock” dei Police, ormai allontanatisi quasi definitivamente dalla formula-base reggae-rock che ne aveva fatto le fortune agli esordi. Niente più sfide con i Clash, niente più Police on my back. Mettendo a frutto l’intelligente evoluzione già portata a termine nel precedente – e ottimo – “Ghost In The Machine”, i Police smussano ulteriormente gli spigoli, con sonorità più morbide e tondeggianti ma anche più stratificate e complesse, nelle quali guadagnano terreno sempre più i sintetizzatori, a partire dal Synclavier e dall’Oberheim, programmato personalmente da Sting, mentre Summers processa le sue chitarre tramite un guitar synth GR300 della Roland e Copeland lavora sulla ritmica dei sequencer. Alla fine nei credits l’alternanza risulterà sintetizzata in “all noises by The Police” ma di collettivo, ormai, era rimasto ben poco. Più che le differenze di background sonoro – l’ex-prof Sting con le sue quattro corde forgiate dal jazz, l’americano Copeland ex-Curved Air più affine a quel prog bazzicato anche dal chitarrista Summers – a dividere i tre era la lotta per il predominio nel gruppo, con il leader sempre più insofferente alle obiezioni del batterista e il buon Summers ormai stanco di mediare. “In quell’epoca Sting e Stewart si odiavano a vicenda e Andy, pur non mostrando altrettanto veleno, poteva essere piuttosto scontroso, c’erano scontri sia verbali che fisici”, ricorderà il produttore Hugh Padgham. Così, al culmine di quella Policemania che li aveva accompagnati in quattro estenuanti anni di tour in cui avevano conquistato gli stadi e anche l’America, i tre erano giunti al punto di rottura.

Registrato nell’eden caraibico dell’isola di Montserrat, all’interno degli Air Studios di George Martin, “Synchronicity” è dunque l’opera di tre separati in casa. Anche materialmente: Sting incide le sue parti nella sala di controllo alla presenza di Padgham, Summers nell’area ricreativa e Copeland in sala da pranzo al piano superiore. Non solo: persino la copertina riflette la tripartizione con le sue tre strisce orizzontali di foto in bianco e nero dedicate ognuna a uno dei musicisti, evidenziate da colori diversi tra fronte e retro: Sting in giallo – e in blu sulla back cover – sotto di lui Copeland in blu e infine Summers in rosso (ma le combinazioni cambiano nelle varie versioni, sia per i colori che per la posizione dei tre: ne sono state stampate ben 36 differenti, addirittura 93 secondo Goldmine Record Album Price Guide!).
Di univoco c’è invece lo spunto di base, dettato da Sting: il concetto di “sincronicità” teorizzato da Carl Gustav Jung, secondo il quale alcuni eventi contemporanei che appaiono come mere coincidenze sono in realtà collegati attraverso il loro significato. L’ex-professore di Wallsend lo aveva filtrato attraverso la lettura di un libro di parapsicologia di Arthur Koestler (“Le radici del caso”), ovvero colui che aveva già ispirato il titolo di “Ghost In The Machine” (dalla sua opera tradotta in italiano come “Il fantasma dentro la macchina”). Quasi un concept per un disco che però spazia tra tematiche diverse, unite forse solo da un senso di inquietudine e di ansia per il futuro.

I brani

Se il Fantasma nella Macchina aveva già asciugato e reso più astratto il caldo reggae-rock degli esordi, “Synchronicity” lo raffredda ulteriormente, all’interno di una gelida confezione sintetica e tecnologica, in cui il taglia e cuci in studio assume un ruolo mai così rilevante, ma in cui resta intatta tutta la potenza primordiale del sound dei Police. È così un’esplosione deflagrante ad accogliere l’ascoltatore in "Synchronicity I": un’autentica frustata fin dall'intro di synth scandita dai poliritmi martellanti e nevrotici di Copeland e poi impreziosita dai barrage e dagli arpeggi di un Summers in formato Fripp, mentre Sting si addentra nei meandri delle teorie psicologiche junghiane: “A connecting principle/ Linked to the invisible/ Almost imperceptible/ Something inexpressible/ Science insusceptible”. È lo splendido incipit di un lato A ad alto tasso di sperimentazione che sovverte i soliti dogmi commerciali, basati su un'apertura più immediata e qualche concessione alla ricerca in coda.

La successiva "Walking In Your Footsteps" ci trascina su ritmi di elettronica tribale, tra le percussioni synth di Copeland e le svisate sottili di chitarra di Summers, in una giungla densa di vapori africani ed echi animaleschi, compiendo un beffardo parallelo tra uomini e dinosauri (“Hey Mr. Dinosaur, you really couldn't ask for more/ you were God's favourite creature, but you dind't have a future”), con lo spettro di una incombente catastrofe nucleare – l'ossessione numero uno della new wave tutta – a prefigurare una nuova estinzione (“if we explode the atom bomb”).

La funkeggiante "O My God" riprende il tema della solitudine nella folla tanto caro al primo Sting, in una dimensione ormai da perfetto songwriter pop. Con un basso che a tratti richiama quello di Paul McCartney in "Daytripper", Gordon Sumner descrive progressioni armoniche ottimamente sostenute dal solito grande drumming sferragliante e dalle ondate di marea di una chitarra iper-flangerata, permettendosi anche di disegnare col sax un finale dissonante di sapore jazzistico.

Decisamente insolita e sicuramente impressionante è la paranoica "Mother", composta e cantata da Summers: un soliloquio isterico, prossimo a territori no wave (o persino a Captain Beefheart) caratterizzato da un frenetico, pazzesco tempo dispari, da uno sfibrante chitarrismo alla Fripp e da un clarino mediorientale, con un canto allucinato e straziante, segnato da una follia disperata degna di Norman Bates. Una sorta di inno semiserio sulle madri oppressive e soffocanti, come – a quanto pare – quella di Andy: “Tutte le ragazze con cui esco alla fine diventano mia madre. Ma non ho bisogno di lei come amica. Bene, io sento mia madre che telefona. Oh mamma cara, per favore ascolta e non divorarmi”. È l'episodio più estremo del disco, quello in cui i Police, con il loro fulminante humor nero, si divertono a sconvolgere chi li ha sempre etichettati come una band da classifica.

La divertente marcia caraibica di "Miss Gradenko", frutto dell'ormai limitato spazio compositivo assegnato a Copeland, è marchiata da un perfetto assolo pentatonico di chitarra e ha un'atmosfera allegra che riporta vagamente al primo Lp, con un testo anti-totalitario, che mescola spy-story e paranoie sovietiche, ispirato da “1984” di Orwell. Un antipasto leggero, prima delle nuove tempestose bordate elettroniche di "Synchronicity II", che chiude la prima facciata psicanalizzando spietatamente la famiglia media. Batteria secca e incessante in levare, basso pulsante, muri di chitarre quasi noise-rock e un canto rabbioso squarciano il velo delle tragedie nascoste nella banalità e nelle desolazioni della vita quotidiana, raccontando il collasso nevrotico di un uomo frustrato da famiglia, lavoro e pressione sociale, mentre un mostro affiora da un lago: sì, proprio quello di Loch Ness (“Many miles away something crawls from the slime/ at the bottom of a dark Scottish lake”).

Il lato B invece, come si diceva, è il vero greatest hits racchiuso nell'album, anche se i temi dei brani restano tutt'altro che leggeri, spesso anzi molto oscuri ed enigmatici. Ad alimentare equivoci sarà anche il più celebre di tutti, il classico dei classici di Sting: "Every Breath You Take" è una non-canzone d’amore morbosa, anzi, stando alle parole del suo autore, “il vero inno degli anni reaganiani”, poiché narra di uno stalker a tal punto ossessionato dalla donna amata da toglierle il respiro, quasi la metafora di una società orwelliana in cui la politica controlla ogni attività e impedisce lo sviluppo di un pensiero libero. È LA canzone pop per eccellenza, quella che si ripete sempre pur incarnandosi in vesti e con autori differenti. Come "Stand By Me" (di cui riprende il giro nella strofa, uno standard incredibilmente trasformato in qualcos'altro irriconoscibile), come "Yesterday", come poche altre canzoni, è capace di essere già nella mente dell'ascoltatore nel momento in cui viene ascoltata per la prima volta, come un archetipo, come un deja vu. E pensare che anche la massima hit dei Police nacque in piena battaglia: con Sting e Copeland addirittura a un passo dallo scontro fisico e il produttore costretto a rielaborarla sovraincidendo alcune parti. Ancora una volta fu però Summers a salvare la baracca: quando Sting portò il brano in studio in versione scarna, solo organo e voce, l’affidò ad Andy dicendogli: “Fanne ciò che vuoi”. E Summers inventò l’immortale riff di chitarra accarezzando le corde con una gomma da cancellare per ottenere quel favoloso stoppato soft. Come raccontò Copeland in un’intervista del 1997: “Senza Andy quella canzone non sarebbe niente”. “Every Breath You Take” sarà anche oggetto di innumerevoli cover, a partire da quella del 1997 (“I'll Be Missing You”) interpretata dal rapper Puff Daddy e dalla cantante Faith Evans in ricordo del marito Notorious B.I.G., ucciso poco tempo prima.

È invece in gran parte farina del sacco del leader la splendida "King Of Pain": introdotta da una monotona nota di tastiera in controtempo, si sviluppa come una rock song su tonalità minori, con un ritornello aperto, i soliti, perfetti, break carichi di tensione, e un ficcante assolo di Summers alla sei corde. È una sorta di elegia della solitudine e dell’impossibilità di affrancarsi dal dolore, nata – si narra – dalla crisi personale vissuta da Sting dopo la fine del suo primo matrimonio. Uno stato psicologico simboleggiato da una macchia nera sul sole (“There's a little black spot on the sun today”) e sublimato in versi di nero pessimismo: “I have stood here inside before the pouring rain/ with the world turning circles runinng round my brain/ I guess I'm always hoping that you'll end this reign/ but it's my destiny to be the king of pain”.

L’elettro-reggae avvolgente di "Wrapped Around Your Finger" è l'ennesimo singolo di successo, ma dietro le tinte solari cela un altro testo criptico, denso di riferimenti letterari e mitologici, che culmina in una sorta di rivalsa e ribaltamento dei ruoli: “Mi consideri il giovane apprendista/ (…) Sono venuto qui solo in cerca di conoscenza/ (…) Ascolterò con attenzione le tue lezioni/ (…) Trasformerò il tuo volto in alabastro/ Quando scoprirai che il tuo servo è il tuo padrone”.

A chiudere in gloria il disco è la storia delle sorelle in eterna attesa di un principe arabo per un "Tea In The Sahara". Quella che secondo Copeland è la “canzone più bella dei Police” si ispira al romanzo “Il tè nel deserto” di Paul Bowles (dal quale Bertolucci trasse l’omonimo film) e si regge su una incredibile chitarra minimale che sembra perdersi in orizzonti sconfinati e ci inonda di sole e sabbia del deserto (è il "wobbing cloud", un effetto inventato da Summers), vaporizzando letteralmente il brano, ancora una volta in combinazione con un charleston sghembo e dal ritmo spezzato.

Nella versione cd dell'album, compare in chiusura anche la ironica "Murder By Numbers", dal testo ancora una volta sinistro sulle dinamiche assassine della politica: un divertente assaggio jazz-rock che vede in combutta Summers e Sting, i due jazzisti del gruppo, nel mettere un piede nel passato e uno nel futuro di entrambi.

“Synchroncity” venderà 16 milioni di copie, spodestando dal n.1 della classifica di Billboard nientedimeno che “Thriller” di Michael Jackson, fino a quel momento l’album più venduto di tutti i tempi. Si aggiudicherà anche 3 Grammy Award nel 1984 (Best Rock Performance, Song of the Year e Best Pop Performance). Il tour mondiale a supporto del disco partirà nell’estate del 1983 e si concluderà il 4 marzo 1984 con un ultimo concerto a Melbourne. Dopo che Sting aveva già debuttato da solista con “The Dream Of The Blue Turtles” (1985) e dopo tre concerti a sostegno del tour di Amnesty International “A Conspiracy of Hope” a giugno del 1986, nel luglio dello stesso anno i Police ci riproveranno in studio. Ma non funzionerà. Impossibile mediare ancora tra contrasti ormai insanabili: “Ero arrivato al punto che se portavo in studio 12 canzoni, volevo che tutte e 12 fossero nel disco, non avevo più voglia di combattere per ogni pezzo”, ammetterà Sting. E così i tre poliziotti prenderanno ognuno la sua strada. Dimostrando però – se si eccettua il primo, ottimo Lp di Sting e qualche esperimento di Copeland – che solo insieme la loro creatività poteva esprimersi al massimo. Peccato.

La riedizione

A quattro decenni dalla sua uscita, "Synchronicity" dei Police sarà ripubblicato il 26 luglio 2024 in numerosi formati, incluso un cofanetto deluxe da 6cd con 55 brani inediti, incluse rare demo di Sting, nuove note di copertina, interviste, memorabilia e fotografie mai viste prima. Un vero tesoro per i fan di Sting, Stewart Copeland e Andy Summers. La ristampa, realizzata con il coinvolgimento diretto della band, ha richiesto tre anni di lavoro. Il libro di 62 pagine incluso nel box contiene nuove e approfondite note di copertina scritte dal noto giornalista musicale Jason Draper, che racconta nei dettagli la nascita del capolavoro dei Police.

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L’Ungheria chiede la revoca dell’immunità parlamentare per Ilaria Salis

Il tribunale di Budapest chiederà al Parlamento europeo di revocare l’immunità parlamentare della neoeletta eurodeputata Ilaria Salis.

La decisione era già stata annunciata alcuni giorni fa dal capo di gabinetto del governo ungherese: “L’autorità ungherese competente dovrebbe chiedere al Parlamento europeo la revoca dell’immunità”.

A riferirlo è il quotidiano online ungherese Index.hu, il quale afferma che il tribunale regionale di Budapest ha annunciato di aver deciso di rivolgersi alla presidenza del Parlamento europeo affinché Strasburgo prenda una decisione sulla sospensione del diritto all’immunità dell’eurodeputata italiana.

La procedura prevede un voto in seduta plenaria per decidere se sospendere o meno l’immunità parlamentare per Ilaria Salis. Facile prevedere che tutti i neofascisti nel Parlamento europeo ne approfitterebbero per cercare di rispedire Ilaria Salis nelle galere ungheresi.

Qualora la richiesta di Budapest venisse approvata, l’Ungheria dovrebbe spiccare un mandato d’arresto europeo nei suoi confronti, che però dovrebbe essere valutato da un tribunale italiano.

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Israele dichiara di aver “quasi vinto” a Rafah, ma la realtà sul campo appare diversa

Forse è molto avventato l’annuncio di Netanyahu secondo cui “La fase intensa dei combattimenti a Rafah è prossima alla fine”. Le sue parole sono state confermate dal capo dell’esercito israeliano il quale ha dichiarato che “Abbiamo quasi smantellato Hamas a Rafah”. Contestualmente le Brigate Al-Qassam, l’ala militare di Hamas, hanno rivelato l’uso di un missile guidato cinese, noto come “Red Arrow” (Freccia Rossa), per colpire un veicolo militare israeliano.

Tra annunci e notizie in contrasto tra loro appare piuttosto ottimistico anche il piano di Israele per il “dopoguerra” a Gaza senza Hamas e che dovrebbe iniziare ad essere attuato nel nord della Striscia nei prossimi giorni. A dichiararlo è stato il consigliere israeliano per la sicurezza nazionale Tzachi Hanegbi, il quale ha affermato che il piano dell’esercito israeliano è stato “affinato” nelle ultime settimane e che “vedremo un’espressione pratica di questo piano” a breve. “Non dobbiamo aspettare che Hamas scompaia, perché si tratta di un processo lungo”, ha detto Hanegbi, sottolineando che l’attuazione di un processo per sostituire Hamas è la chiave per una vittoria a lungo termine a Gaza. “Non possiamo sbarazzarci di Hamas come idea, abbiamo bisogno di un’idea alternativa”, ha detto, precisando che l’alternativa sarebbe un governo basato su persone del posto che siano disposte a vivere a fianco di Israele e che siano sostenute dagli Stati arabi moderati.

Ma è proprio sul piano delle forze in campo che la Resistenza palestinese ha lasciato trapelare una notizia non certo irrilevante.

Lunedì infatti le Brigate Al-Qassam hanno pubblicato un filmato che mostra un veicolo del genio OVIK colpito da un missile cinese guidato “Freccia Rossa” nell’area di Tal Zu’rob, a ovest di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza.

Il Red Arrow è un missile anticarro di seconda generazione, che utilizza un sistema di guida filo-ottico. È dotato di un proiettile anticarro composto da una testata, un razzo a propellente solido e un’unità di controllo collegata alla piattaforma di lancio da un filo per la guida visiva al bersaglio.

Questo missile ha una gittata ad alta precisione da 3 a 4 chilometri ed è stato un componente chiave dell’arsenale dell’Esercito popolare di liberazione cinese dalla fine degli anni ’80.

Un esperto militare, il colonnello Hatem Al-Falahi, ha dichiarato ad Al-Jazeera che il missile Freccia Rossa, introdotto di recente, rappresenta un miglioramento significativo per la resistenza, consentendo loro di colpire veicoli e unità corazzate da distanze fino a 4 chilometri.

Nella sua analisi della situazione militare a Gaza, Al-Falahi ha sottolineato la capacità del missile di colpire efficacemente veicoli e mezzi corazzati, suggerendo che il suo uso indica il possesso da parte della resistenza di armi avanzate volte a colpire le unità militari da lunghe distanze.

Secondo quanto riferito, Al-Falahi ha concluso che l’operazione dimostra una realtà contraria alle dichiarazioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e contesta le affermazioni dei leader militari israeliani su un’imminente vittoria sulle Brigate Al Qassam.

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Guerra in Ucraina - È giallo su drone Usa partito da Sigonella e abbattuto dai russi

A dare notizia dell’abbattimento di un drone Usa sono stati due canali Telegram russi – “Military Informant” e “Fighterbomber” – ripresi dal quotidiano italiano La Stampa.

Per ammissione dello stesso giornale si tratta, nel primo caso, di uno dei canali telegram russi più informati su ciò che avviene nello spazio aereo e nell’aviazione russa. L’articolo cita così quanto riporta il canale : “Un caccia russo MiG-31 ha abbattuto un drone da ricognizione dell’aeronautica americana sul Mar Nero. Presumibilmente si tratta di un drone da ricognizione ad alta quota RQ-4B Global Hawk”. Poco dopo, il canale pubblica un aggiornamento: “Sì, l’incidente è stato ora confermato”.

Pochi minuti prima la stessa notizia era stata riportata dal canale Telegram “Fighterbomber”, ritenuto vicino al comando dell’aeronautica russa: “Congratulazioni a tutti i soggetti coinvolti. Bravi ragazzi! Stiamo aspettando ora l’ok degli Stati Uniti circa le “azioni non professionali. Ora c’è una maggiore turbolenza nel Mar Nero. Vediamo se è una cosa continuativa o se si è trattato di un evento irripetibile”.

Secondo l’articolo de La Stampa, in passato piuttosto raramente questi due canali hanno scritto cose men che informate.

Da fonti statunitensi ufficiali non c’è nessuna conferma dell’abbattimento. L’unica fonte che ne ha parlato, è il corrispondente di Reuters Idris Ali, che segue il Pentagono, citando un rappresentante anonimo del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Idris Ali ha scritto su X che “non si sono verificati incidenti sul Mar Nero” (ma poco dopo, il link che aveva postato risulta cancellato).

La questione è seria per almeno due motivi.

Domenica scorsa le schegge di un missile Atacms fornito dagli Usa, lanciato dagli ucraini sulla Crimea e intercettato dai russi, sono finite sulla spiaggia di Sebastopoli, uccidendo quattro bagnanti – tra cui tre bambini – e ferendone circa 150. Come noto le coordinate di tiro dei missili vengono "aggiunstate" nel corso dell'attacco propri dai droni in volo.

Mosca ha esplicitamente accusato per questo attacco gli Stati Uniti ed ha convocato l’ambasciatore statunitense avvisando che l’evento non sarebbe rimasto senza conseguenze. “Secondo il ministero della Difesa – riporta un comunicato ufficiale della Russia – sono stati usati missili americani Atacms, armati con bombe a grappolo per aumentare la loro letalità. Tutti i dati di volo sono stati inseriti da specialisti Usa sulla base dei loro dati di ricognizione satellitare e un drone da ricognizione americano Global Hawk era in volo nei cieli vicino alla Crimea”.

L’abbattimento diretto del drone – se verrà confermato – segna un salto di qualità, perché nei mesi scorsi l’aviazione russa si era limitata ad accecare un drone Usa con il lancio di carburante. Il drone era stato poi fatto precipitare dai comandi Usa nel Mar Nero per impedirne la cattura.

Il secondo motivo è il coinvolgimento dell’Italia. È infatti risaputo che questo tipo di droni vengono fatti decollare spesso dalla base italiana di Sigonella. Stando ai dati di Flightradar, negli ultimi due giorni solo un drone americano Global Hawk ha sorvolato il Mar Nero. Intorno alle 9 (ora di Mosca) di domenica 23 giugno – il giorno dell’attacco missilistico sulla Crimea – il drone è apparso sul radar nell’area dell’aeroporto militare di Sigonella, ma alle 6 del 24 giugno (ossia la mattina presto di lunedì) è regolarmente rientrato alla base.

Anche il settimanale statunitense Newsweek scrive che gli osservatori della guerra in Ucraina, tra cui l’analista di intelligence Oliver Alexander, hanno sottolineato su X che, nonostante le affermazioni del canale Telegram russo, i dati del radar di volo mostrano che l’ultimo volo visibile del drone spia “si è concluso con un atterraggio sicuro a Sigonella lunedì mattina”.

Rimane il fatto che il ruolo della base militare di Sigonella nell’uso dei droni statunitensi nel conflitto in Ucraina espone il territorio italiano alle possibili ritorsioni della Russia per gli attacchi missilistici sul proprio territorio. Ma i comandi degli Stati Uniti continuano ad utilizzare le loro basi in Italia per le proprie operazioni senza porsi alcun problema.

Il problema andrebbe posto, e seriamente, dall’Italia ma con un governo servile verso Washington come quello in carica appare difficile prevedere note di proteste o misure di protezione del territorio che infastidiscano l’operatività delle forze aeree statunitensi.

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Il Niger revoca la licenza della francese Orano per le miniere di uranio

In un comunicato rilasciato lo scorso giovedì dalla multinazionale Orano viene confermato che il governo del Niger ha ritirato la licenza data a una controllata del colosso francese per lo sfruttamento della miniera di Imouraren. Si tratta di una delle miniere più ricche al mondo.

Le previsioni degli ultimi mesi affermano che, entro il 2040 e per effetto del rinnovato interesse di vari paesi per il nucleare, la domanda annuale di uranio arriverà a 100 mila tonnellate, una quantità doppia rispetto alla capacità estrattiva attuale. A Imouraren si stimano 200 mila tonnellate del prezioso metallo.

Ed è giusto definirlo prezioso metallo perché i prezzi, visto l’incremento della domanda, sono tornati a schizzare verso l’alto. Nel 2020, ogni libbra costava 25 dollari, mentre a inizio 2024 è stato toccato il picco di 106 dollari per libbra.

Anche se ora il valore dell’uranio si è stabilizzato più in basso (intorno agli 85 dollari) è comunque più alto del prezzo che aveva nel 2011, prima del disastro di Fukushima che ne ha poi fatto crollare i prezzi. Un crollo che nel 2015 aveva fermato anche le prospettive di sfruttamento del giacimento di Imouraren.

Infatti, può sembrare paradossale, ma la motivazione della revoca della concessione è la mancata ripresa dei lavori alla miniera. In una nota dell’11 giugno, il ministero delle Miniere di Niamey aveva annunciato il ritiro dei permessi se il sito non fosse entrato in attività entro il 19 giugno.

La Orano ha dichiarato che le infrastrutture sono state riaperte il 4 giugno, per accogliere le squadre di lavoratori. Non viene perciò compresa l’azione del governo nigerino, e infatti si riserva “il diritto di impugnare la decisione di revoca del permesso minerario davanti alle competenti giurisdizioni nazionali o internazionali“.

Anche se questa decisione non ha dunque messo in discussione le attività di estrazione già in essere, essa viene posta in relazione con la rottura diplomatica con gli ex colonizzatori. La giunta militare al potere dal luglio dello scorso anno ha fatto evacuare l’ambasciatore e le truppe francesi.

L’Orano gestisce altre due miniere, ma una è chiusa dal 2021, mentre quella di Somair nella regione settentrionale di Arlit continua a funzionare, seppur con dichiarati problemi logistici. La chiusura della frontiera con il Benin, giustificata dal nuovo governo con ragioni di sicurezza, ostacola l’esportazione della materia prima.

Tutta la situazione rappresenta un duro colpo per Parigi, che tra l’altro con Macron aveva puntato proprio sul rilancio della grandeur da potenza nucleare e geopolitica. Opzione messa progressivamente in crisi dal Niger, dalle proteste contro il sostegno a Israele, dalla ribellione dei kanak e dalle velleità belliciste espresse dall’Eliseo.

Euroatom ha calcolato che, nel 2022, un quarto dell’uranio naturale che arrivava in Europa proveniva dal Niger. Un elemento strategico, dunque, per tutta la UE, soprattutto ora che a Bruxelles vogliono far passare il nucleare per un’alternativa green ai combustibili fossili.

Ma ci sono altri aspetti della vicenda che rimandano alla competizione globale. La società mineraria Azelik, di cui la maggioranza è riconducibile alla Cina, ha annunciato la ripresa dell’estrazione dell’uranio nel nord del paese, dove le attività si erano fermate dopo i fatti Fukushima, data la bassa redditività.

Per quanto riguarda Imouraren, da Al Jazeera alla BBC fino a Bloomberg, la Russia viene subito evocata come un interlocutore a cui Niamey potrebbe affidare il giacimento. Nel maggio scorso Le Monde aveva rivelato che un accordo segreto prevedeva la consegna di 300 tonnellate di yellow cake (concentrato di uranio) all’Iran.

In sostanza, il Niger continua a essere il punto debole dell’imperialismo europeo, e piano piano si sta inserendo in quel mondo multipolare che sta facendo saltare l’egemonia dell’intera catena imperialistica euroatlantica.

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L’Iran cerca il presidente

È l’unico chierico del sestetto che fra due settimane corre per la presidenza iraniana. Mostafa Pourmohammadi, sessantaquattro anni, nato e formatosi nella città santa di Qom, frequentando la ‘Haqqani school’ diretta dagli ayatollah più conservatori del Paese, Yazdi e Taghi. È inserito nell’Associazione del clero combattente, è un politico navigato, già ministro dell’Interno durante il primo mandato di Ahmadinejad quindi responsabile della Giustizia sotto la presidenza di Rohani. Forma con Saeed Jalili già negoziatore per il nucleare e membro del “Consiglio per il discernimento” e Mohammad Bagher Ghalibaf ex sindaco di Teheran, il trio che può giocarsi il ruolo più importante della Repubblica Islamica dopo l’immarcescibile Guida Suprema Ali Khamenei.

L’elezione del 28 giugno deve sanare l’emergenza scaturita dall’inatteso decesso in un incidente aereo del presidente Ebrahim Raisi. La scrematura dei candidati operata, come di prammatica, dal Consiglio dei Guardiani inserisce anche l’attuale sindaco della capitale Alireza Zakani, il capo della Fondazione dei Martiri e dei Veterani Ghazizadeh Hashemi, e il deputato Masoud Pezeshkian, l’unico riformista della compagnìa, un riformista moderato com’è stato Rohani del cui gruppo Pezeshkian faceva parte. Ancora una volta la componente realmente riformatrice non ha figure di riferimento in questa corsa e com’è accaduto a marzo con le parlamentari, si asterrà e boicotterà il voto. Chi si recherà alle urne per convinzione o appartenenza agli orientamenti tradizionalisti espressi dai cinque-sesti dei prescelti all’elezione, punterà sui volti più noti entrambi laici: Jalili e Ghalibaf.

Il cinquantanovenne Jalili è stato un combattente nella guerra contro Saddam, aderiva alle milizie basij che lasciarono sul terreno molte decine di migliaia di morti. Con la menomazione a una gamba porta su di sé la devozione alla nazione e al sistema khomeinista tanto da essersi guadagnato il titolo di “martire vivente”. Nativo di Mashhad ha conseguito il dottorato in Scienze politiche. Vanta un’amplissima esperienza diplomatica iniziata nel 1989 e proseguita, a vario titolo, con diversi presidenti. Nel 2001 ha ricevuto l’investitura di direttore della pianificazione politica della Guida Suprema, un elemento non secondario nel personale curriculum che lo pone vicino alla famiglia Khamenei. Lo stesso Mojtaba, figlio dell’ayatollah, è un suo estimatore politico. La componente ‘neo-principalista’ lo individua come importante figura di riferimento. Si è affacciato in altre due occasioni alle presidenziali: nel 2013 si classificò terzo con oltre quattro milioni di preferenze. Nel 2021 ritirò la candidatura a favore di Raisi poi vincitore.

Altrettanto noto, ma controverso è il personaggio Ghalibaf. Sessantatré anni e anch’egli reduce, ma senza ferite, della guerra Iran-Iraq. È stato a capo delle truppe dell’Imam Reza, a conflitto concluso divenne direttore di un’azienda d’ingegneria controllata dai Pasdaran, un’appartenenza che ha il proprio peso. Nel 2000, in pieno sviluppo di carriera, divenne responsabile delle Forze di polizia, fino a subentrare ad Ahmadinejad, eletto presidente, alla guida della metropoli di Teheran. Si è più volte parlato di lui come possibile Capo di Stato, nella tornata del 2013 raccolse oltre sei milioni di voti, ma non poté nulla contro Rohani capace di fare il pieno di consensi anche dei giovani riformisti, fiduciosi in aperture interne che non ci furono.

Un’ombra ha sempre inseguito Ghalibaf. Una vicenda del 2002 riguardante la moglie Zahara Moshiri e alcuni familiari che riportavano da viaggi all’estero copiosi bagagli con prodotti di lusso. L’accusa, smentita dall’interessato e dagli apparati statali, contrastava con gli inviti del sindaco ai concittadini di acquistare solo merce nazionale. Successivamente l’addebito è stato rafforzato dall’annuncio divulgato da un giornalista iraniano in Turchia dell’acquisto di appartamenti a Istanbul da parte di moglie, figlia e genero di Ghalibaf. Spesa finale 1,6 milioni di dollari.

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Indisciplinabili dal fordismo - Hobos, wobblies e i limiti di Gramsci

Fabrizio Denunzio riflette su come leggere Gramsci oggi, interrogando le positività e le criticità di Americanismo e fordismo e provando a illuminare i processi di formazione di soggettività che, dentro e fuori il fordismo, non si sono lasciate disciplinare dalla logica della produzione tayloristica e che, nella sostanza, lasciano intravedere forme di vita, di lotta e di sindacalismo non riconducibili a quelle che si sono affermate nel movimento operaio europeo tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo.

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Come leggere Gramsci oggi

In almeno due importanti lavori usciti di recente, a poca distanza l’uno dall’altro, Pasquale Serra ci invita a leggere Gramsci in modo molto diverso da quanto si sia fatto negli ultimi decenni, ossia da quando il furore filologico degli esperti – credo databile dagli inizi degli anni Novanta del Novecento e identificabile sempre presuntivamente, visto che l’autore non cita mai esplicitamente gli artefici di questa svolta, con Gianni Francioni e il suo progetto di una nuova edizione nazionale dei Quaderni del carcere – ha preso il sopravvento sul modo abituale con il quale in Italia, tra gli anni Cinquanta e i Settanta del XX secolo, si era solito leggere il pensatore sardo, cioè non allontanandolo mai dall’attualità politico-sociale del paese e da tutti i più scottanti problemi che lo assillavano: dal lavoro in fabbrica all’emigrazione, dal fascismo alla questione meridionale, e così via.

Con la conquista dell’egemonia interpretativa da parte delle ermeneutiche filologiche, il gramscismo italiano si è ridotto a una sapiente quanto ferrea macchina di citazioni avendo oramai abbandonato ogni pretesa analitica della realtà contemporanea. Questo passaggio ha determinato una forma di produzione intellettuale altamente «spoliticizzata» quanto sterilmente «speculativa» (Serra 2019, p. 67), meglio, allora, molto meglio, riprendere la lezione degli argentini per i quali il «loro Gramsci» non ha mai smesso di reagire con le questioni fondamentali del loro tempo, il peronismo prima fra tutte: da qui la decisione di Serra di curare l’edizione italiana del saggio di Horacio Gonzáles Il nostro Gramsci, dalla quale sono ricavabili le precedenti argomentazioni polemiche[1]. Che non sono destinate a finire.

Nel secondo dei due lavori a cui ho appena fatto riferimento, Serra rilancia la polemica, purtroppo lasciando anche questa volta nell’anonimato i suoi bersagli, ma non avrei difficoltà a riconoscervi, come esempi illustrativi, i lavori di un Giuseppe Cospito (2004, pp. 74-92) o di un Fabio Frosini (2004, pp- 93-11). Introducendo nel 2024 un paio di scritti giovanili di Mario Tronti su Gramsci, Serra torna a ribadire con forza non solo il vuoto carattere speculativo della nostrana recezione gramsciana degli ultimi tempi, ma anche la separazione programmatica tra filologia e rivoluzione, «presupponendo una sorta di antecedenza del discorso filologico sull’analisi politica del presente» (Serra 2024, p. 6).

Ora, le due introduzioni, a distanza di pochi anni, accanto alla conferma dello stato regressivo in cui versa il filologico gramscismo italiano, presentano anche degli indirizzi di lettura di Gramsci: nel primo caso, segnalando la strada autoritaria che ha imboccato il nostro paese soprattutto con la vittoria della destra meloniana, ci invita implicitamente ad analizzare l’autoritarismo contemporaneo[2] (cosa diversa ma non estranea al fascismo); nel secondo, a non attenersi fedelmente alla lettera del dettato gramsciano, ma a farne un uso creativo, «selettivo, tendenzioso, e deformante» (ivi, p. 7), così da attrezzarci per «affrontare la necessità del momento» [3] (ibidem) con un autore completamente ricreato dai bisogni analitici del ricercatore.

Uscita dal filologismo e vicinanza estrema col presente: c’è una terza cosa, infine, forse la più decisiva che Serra dice di Gramsci nella sua ultima introduzione, ossia che nei Quaderni non è depositata nessuna verità, che da essi non emana alcuna verità ultimativa sul mondo e che l’averlo creduto e il crederlo ancora ha causato e causa un vero e proprio blocco di «ogni sviluppo creativo e critico, della sua eredità» (ibidem).

Volendo immaginare che leggere creativamente Gramsci oggi, secondo quanto appena detto, significhi passare anche e soprattutto attraverso la critica della sua opera, i risultati a cui lo stesso Serra arriva non sembrano potersi collocare in questa linea interpretativa visto che, nel primo caso, in accordo col peronismo di sinistra di Gonzáles, incentra la sua proposta su di un’unità nazionale di popolo che porti alla conquista dello Stato da parti delle classi subalterne, e questo significa lasciar passare acriticamente il nazionalismo di Gramsci che tanto stava a cuore a Togliatti[4]; nel secondo, attualizza una discussione, quella sul marxismo gramsciano, nata già liquidata, senza neanche troppa originalità, dagli stessi scritti del giovane Tronti quando sostiene, facendo integralmente sua l’interpretazione di Galvano della Volpe, che non di filosofia si tratti col marxismo ma di scienza, e questo a dispetto di quanto creduto con forza da tutta la tradizione italiana da Gentile a Gramsci, aprendo così la strada a quello che a suo modo resta uno dei più importanti contributi dati alla sociologia industriale italiana, Operai e capitale.

Al di là di queste osservazioni critiche, la proposta di Serra nell’attuale panorama del gramscismo italiano rimane l’unica valida e fertile: la creatività delle letture a venire di Gramsci si deve legare anche al rilevamento delle sue criticità.

Le brevi riflessioni che seguono, allora, iniziano da qua: prendono le mosse da uno dei principali assi teorici dei Quaderni, Americanismo e fordismo; ne selezionano una manciata di paragrafi per individuarne gli imprescindibili contributi dati all’analisi scientifica di tutte quelle società la cui organizzazione economica del lavoro dipende dal fordismo (principalmente, quindi, quella americana ma in seconda battuta anche quella italiana); ne rilevano criticamente i limiti; provano a illuminare in modo creativo, a mo’ di contrasto chiaroscurale, i processi di formazione di soggettività che, dentro e fuori il fordismo, non si sono lasciate disciplinare dalla logica della produzione tayloristica e che, nella sostanza, lasciano intravedere forme di vita, di lotta e di sindacalismo non riconducibili a quelle che si sono affermate nel movimento operaio europeo tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo, quindi, non integralmente pensabili dalle categorie marxiste-leniniste, di conseguenza, dallo stesso Gramsci.

Americanismo e fordismo secondo Gramsci: le positività

Sarebbe davvero difficile riassumere tutti i risultati raggiunti da Gramsci nel quaderno speciale n. 22[5], redatto, come gran parte di quelli speciali, nel 1934, ma nel quale confluiscono tanto l’esperienza ordinovista dei primissimi anni Venti del Novecento quanto tutte le note scritte sull’argomento tra il 1929-1930 e durante il 1932.

Letto con la consapevolezza di non essere una riflessione limitata ai soli aspetti economicistici del fordismo, cosa che ancora oggi la rende di grandissima attualità anche per capire il passaggio al postfordismo[6], Americanismo e fordismo presenta un gruppo di paragrafi particolarmente importanti.

Già gettando un rapido colpo d’occhio all’elenco dei nove problemi stilato alla fine del primo paragrafo si capisce da subito l’ampiezza del quadro culturale entro cui Gramsci vuole studiare il fenomeno, sinteticamente:
1) come nuovo meccanismo di accumulazione capitalistica;
2) rispetto alla questione sessuale;
3) come forma di rivoluzione passiva;
4) rispetto alla demografia;
5) rispetto a una genesi da collocarsi all’interno dell’apparato produttivo industriale o all’esterno di esso in un apparato giuridico di tipo statuale;
6) in funzione della politica degli alti salari;
7) della caduta tendenziale del saggio di profitto;
8) della psicanalisi;
9) della associazioni classiste tipo Rotary Club o Massoneria (Gramsci 1978, p. 4).
Anche se con molta umiltà Gramsci si riferisce a questo piano di lavoro come a un insieme di problemi che «a prima vista paiono non di primo piano», si capisce che in realtà essi sono di primissimo rilievo, a dimostrazione di quanto l’organizzazione del lavoro non nasca e non finisca mai nella sua sola dimensione economica.

Spostandoci da questa panoramica generale all’inquadratura particolare dei singoli aspetti, la riflessione si affina diventando sempre più interessante come ad esempio, nel paragrafo 2, quando Gramsci utilizza le categorie di forza e persuasione, capisaldi della sua analisi del fascismo, per spiegare l’affermazione del fordismo come abile combinazione di una forza, per l’appunto, diretta contro le organizzazioni sindacali e di una persuasione della classe operaia agli obiettivi padronali agita tramite lo strumento degli alti salari. In questo modo Gramsci vede l’affermazione della fabbrica su tutta la società, vede il momento produttivo farsi egemonico su tutta la vita sociale. Un’affermazione che può realizzarsi e un’egemonia che può imporsi solo perché la nuova forma di produzione mette capo alla creazione di «un nuovo tipo umano, conforme al nuovo tipo di lavoro e di processo produttivo» (ivi, p. 19).

A questa nuova forma di uomo nato dall’interno della fabbrica e disseminatasi su tutto il corpo sociale Gramsci dedica altre fondamentali osservazioni, sia di tipo antropologico come avviene nel paragrafo 3 quando afferma che tale umanità si può determinare solo a patto di una rigida repressione dell’apparato sessuale; sia di natura storica quando, nel paragrafo 10, vede tutto l’industrialismo porsi al servizio di questo violento addomesticamento dell’istintualità, come mezzo di assoggettamento dell’animalità dell’uomo, non a caso i valori e le istituzioni più funzionali, da ultimo,  al mantenimento del taylorismo si dimostrano essere la fedeltà coniugale e la famiglia, ossia il più rigido conformismo.

Un conformismo sul quale le fabbriche Ford vigilavano attentamente, e sì perché l’egemonia della fabbrica sulla società viene assicurata attraverso un capillare sistema di controllo: magistrale l’esempio riportato da Gramsci nel paragrafo 11 dei servizi di ispezione incaricati di verificare se gli operai percettori di alti salari non li dissipassero in bagordi alcolici e sessuali nel fine settimana. Naturalmente gli ideali che animavano il corpo degli ispettori di fabbrica tutt’altro erano che puritani, poiché sotto la loro apparente facciata morale si annidava il più cinico interesse padronale, ossia quello di salvaguardare l’equilibrio psico-fisico del ‘suo’ lavoratore, di quello strumento sul quale aveva investito e che manuteneva pagandogli alti salari, e dal quale si attendeva che il lunedì mattina fosse sempre abile alla catena di montaggio. Per Gramsci questo cinismo è la marca distintiva del taylorismo, nel quale riconosce un carattere più generale della società americana, ossia quello di tendere alla più completa disumanizzazione del lavoratore, alla distruzione di ogni forma di fantasia nella sua attività lavorativa, così da fargli sopravvivere solo automatismi e atteggiamenti meccanici.

Infine, nel paragrafo 12, accertato questo svuotamento del contenuto umano del lavoro, Gramsci non si rassegna a vedere il lavoratore fordista tramutato nel gorilla ammaestrato sognato da F. W. Taylor. Arriva a pensare l’operaio alla catena riferendosi al copista medievale: anche questo, prima dell’altro, svolgeva un lavoro altamente meccanico, ma copia dopo copia, arrivava a rifare il testo, a emendarlo e a miglioralo, così avviene anche per il lavoratore fordista il quale, dopo aver introiettato l’automatismo del gesto parcellizzato e cronometrato impostogli dalla produzione, libera la sua mente, spingendola a pensare alle condizioni che lo hanno ridotto in quella condizione.

Da questa breve sintesi, parziale e non esaustiva di tutta la complessità di Americanismo e fordismo, emerge chiaramente quanto Gramsci legasse l’analisi del fenomeno ad eventi epocali: dalla fine delle plutocrazie europee ai nuovi modi di accumulazione del capitalismo; dalla repressione degli istinti sessuali alla nascita di un nuovo tipo umano compatibile con una nuova organizzazione economica e tecnologica del lavoro che estendeva il suo controllo su tutta la società; dalla rivoluzione passiva a quella cognitiva subita dai lavoratori nel loro processo di adattamento psico-fisico alla catena di montaggio; dalla legge sulla caduta tendenziale del saggio di profitto alla standardizzazione dei consumi di massa e così via. E questo a dimostrazione del fatto che non si può ‘toccare’ un quaderno del carcere senza che ‘venga giù’ al contempo l’intera impalcatura teorica dei Quaderni del carcere.

Ora, dato tutto ciò, il compito di questo articolo non è tanto quello di rifare l’elogio, sempre dovuto, dei risultati positivi raggiunti da Gramsci in queste fulminanti note, ma di individuarne quei punti critici che ne hanno permesso il conseguimento e che, qualora siano puntualmente ritematizzati, ci permetterebbero di vedere movimenti e soggettività che pullulano lungo i bordi di Americanismo e fordismo e ai quali Americanismo e fordismo fa da muro.

Americanismo e fordismo oltre Gramsci: le criticità

Volendo riassumere in un unico giudizio complessivo gli innumerevoli risultati positivi raggiunti in Americanismo e fordismo potremmo dire che, nonostante tutte le osservazioni critiche in esso sollevate, alla fin fine Gramsci provi ‘simpatia’ per il nuovo sistema industriale, il che farebbe passare in secondo piano le suddette critiche soprattutto quando si dovesse immaginare come universalizzabile quel tipo di organizzazione del lavoro in fabbrica.

Franco De Felice ha speso molto energie per dimostrare che questa ‘simpatia’ – è lui ad aver impiegato molto suggestivamente questo sostantivo emotivo – fondata su quale riscontro testuale lo vedremo tra poco e che mette in causa il rapporto tra la classe operaia e il significato dello sviluppo industriale, non nasconda nessuna subalternità nei confronti di un’iniziativa tecnologico-produttiva interamente eterodiretta dall’alto da parte del padronato e alla quale gli operai dovrebbero limitarsi a dare solo il loro passivo assenso (da qui l’impiego della categoria della rivoluzione passiva usata per connotare i rivolgimenti politici italiani come il Risorgimento e il fascismo), ma sia da ascriversi piuttosto all’entusiasmo dello scienziato per aver trovato il terreno di scontro reale sul quale si andava a collocare la lotta di classe (Gramsci 1978, p. 97).

Molta critica gramsciana italiana ha seguito De Felice lungo questo crinale, chi con argomentazioni semplicistiche adottandone automaticamente la tesi: «Gramsci era convinto del carattere “progressivo” dell’americanismo […] Il progresso che interessava Marx, come Gramsci è l’avanzare delle condizioni rivoluzionarie della lotta di classe» (Baratta 2004, p. 33); chi in modo molto più articolato facendo delle debite precisazioni in funzione delle quali da un lato è spinto ad accettare come «inevitabile» il «disciplinamento» indotto dal taylorismo – credo in virtù dell’effetto di lunga durata che questo produrrebbe sulla classe operaia autodisciplinandola rispetto alla sua unità e ai compiti rivoluzionari che l’attendono – dall’altro è portato a rifiutarlo, non in sé evidentemente, ma per «il surplus di violenza socialmente (politicamente) motivato» che lo distingue (Burgio 2014, p. 306). In entrambi i casi, la «simpatia» finale per il fordismo mi sembra essere confermata.

Se De Felice, e come lui tanti gramsciani, si sono così tanto impegnati per giustificare questa «simpatia», lo devono aver fatto perché l’evidenza testuale del paragrafo 13, se non lascia dubbi, sicuramente delinea delle profonde ambiguità, vediamola:

[…] si presenta il problema: se il tipo di industria e di organizzazione del lavoro e della produzione proprio del Ford sia «razionale», possa e debba cioè generalizzarsi o se invece si tratti di un fenomeno morboso da combattere con la forza sindacale e con la legislazione. Se cioè sia possibile, con la pressione materiale e morale della società e dello Stato, condurre gli operai come massa a subire tutto il processo di trasformazione psicofisica per ottenere che il tipo medio dell’operaio Ford diventi il tipo medio dell’operaio moderno o se ciò sia impossibile perché porterebbe alla degenerazione fisica e al deterioramento della razza, distruggendo ogni forza di lavoro. Pare di poter rispondere che il metodo Ford è «razionale», cioè deve generalizzarsi, ma che perciò sia necessario un processo lungo (Gramsci 1978, p. 90).

Ora, non si tratta tanto di vedere nell’assenso finale dato da Gramsci al fordismo una suo assoggettamento di fronte all’iniziativa padronale – in fondo, gli operai della FIAT scelsero liberamente di adottare il taylorismo durante le occupazioni delle fabbriche nel biennio rosso (1919-1920) – né tanto meno un suo calcolo strategico da scienziato politico che cinicamente farebbe pagare costi inauditi alla classe operaia per poi fargliene cogliere i frutti in un indeterminato futuro rivoluzionario – la vicinanza emotiva alle condizioni di tutte le classi subalterne nel pensatore sardo non ha mai vacillato, pensiamo ad esempio a quella per gli emigranti italiani (Denunzio, Gjergji 2021, pp. 110-118) – quanto, e questo è il primo punto critico da rilevare in Americanismo e fordismo, una sua pressoché completa fiducia nella disponibilità delle classi lavoratrici a lasciarsi ‘persuadere’ da Stato e società alle ragioni del fordismo. Pensare, come fa Gramsci, che la generalizzazione del disciplinamento di fabbrica a tutto il corpo sociale non crei resistenze, diserzioni e insubordinazioni all’interno dello stesso mondo del lavoro, significa non immaginare la possibilità che segmenti della classe operaia possano dare risposte autonome al problema.

Ora, si potrà dire che quella dello hobo fosse una figura che già nel 1923 era stata consegnata alla storia della frontiera americana, come ebbe a sottolineare Nels Anderson nella prefazione del 1961 alla sua grande ricerca sociologica sul vagabondo (Anderson 2011, p. 10). Si potrà dire che fosse una recrudescenza romantica, immortalata poeticamente dallo Charlot chapliniano, da ultimo in Tempi moderni, in antitesi con la modernità marcata USA e con le sue forme di vita industriali. Si potrà anche dire che fosse una figura creata dalle strutture specifiche del mercato del lavoro americano a cavallo tra il XIX e XX secolo, bisognoso di mano d’opera stagionale nelle più svariate zone del paese e per i più svariati tipi d’impiego. Di sicuro si dovrà dire che quella del vagabondo lavoratore, dell’operaio nomade, che inseguiva posti di lavoro solo per ricavare il sostentamento necessario per sopravvivere ai lunghi periodi di inattività, fosse soprattutto una soggettività sviluppatasi anche in risposta alla crescente taylorizzazione delle condizioni di lavoro in America[7], quindi, alla generalizzazione del fordismo come forma universale di produzione e di società.

Tra le ragioni della «simpatia» di Gramsci per il fordismo di sicuro bisogna annoverare anche la valutazione positiva del rapporto che gli industriali americani avevano col sindacato, e con questo vengo alla seconda criticità di Americanismo e fordismo. Sulla scorta di Le problème ouvrier aux États Units di Andrè Philip del 1927, nel paragrafo 2 Gramsci arriva sostenere che:

il sindacato americano è più l’espressione corporativa della proprietà dei mestieri qualificati che altro e perciò lo stroncamento che ne domandano gli industriali ha un aspetto «progessivo». L’assenza della fase storica europea che anche nel campo economico è segnata dalla Rivoluzione francese ha lascito le masse popolari americane allo stato grezzo: a ciò si aggiunga l’assenza di omogeneità nazionale, il miscuglio delle culture-razze, la quistione dei negri (Gramsci 1978, p. 19).

Lasciando da parte l’eurocentrismo del giudizio, come se la storia del mondo e quella della classe operaia dovesse necessariamente seguire quella d’Europa; volendo sorvolare sul fatto che gli industriali americani non si limitavano a domandare lo stroncamento delle organizzazioni dei lavoratori ma lo aveva da sempre perseguito con tutta la violenza dei mezzi a loro disposizione (da quella militare e paramilitare a quella giudiziaria e politica, roba da fare invidia al fascismo); rimane il fatto che, come documentato dalle storie del movimento operaio americano, l’interesse padronale era proprio quello di sostenere la divisione per professioni, e in questa direzione si muoveva l’American Federation of Labor (AFL), non così, invece, l’Industrial Workers of World (IWW).

I wobblies, gli aderenti all’IWW, sin dal loro nascere, a Chicago il 27 giugno del 1905 e fino al 1919, avevano combattuto contro la logica corporativistica e razziale dell’AFL, per un sindacato che organizzasse tutti i lavoratori dell’industria a prescindere da mestieri, razze e sessi (Boyer, Morais 2012, pp. 218-219) e questo grazie all’assenza di qualsiasi esperienza europea di questo tipo.

Se alla prima criticità – la completa fiducia di Gramsci nell’indifferenziata disponibilità della classe operaia a lasciarsi disciplinare dalla generalizzazione del fordismo – la storia del movimento operaio americano permette di rispondere con la soggettività autonoma dello hobo, il proletario nomade – alla seconda – che vede come positivo l’accanimento degli industriali americani contro i sindacati di mestiere – sempre il movimento operaio americano permette di rispondere con la soggettività autonoma dello wobbly, il sindacalista conflittuale che agisce in nome degli obiettivi rivoluzionari della classe internazionale dei lavoratori, di tutti, senza distinzioni per mestieri.

A queste soggettività nate sul terreno del lavoro e dalle lotte dentro e fuori la fabbrica fordista, Gramsci non ci permette di guardare, l’esempio di Americanismo e fordismo dimostra che ne inibisce la percezione e, di conseguenza, non fa procedere la ricerca verso insegnamenti politici che si dimostrerebbero utili per agire nella nostra attualità.

Torno all’inizio. La fertilità della proposta interpretativa di Serra non si sostanzia naturalmente in un passaggio alla critica di Gramsci dopo l’ubriacatura filologica, di certo, il rilevamento delle criticità nella sua opera ci permette di aprire delle brecce dalle quali intravedere altri mondi, altre soggettività, altre forme di lotta e di insubordinazione con le quali semmai ritornare anche a leggere lo stesso Gramsci, senza badare ai punti e alle virgole della sua opera.

In un panorama socialmente frantumato come il nostro, nel quale si riflette la profonda frantumazione del mondo del lavoro post-fordista in una moltitudine pressoché infinita di tipologie contrattuali[8] e di sotto-mansionamenti che non fanno altro se non squalificare sempre più il senso del lavoro e la possibilità per ogni lavoratore di riconoscersi in esso e di riconoscere nella propria attività lavorativa uno strumento per la sua formazione, se una politica c’è da immaginare, la si deve immaginare a partire da qui: dalla diserzione nomadica da ogni forma di disciplinamento (stile hobos) e dalla conflittualità sindacale (stile wobblies).

Ai fantasmi inquietanti di un’unità nazionale di popolo, allora, bisogna rispondere abitando la frantumazione del mondo e le mille forme di soggettività che in esso prendono forma il cui unico orizzonte confederativo è la solidarietà, intesa come «quel corpo di sentimenti, di istinti, di pensieri, di costumi, di abitudini, di affetti» che alberga nel proletariato, ossia la «solidarietà di classe». Almeno così scriveva Gramsci da qualche parte, non ricordo più dove.

Note

[1] Di questa involuzione negli studi gramsciani ne ho dato conto nella mia Introduzione a Gramsci 2017, pp. 7-26.

[2] Su questo filone di ricerca ricordo il recente Serra 2023.

[3] Questo metodo, nel quale credo fermamente, nella sostanza pare non essere molto diverso da quello che utilizza Gilles Deleuze nelle sue grandi letture dei classici del pensiero filosofico, un Deleuze che però Serra, dico incomprensibilmente per non dire contraddittoriamente, aveva stigmatizzato nell’introduzione del 2019 (Serra 2019, p. 9). 

[4] Su questo punto basterà la lettura veloce di soli due scritti: Gramsci, la Sardegna, l’Italia del 1947 (Togliatti 2013, in particolare p. 113) e Attualità del pensiero e dell’azione di Gramsci del 1957 (ivi, in particolare pp. 220, 222-223).

[5] In questo paragrafo riprendo la lettura del quaderno 22 che nel corso degli ultimi anni ho proposto alle frequentanti e ai frequentanti del mio di corso di Sociologia dei processi culturali del lavoro, una lettura selettiva tagliata sul commento di quei paragrafi che meglio degli altri aiutano a vedere quanto gli effetti del fordismo non siano circoscrivibili alla sola fabbrica ma investano tutta la vita sociale delle lavoratrici e dei lavoratori. Il testo di riferimento è Gramsci 1978, introdotto e commentato da Franco De Felice, a oggi ancora il lavoro storicamente e politicamente più completo sulla questione.

[6] In questa direzione mi sembra muoversi Harvey 1997, p. 158.

[7] Su tutti questi punti si veda Rauty 2011, pp. XVIII-XXIX.

[8] Su questi punti, a fronte di una bibliografia infinita, suggerisco la breve e illuminante introduzione di Giovanna Procacci a Thompson 2011 (pp. VII-XIX), vademecum critico di cosa sia diventato il lavoro nell’era della globalizzazione e di come la sua flessibilizzazione non sia stata altro che un ulteriore strumento di disciplina e sfruttamento dei lavoratori ben oltre i tempi e le condotte imposte dalla catena di montaggio.

Bibliografia

N. Anderson (2011), Il vagabondo. Sociologia dell’uomo senza dimora, Donzelli editore, Roma.

G. Baratta (2004), Americanismo e fordismo, in Frosini, Liguori 2004.

R. Boyer, H. Morais (2012), Storia del movimento operaio negli Stati Uniti, Odoya, Bologna.

A. Burgio (2014), Gramsci. Il sistema in movimento, DeriveApprodi, Roma.

G. Cospito (2004), Egemonia in Frosini, Liguori 2004.

F. Denunzio (2017), Introduzione a Gramsci 2017.

F. Denunzio, I. Gjergji (2021), La condizione dell’emigrante italiano nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, «Sociologia», vol. 3.

F. Frosini (2004), Filosofia della praxis, in Frosini, Liguori 2004.

F. Frosini, G. Liguori (2004), a cura di, Per un lessico dei quaderni del carcere, Carocci, Roma.

H. Gonzáles (2019), Il nostro Gramsci, Castelvecchi, Roma.

A. Gramsci (1978), Quaderno 22. Americanismo e fordismo, Einaudi, Torino.

A. Gramsci (2017), Sul giornalismo. Un percorso attraverso i Quaderni del carcere, Orthotes, Napoli-Salerno.

D. Harvey (1997), La crisi della modernità, EST, Milano.

G. Procacci (2011), Introduzione a Thompson 2011.

R. Rauty (2011), «Vagabondi» nella storia. La Scuola di Chicago e la ricerca di Niels Anderson, in Anderson 2011.

P. Serra (2019), Introduzione a Gonzáles 2019.

P. Serra (2023), Per Gino Germani. Materiali per una teoria dell’autoritarismo contemporaneo, Rogas, Roma.

P. Serra (2024), Introduzione a Tronti, 2024.

E. P. Thompson (2011), Tempo e disciplina del lavoro, et al./ Edizioni, Milano.

P. Togliatti (2013), Scritti su Gramsci, Editori Riuniti university press, Roma.

M. Tronti (2024), Scritti su Gramsci, DeriveApprodi, Roma.

Fonte

25/06/2024

Star Wars: Episodio II - L'attacco dei cloni (2002) di G. Lucas - Minirece

Un manager prestato alla politica: Dementus

di Andrea Berneschi

Era il 2015 ed entravamo al cinema incuriositi dal trailer di quello che sarebbe stato il quarto film della serie di Mad Max, cult assoluto degli anni ‘80 e foriero di derivazioni in ogni altro mezzo espressivo (per dirne una, Hokuto no Ken di Buronson e Tetsuo Hara). Questa pellicola sembrava diversa dal resto della serie, e non solo per l’assenza di Mel Gibson. Pareva un trattato di antropologia del futuro, più che un tipico action movie hollywoodiano; per quanto il trailer mostrasse inseguimenti, scontri ed esplosioni a volontà la nostra attenzione andava soprattutto alle strane tribù di guerrieri e ai loro veicoli, reperti di una civiltà totalmente altra rispetto a noi. Due ore dopo l’ingresso in sala ne uscivamo sbalorditi, affascinati da un’opera d’arte che nessuno, tranne il regista George Miller, aveva immaginato si potesse creare con cineprese, auto scassate, sabbia del deserto e ottimi attori. In parte western, in parte sci-fi, sicuramente horror, ma anche tragedia shakespeariana; più vicina alle pellicole di Jodorowsky, Herzog e di altri grandi autori del cinema tout court che ai molti film d’azione soporiferi e fatti con lo stampino a cui da qualche decennio siamo abituati.

Da quel momento abbiamo sperato di vedere prima possibile i preannunciati seguiti, spinoff, e tutto quello che sarebbe venuto.

Il trailer di Furiosa: A Mad Max saga (stavolta non manca solo Gibson, ma proprio il personaggio di Max, anche se lo si vede in una brevissima scena, di spalle) ci ha spiazzato. Ambientazione, dinamiche, colori e veicoli li conosciamo già; sono cambiati gli attori, Anya Taylor-Joy che forse temevamo troppo delicata per le wasteland e per il ruolo che era stato di Charlize Theron, e un Chris Hemsworth dal naso particolarmente buffo. Ma per chi ha apprezzato Fury Road era impossibile perdersi questo nuovo capitolo, che in realtà è un prequel, e così abbiamo comprato un nuovo biglietto... e il film ha mantenuto le promesse implicite nel trailer.

Furiosa: A Mad Max saga non è un salto in avanti; è piuttosto un tassello che aggiunge qualcosa a un’opera già iniziata, come la pala centrale di un trittico. Forse l’apprezzeremo ancora di più dopo un altro film, che mi auguro non tardi ancora un decennio, ma si può godere assolutamente già da subito.

Conosciamo già il mondo postatomico immaginato da George Miller, la sua economia basata sul petrolio, sull’acqua potabile e sul sangue, e abbiamo già incontrato il personaggio di Furiosa, luogotenente del cattivo Immortan Joe. Il film scorre, non siamo così scontenti da percepire una delusione, le scene d’azione sono formidabili, ma ci aspettiamo soprattutto novità, trovate originali. Ci sono. E di quali novità si tratta?

La prima sta nella struttura del racconto. Fury Road era un lungo inseguimento, una sequenza singola ben definita che lasciava allo spettatore il compito di ricostruire mentalmente il mondo ai due lati della strada: la genesi della cittadella, le folli dinamiche tra le sue classi sociali (Immortan e i suoi collaboratori più stretti, i warboys, le mogli e le produttrici di latte, i meccanici e gli addetti all’ascensore, gli outcast che vivono al livello del suolo aspettando l’elemosina dell’acqua); questa invece, lo dice il titolo, è una saga, il racconto di eventi che durano almeno venti anni, e che ha per oggetto il personaggio di Furiosa, il suo carattere, i cambiamenti nella sua vita. Materiale così abbondante che avrebbe potuto benissimo essere spalmato in due stagioni di una serie televisiva. Sempre però nello stile di George Miller, maestro supremo dello show, don’t tell, coi personaggi che parlano il meno possibile e dialogano soprattutto a gesti durante le scene d’azione.

E sì, Anya Taylor-Joy (seconda novità) se la cava benissimo; sbaglia chi temeva prima della visione del film (per mancanza di fiducia o puro pregiudizio maschilista) di dover assistere alla replica de La Regina degli Scacchi ambientata nelle wasteland, con una protagonista senza spessore e sostanzialmente priva di carisma che riesce senza sforzo in tutto quello che fa, giusto perché la storia lo richiede. La Furiosa di Anya Taylor-Joy non è un’eroina Disney o Marvel senza macchia e senza paura, ma un personaggio dolente, che passa di fallimento in fallimento; rinuncia a quasi tutti i suoi sogni, ma senza piegarsi. Una guerriera che in questo film non pensa nemmeno a cambiare le cose, a scardinare il potere; se vuole sopravvivere l’unica strada è accettare il compromesso, lavorare per uno dei due principali Signori della Guerra mentre medita vendetta sull’altro. Non una rivoluzionaria o un’eletta, dunque, ma il corrispettivo postatomico di una lavoratrice precaria.

La terza importante novità è rappresentata dal villain principale, Dementus. Immortan Joe, il cattivo di Fury Road, rappresentava al massimo grado ciò che aveva causato la rovina del pianeta: maschilista, ultraliberista ma col monopolio delle risorse idriche, ex-militare, pure teocrate. E la sua cittadella funzionava alla perfezione, una tipica distopia nera da fiction; godeva di approvvigionamenti di gas e di proiettili, sfornava macchine truccate, addestrava in continuazione folli guerrieri suicidi. E Immortan faceva stare ognuno al suo posto, con la violenza, con il ricatto dell’acqua o con la promessa di un aldilà glorioso (il Valhalla).

Il personaggio interpretato da Hemsworth ha un altro background rispetto a Immortan. Si tratta di un ex-biker particolarmente crudele e, per usare una parola ormai inflazionata, narcisista (il suo carattere è peggiorato dopo che ha visto morire la propria famiglia, o almeno così racconta) e incarna un aspetto del potere più vicino all’esperienza che abbiamo noi italiani della classe dirigente: l’incapacità. Sì, perché Dementus vuole conquistare, ampliare il suo potere, e in qualche misura ci riesce... ma una volta che l’ha ottenuto non sa come gestirlo. Non riuscirebbe mai a tenere insieme i soldati, i meccanici e gli schiavi della cittadella di Immortan. Con una battaglia prende il controllo di Gastown, dove viene prodotto il bene più prezioso, l’energia, ma non sa come gestirla. I lavoratori-schiavi gli si rivoltano contro, e non basteranno le armi dei suoi scherani per riportarli all’ordine. Anche una banda di cattivi, che ha visto i propri membri sacrificati cinicamente durante uno scontro, finirà per abbandonarlo mettendosi per conto proprio. Dementus è puro appetito, eterna sete di dominio sugli altri, ma non ha le capacità o la volontà di organizzare un sistema economico-politico, per quanto primitivo, che possa durare. Vuole il potere, ma senza le responsabilità che a questo sono necessariamente collegate. Vi ricorda qualcuno?

Immortan aveva l’ossessione di procurarsi una discendenza sana, non contaminata dai veleni del dopobomba, Dementus invece al futuro non pensa. “Non c’è speranza!” è il suo motto. Dunque l’unica cosa da fare è prendere quanto più possibile, arraffare senza pensare a un domani. A lasciarlo fare, il mondo post-atomico diverrebbe ancora più povero, più disorganizzato, più caotico.

Le compagnie petrolifere, le industrie delle armi, la bella classe dirigente che oggi dà il ritmo alle nostre vite, lo stanno facendo per costruire un mondo perfetto e senza scampo come un incubo kafkiano o per una fondamentale incapacità, per campare alla giornata? La seconda ipotesi appare più realistica della prima, e non è detto che sia meno cupa.

Fonte