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23/06/2024

La crisi del dollaro. Intervista a Giacomo Gabellini

Riportiamo l’intervista di Roberto Vivaldelli a Giacomo Gabellini, apparsa su InsideOver. Ricercatore indipendente, Gabellini negli ultimi anni ha trattato spesso di questioni geopolitiche (Ucraina e Israele, ovvero i due principali punti di tensione internazionale odierni, insieme a Taiwan) e di prospettive economiche. Ha da poco pubblicato un libro sul processo di dedollarizzazione, e nell’intervista affronta nodi interessanti al riguardo. Non è sicuramente inutile dare attenzione alle sue parole.

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Con un deficit di 1,5 miliardi di dollari, un debito complessivo di 35 miliardi di dollari e 1 miliardo di dollari di interessi da pagare entro quest’anno, se il dollaro americano non fosse la principale valuta di riserva globale e se si presentasse un vero rivale, l’intero sistema finanziario americano crollerebbe.

A lanciare l’allarme è l’autorevole rivista The National Interest, secondo cui il blocco dei Paesi Brics – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – sta “gradualmente emergendo come un’importante alleanza commerciale economica e finanziaria, che sfida l’ordine economico globale dominato dagli Stati Uniti”. La superpotenza americana, infatti, è riuscita a mantenere l’egemonia grazie al “ruolo centrale nel commercio internazionale” e alla supremazie del dollaro in qualità di principale valuta di riserva del mondo.

Ora, tuttavia, la crescita dei Brics è percepita come una minaccia da Washington, una sfida aggravata dall’esplosione del debito. Ne abbiamo parlato con Giacomo Gabellini, saggista, analista geopolitico e autore del libro Dedollarizzazione. Il declino della supremazia monetaria americana edito da Diarkos.

Gabellini, il debito pubblico americano ha raggiunto nuovi record. Come fanno gli Stati Uniti a sostenere questa situazione?

Giocando sulla centralità del dollaro nel sistema internazionale. La valuta statunitense è infatti quella in cui vengono espressi larga parte degli scambi commerciali transfrontalieri, la moneta che domina il mercato delle materie prime a livello mondiale e la divisa di riferimento del mercato obbligazionario Usa, percepito generalmente come il più liquido e affidabile del mondo.

Da quando, nel 1971, il presidente Nixon ripudiò unilateralmente gli accordi di Bretton Woods eliminando l’ancoraggio all’oro, il dollaro si è trasformato in una moneta fiat garantita de facto dalla potenza militare statunitense. Gli Usa si sono così posti nelle condizioni di approvvigionarsi di beni, servizi, materie prime, ecc. dal resto del mondo in cambio di valuta che non richiede alcuno sforzo per essere emessa.

A che punto è il processo di dedollarizzazione, tema del tuo ultimo libro?

A tutt’oggi, quasi il 50 per cento del commercio internazionale è fatturato in dollari; circa la metà dei prestiti transfrontalieri e dei titoli di debito in circolazione sono denominati in dollari; gli scambi di valute sui mercati dei cambi coinvolgono il dollaro nella misura del 90% rispetto all’ammontare complessivo delle transazioni; il 33% del Pil mondiale è costituito da Paesi dotati di valute ancorate al dollaro o oscillanti rispetto al dollaro entro intervalli predefiniti; il dollaro è la valuta domestica di sette Paesi diversi dagli Stati Uniti.

Ciononostante, il declino della centralità del dollaro è un fatto conclamato, che si manifesta sotto forma di adozione di circuiti alternativi a quelli che garantiscono la circolazione della valuta Usa, di incremento della quota di commercio internazionale coperta da valute alternative al dollaro, di accumulo incessante di oro da parte delle Banche centrali straniere che manifestano allo stesso tempo una minor propensione ad investire in titoli di Stato statunitensi.

E questo cosa comporta?

Il processo di diversificazione delle valute di livello internazionale richiederà comunque decenni, in quanto il declino di una valuta di riserva tende storicamente a scandirsi secondo tempi molto più lunghi rispetto a quelli che caratterizzano il deterioramento degli altri indicatori di forza di un Paese.

Come osserva Ray Dalio, le valute di riserva tendono a sopravvivere a lungo dopo che i loro fondamentali cessano di giustificare il loro primato, perché si radicano profondamente nelle attività internazionali e quindi c’è una forte pressione a mantenerle.

Poi crollano all’improvviso quando diventa chiaro che i fondamentali che stanno alla base della valuta rendono poco conveniente detenere debito espresso in quella valuta.

Il crollo è rapido perché il tasso di declino della valuta è superiore al tasso d’interesse versato ai detentori del debito; le perdite nette inducono alla vendita, che causa altre perdite, con una spirale che si autorinforza.

Che ruolo svolgono i conflitti e il complesso industrial-militare americano nel dominio del dollaro su scala globale?

Gli Stati Uniti manifestano una dipendenza strutturale e sempre più marcata dalla centralità internazionale del dollaro e dagli investimenti dall’estero. In tali condizioni, è sufficiente un semplice rallentamento del flusso di capitali in entrata per affossare i listini azionari e minacciare la stabilità del sistema bancario.

Non stupisce pertanto che il malumore internazionale suscitato dalla progressiva contrazione dei dividendi garantiti dall’adesione al sistema a guida Usa abbia indotto Washington ad avvalersi di mezzi coercitivi per estorcere il “tributo imperiale”, in un crescendo di interventi militari, sanzioni, guerre valutarie e minacce di vario genere.

Se osservate soltanto alla luce dei loro effetti pratici, le stesse campagne afghana e irachena possono essere indubbiamente catalogate come espressioni del cosiddetto “micromilitarismo teatrale”, rivolto a dimostrare la necessità della presenza dell’America nel mondo schiacciando lentamente avversari insignificanti. Una linea operativa perfettamente funzionale al conseguimento di specifici obiettivi tattici.

A cosa si riferisce, nello specifico?

Più in particolare, il bombardamento della Jugoslavia scatenato nel 1999 culminò con la svalutazione dell’euro del 30% rispetto al dollaro, dopo che la moneta unica europea aveva sottratto al “biglietto verde” il 20% delle transazioni sui mercati internazionali.

L’aggressione all’Afghanistan interruppe il deflusso di capitali dagli Usa (circa 300 miliardi di dollari) innescato dagli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001; l’esplosione dei primi missili su Kabul provocò un rialzo dell’indice Dow Jones pari a oltre 600 punti nell’arco di un giorno. Alla fine del 2001, circa 400 miliardi di dollari erano rientrati negli Stati Uniti.

Nel 2003, lo scatenamento della guerra contro l’Iraq, resosi responsabile della conversione del fondo Oil for food da dollari a euro, provocò un vertiginoso aumento del prezzo del petrolio (da 38 a 149 dollari per barile) a cui corrispose un proporzionale incremento della domanda internazionale di dollari, paragonabile per entità a quello verificatosi negli anni Settanta, sull’onda della Guerra dello Yom Kippur.

L’attacco alla Libia del 2011 culminò con l’eliminazione del progetto elaborato da Muhammar Gheddafi mirante alla creazione di una moneta pan-africana ancorata all’oro (il “dinaro d’oro”), concepita per sottrarre spazio sia al dollaro che al franco CFA, oltre che con la messa fuori mercato di un agguerritissimo concorrente per i produttori statunitensi di idrocarburi non convenzionali.

Il caso paradigmatico rimane comunque quello relativo alla guerra del Kosovo del 1999: allora, i settantadue giorni di bombardamento ininterrotto della Jugoslavia a opera della coalizione euro-statunitense produssero il triplice risultato di distruggere un Paese collocato nel cuore dell’Europa, provocare una svalutazione del 30% dell’euro rispetto al dollaro (di cui era l’unico concorrente credibile) e di alterare il clima degli investimenti nel contesto europeo, canalizzando circa 500 dei 700 miliardi di “capitale mobile” che vagavano senza una meta precisa all’interno del Vecchio continente verso gli Stati Uniti.

Una volta constatato con estremo disappunto che i restanti 200 miliardi avevano preso la via di Hong Kong per penetrare nella Repubblica popolare cinese, cinque missili di precisione teleguidati colpirono l’ambasciata cinese a Belgrado. Un “errore” decisamente provvidenziale, visto che nell’arco di una settimana più di 200 miliardi di dollari fuoriuscirono dalla piazza di Hong Kong per approdare in territorio statunitense.

I Brics stanno davvero emergendo come alternativa al dollaro?

Attraverso la combinazione tra deindustrializzazione, dissesto dei conti con l’estero, esplosione del debito pubblico, incremento vertiginoso del deficit federale e “militarizzazione” del dollaro, gli Stati Uniti hanno contribuito non poco a indurre il resto del mondo a moltiplicare gli sforzi per la creazione di sistemi alternativi a quelli egemonizzati da Washington.

I Brics sono chiaramente alla testa del processo, con misure quali quella finalizzata allo sviluppo di un sistema unico di pagamenti transnazionale (Brics Pay) che consenta l’impiego delle rispettive monete nazionali come base diretta di scambio per i pagamenti esterni.

Interconnettendo i sistemi di pagamento nazionali (Elo brasiliano, Mir russo, RuPay indiano e Union Pay cinese; il Sud Africa non possiede ancora una propria infrastruttura), Brics Pay si candida a soppiantare gradualmente i circuiti Visa e Mastercard nel quadrante asiatico (dove Union Pay ha superato Visa già dal 2015, in termini di operazioni complessive, e dove WeChat Pay ed Ali Pay registrano una forte crescita) ridimensionando drasticamente il potere di ricatto di Washington, anche perché contempla l’apertura di linee di swap ad opera delle Banche centrali dei Brics presso gli istituti partner che consentono di evitare l’intermediazione del dollaro e quindi il transito attraverso il sistema bancario statunitense.

In questo scenario che ruolo svolge la Cina?

La Cina svolge naturalmente il ruolo di locomotiva: forte di uno strutturale surplus delle partite correnti, l’ex Celeste Impero si trova nelle condizioni idonee per sostenere il progetto, patrocinato dall’economista russo Sergeij Glazyev, che comporta il definitivo spostamento dell’asse degli investimenti dai Treasury Bond Usa alle materie prime.

Il drenaggio di plusvalore da Stati Uniti ed Unione Europea che ne scaturirebbe, comparabile sotto alcuni aspetti a quello verificatosi sulla scia della crisi energetica del 1973 (che però colpì molto più duramente l’Europa degli Usa, dove l’emorragia di capitali fu ampiamente tamponata dal rientro massiccio dei petrodollari), andrebbe a consolidare la posizione finanziaria dei Paesi fornitori, incoraggiandoli ad aderire al nascente blocco valutario caratterizzato dall’ancoraggio generalizzato delle monete nazionali alle materie prime fondamentali.

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