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29/06/2024

Star Wars: Episodio III - La vendetta dei Sith (2005) di G. Lucas - Minirece

La BCE a grandi passi verso l’euro elettronico

La Banca Centrale Europea (BCE) ha rilasciato il primo rapporto sui progressi della fase preparatoria dell’euro digitale, avviata lo scorso primo novembre, concentrandosi principalmente sui pagamenti offline per rendere la moneta digitale il più simile possibile ai contanti.

Oggi, sembra che la fase di preparazione dell’euro digitale, varata nel 2021, stia procedendo a grandi passi, con il nuovo strumento che potrebbe vedere una prima implementazione già a partire dalla fine del 2025.

L’euro digitale sarà la “valuta digitale della banca centrale” emessa dalla BCE, affiancando ma non sostituendo la cartamoneta. Diversamente dalle criptovalute, che sono progettate e gestite da privati, sarà di proprietà della BCE, che garantirà la sicurezza, la stabilità del valore e la parità nominale con l’euro contante.

Nel rapporto, la BCE ha enfatizzato l’importanza della privacy nelle transazioni digitali, prevedendo un sistema offline che assicuri riservatezza al pagatore e al beneficiario, simile in tutto e per tutto a un pagamento in contanti.

Il progetto prevede una funzionalità offline che offrirebbe un livello di riservatezza paragonabile a quello dei contanti per i pagamenti in negozi fisici e tra individui, con i dettagli della transazione noti solo alle parti coinvolte e non condivisi con terzi.

Per i pagamenti offline, l’Eurosistema sta sviluppando una funzione che permetterà di pagare senza connessione internet, caricando il conto digitale in euro tramite Internet o bancomat, utilizzando dispositivi offline come telefoni o carte di credito.

La BCE sta anche lavorando per preservare la stabilità finanziaria e la trasmissione della politica monetaria, imponendo limiti di detenzione e non remunerando le disponibilità in euro digitali.

Quindi, almeno nelle prime fasi di utilizzo, la nuova moneta digitale dovrà affiancare, e non sostituire, i tradizionali mezzi di pagamento (cioè l’euro contante e gli strumenti bancari). Si prevede che la versione aggiornata del Regolamento dell’euro digitale sarà pronta entro la fine del 2024.

Piero Cipollone, membro del Comitato esecutivo della BCE, ha spiegato che l’euro digitale offrirebbe ai consumatori una scelta in più, combinando la comodità del contante con i sistemi digitali, semplificando alcuni pagamenti e aumentando la concorrenza, mantenendo però la circolazione del contante.

L’obiettivo di rendere i pagamenti digitali simili a quelli in contante, senza eliminare la cartamoneta e proteggendo la privacy, è fugare i timori di controllo insiti nei pagamenti elettronici, preservando il ruolo delle banche centrali nell’emissione e nel controllo della moneta e proteggendosi dall’ascesa delle criptovalute private.

Abbiamo già trattato la prospettiva della valuta digitale in un precedente articolo, delineandone le potenzialità. Almeno dal punto di vista teorico, le valute digitali offrono la possibilità di rimpiazzare integralmente il sistema di pagamenti digitali privati.

Stiamo parlando della complessa rete di banche e intermediari finanziari che è diventata essenziale al funzionamento di una moderna economia di mercato. Ciò porterebbe a enormi vantaggi dal punto di vista della stabilità finanziaria e capacità di azione della politica monetaria.

Tuttavia, come abbiamo visto, la BCE ha esplicitamente escluso che la finalità dell’euro digitale sia sostituire integralmente gli strumenti concorrenti.

L’euro digitale dovrà, piuttosto, affiancare gli strumenti tradizionali e porsi come alternativa alla grande fauna di criptovalute private emersa nell’ultimo decennio.

L’euro digitale potrebbe inoltre, secondo il report, rivelarsi uno strumento utile per aumentare la resilienza dell’Eurosistema a fronte di rischi geopolitici e crisi del credito internazionale.

Lo sviluppo di un sistema di pagamenti integralmente pubblico costituisce anche un ottimo modo di affrancare il proprio sistema finanziario dai vincoli dei circuiti di pagamento internazionali.

Questo è uno dei motivi per cui numerosi paesi emergenti (in testa Cina, Iran e Russia) si sono mostrate particolarmente interessate alla nuova tecnologia e stanno percorrendo le stesse vie di progettazione e implementazione di valute digitali.

La Cina ad oggi rappresenta l’avanguardia nello sviluppo di questo genere di sistemi. Nel Paese esistono già oltre 260 milioni di conti digitali, che operano soprattutto sul versante dei pagamenti transfrontalieri.

L’e-Yuan, infatti, permette alla moneta di Pechino di circolare liberamente nei movimenti internazionali e può ‘bucare’ agilmente le frontiere, a dispetto delle restrizioni alla circolazione dei capitali.

In Russia, il rublo digitale è attualmente in fase di sperimentazione, e dovrebbe cominciare a circolare fuori dai confini nazionali già dalla metà del 2025.

Specialmente per i Paesi esclusi dal sistema SWIFT o esposti al rischio di sanzioni, lo sviluppo di una valuta digitale potrebbe costituire uno degli strumenti per rendere il proprio sistema finanziario meno fragile ed accelerare la de-dollarizzazione.

Ovviamente è difficile pensare che questo tipo di sistemi possa imporsi alla ribalta in breve tempo. Anche una volta che le difficoltà tecniche e legali-regolatorie saranno superate.

I nuovi strumenti di pagamento avranno bisogno di tempo per superare la naturale diffidenza degli utenti e cominciare ad imporsi come vere alternative agli strumenti che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi decenni.

In particolare, mentre i potenziali vantaggi dal punto di vista sistemico sono evidenti, non è chiaro perché dal punto di vista degli utenti sarebbe vantaggioso passare ai nuovi sistemi.

In prospettiva però l’introduzione delle valute digitali potrebbe avere implicazioni importanti per gli assetti finanziari globali e persino sul funzionamento stesso dei nostri sistemi economici.

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La salute non è più un diritto, con l’autonomia differenziata sarà persino peggio

L’autonomia differenziata arriva come colpo finale alla capacità del Servizio Sanitario Nazionale di rispondere alla propria funzione di tutela della salute. Con 20 sistemi sanitari differenti e non solidali, vedremo presto peggiorare numeri e qualità delle prestazioni al Sud, e aumentare la migrazione sanitaria verso il Nord.

A inizio 2024 la Fondazione Gimbe aveva evidenziato come, nel 2021, il valore della mobilità sanitaria regionale, ovvero della dinamica che porta i cittadini a spostarsi per ottenere delle cure, aveva visto un saldo nettamente positivo per il Nord Italia. 4,25 miliardi, con Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna che raccoglievano il 93,3% di questa somma.

Con la fine dell’intervento pubblico e le forme di autonomia già garantite, il divario è tornato a riaumentare tra Meridione e Settentrione. E il Nord Italia ha continuato a drenare risorse dal Mezzogiorno, attraverso canali differenti come quello sanitario.

Il Presidente della Fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta, aveva parlato di “un gap diventato ormai una frattura strutturale destinata ad essere aggravata dall’autonomia differenziata, che in sanità legittimerà normativamente il divario Nord-Sud, amplificando le inaccettabili diseguaglianze nell’esigibilità del diritto costituzionale alla tutela della salute“.

Il fatto che anche questo principio della carta fondante la nostra Repubblica non sia già più rispettato è confermato dal CREA Sanità (Centro per la Ricerca Economica Applicata in Sanità). Nato nel 2013 per iniziativa dell’Università di Tor Vergata Federazione Italiana Medici di Medicina Generale (F.I.M.M.G.), le sue analisi parlano di un’Italia spaccata a metà.

104 ricercatori hanno elaborato vari dati e quel che è emerso è che solo il 55% degli italiani vive in regioni con risultati soddisfacenti per la tutela della salute. 26 milioni di persone non ricevono cure adeguate, e ben 7,5 milioni di esse (tutte tra Sicilia, Molise, Basilicata e Calabria) possono usufruire solo di prestazioni fortemente insufficienti.

La valutazione non si limita agli aspetti strettamente sanitari, ma riguarda anche quelli sociali, economici e di equità dell’assistenza. L’indice che ne è stato costruito va da 0 a 100, e in questo caso basterebbe arrivare a 45 per ottenere la sufficienza: fino alla Toscana e alle Marche quella soglia è raggiunta, dall’Umbria in giù no.

L’autonomia differenziata arriva dunque unicamente a sancire la divisione già esistente tra due Italie. Bisogna però ricordare che qualsiasi riflessione intorno all’autonomia differenziata che parli di uno scontro tra il Nord e il Mezzogiorno nasconde il fatto che il conflitto non è mai orizzontale (tra le regioni), ma verticale (tra classi privilegiate e classi subalterne).

Il Rapporto Ospedali & Salute dell’AIOP (Associazione Italiana Ospedalità Privata), stilato in collaborazione con il CENSIS, ha calcolato che la percentuale dei pazienti che hanno rimandato o rinunciato alle cure sanitarie arriva al 42% per chi dichiara fino a 15 mila euro. Percentuale che diminuisce con l’aumentare dei redditi.

Lo stesso vale se si osserva in quanti hanno rinunciato a curarsi per sostenere altre spese: uno su due tra i redditi bassi, meno di uno su quattro per quelli alti. E anche al Nord si affrontano tempi biblici per poter accedere a determinate prestazioni.

Se a uno sguardo generale, sopra Roma sembrano passarsela meglio, la linea di faglia è sempre di classe. Sempre nel rapporto AIOP viene esplicitato che si determina “una divaricazione tra coloro che possono rivolgersi al mercato delle prestazioni sanitarie al di fuori del SSN e coloro che, per ragioni economico-sociali, non possono ricorrere alla sanità a pagamento“.

Infatti, la percentuale di coloro che si rivolgono a quest’ultima aumenta con l’aumentare dei redditi. Insomma, i ricchi hanno risolto il problema della fine della sanità pubblica pagando, gli altri che decidano se mangiare o curarsi.

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Viaggio al termine della città per rilanciare il “principio speranza” di un’utopia concreta

di Gioacchino Toni

Leonardo Lippolis, Viaggio al termine della città. Le metropoli e le arti nell’autunno postmoderno (1972-2001), elèuthera, Milano 2024 (I ed. 2009), pp. 184, € 16,00

La prefazione alla nuova edizione di Viaggio al termine della città di Leonardo Lippolis si apre richiamando la scena del film Jubilee (1978) di Derek Jarman che mostra, in una periferia londinese in abbandono, tre giovani punk appoggiati ad un muro di cemento su cui è tracciata a spray la scritta “post modern”. Alcuni dei paesaggi urbani scelti da Jarman sul finire degli anni Settanta per mettere in scena lo sgretolamento sociale e urbanistico, insieme al frantumarsi delle speranze popolari postbelliche per un futuro, se non radioso, almeno decente, a distanza di pochi decenni sono stati gentrificati sulle macerie di una working class a cui è stata preclusa l’identità collettiva. Occorre riconoscere che l’Iron Lady dai capelli cotonati insediatasi al 10 di Downing Street non si è limitata a vaneggiare messianicamente della “fine della società” ma, per raggiungere lo scopo, non ha mancato di arrotolarsi le maniche dei suoi eleganti ed impettiti tailleur per smembrare a colpi di mannaia gli ultimi brandelli di un tessuto sociale ormai lacero.

Non poteva essere la scena punk londinese, condannata a venire velocemente recuperata e ridotta a patinato fenomeno di consumo per turisti, a scrivere la colonna sonora del funerale di quella civiltà urbana mostrata agonizzante dal film di Jarman; al requiem ha provveduto l’universo musicale post-punk delle vecchie città industriali del nord, come Manchester e Sheffield, città che hanno conosciuto la durezza e la violenza della rivoluzione industriale e che, in apertura degli anni Ottanta, ai figli della working class e della piccola borghesia hanno potuto offrire soltanto alienazione, inquietudine e smarrimento1.

L’associazione tra il concetto di postmoderno e la sensazione di una civiltà urbana al collasso suggerita da Jarman rappresenta una sintesi efficace di quel “viaggio al termine della città” condotto da Lippolis per indagare la crisi della metropoli e dell’immaginario di un’epoca in via di dissoluzione. Lo studioso delimita simbolicamente il crepuscolo di quella civiltà tra due crolli: la distruzione nel 1972, per volontà degli abitanti, del complesso residenziale razionalista di Pruitt-Igoe a Saint-Louis realizzato da Minoru Yamasaki, e l’abbattimento terroristico delle Twin Towers newyorkesi progettate dal medesimo architetto. È in questo lasso di tempo che, secondo lo studioso, è maturata «la sensibilità di un nuovo tramonto dell’Occidente, ben leggibile proprio attraverso la percezione della vita delle grandi metropoli occidentali» (p. 28).

Lippolis propone dunque una lettura della fine della civiltà urbana e delle sue utopie ricorrendo alle categorie della distopia e dell’eterotopia. Ad arginare il diffondersi, sul finire degli anni Settanta del secolo scorso, della improduttiva sensazione di no future, ha provveduto il mito delle Smart City con cui il capitalismo ha saputo abilmente rispolverare la categoria dell’utopia che si realizza, seppure per una esigua minoranza privilegiata imponendo ai più le banlieue, quando non le bidonville e gli slum.

Come la quarta rivoluzione industriale rivendica la propria filiazione dalle origini della civiltà delle macchine, cosi Smart City ripropone la stessa idea di vita e di felicità della città novecentesca, una macchina che deve aggiornare le risposte ai bisogni utilitaristici dell’uomo moderno: dalla città-fabbrica alla città-fabbrica digitale. In quanto prodotto dell’urbanizzazione capitalistica del mondo, la Smart City è programmata per continuare a distruggere i residui valori storici della vita urbana come luogo di convivenza, mutualismo, reciprocità e, a volte, democrazia diretta. Ciò che resta dell’agorà pubblica e della vita activa del cittadino inteso come animale politico si smaterializzerà sempre più nella solitudine interconnessa delle piazze virtuali e del distanziamento sociale, nella distrazione annoiata dei nuovi consumi gestiti dal capitalismo della sorveglianza (pp. 11-12).

Così come James G. Ballard ha mirabilmente messo in scena l’alienazione dello spazio urbano dell’ultimo scampolo di Novecento, Philip K. Dick ha saputo prefigurare le degenerazioni del capitalismo più avanzato che hanno condotto all’inospitalità e all’inabitabilità della Terra, alla disumanizzazione di una società ove la merce esercita un potere totalitario, narcotico e religioso, ai processi di ibridazione tra umani e macchine ed al ricorso all’intelligenza artificiale per controllare e sfruttare quel che resta del Pianeta e dell’umanità.

Le ambientazioni dei romanzi di Dick sono spesso città lugubri – mondi urbani terrestri intrisi di solitudine o tetre periferie di colonie extraterrestri – luoghi in cui l’umanità, sottomessa a stati di polizia e regimi totalitari retti da grandi multinazionali, vive sonnambula e anestetizzata. In molti di questi ambienti urbani tutto e automatizzato e smart: veicoli volanti autopilotati che interagiscono con i passeggeri, case governate da sistemi di sensori e comandi vocali, elettrodomestici e computer comandati a gesti. Vere e proprie anticipazioni di Smart City che non riguardano solo l’hardware ma anche il suo software: la polizia predittiva, al centro del racconto Rapporto di minoranza da cui e tratto il film di Spielberg, è diventata realtà nei dipartimenti di polizia di mezzo mondo che, in attesa dei precog, per prevenire i reati si affidano all’intelligenza artificiale e ai big data.
Dick associa dunque la catastrofe ambientale, sociale e mentale dell’umanità tardocapitalista a un futuro urbano ipertecnologico, con un’insistenza che suggerisce un significativo nesso di causalità. Questa compensazione di una vita ridotta a sopravvivenza tramite illusioni sensoriali e protesi tecnologiche illumina Smart City come surrogato digitale della città novecentesca (pp. 14-15).

Attraverso sapienti riferimenti cinematografici, musicali e letterari, il viaggio di Lippolis tratteggia la città-fabbrica novecentesca, tetra ma conflittuale, e la luccicante, lobotomizzata Smart City, proponendo un percorso che attraversa la crisi della città come luogo di convivenza, mutualismo, reciprocità e, persino, di sperimentazioni di democrazia diretta, delineando un declino dell’immaginario urbano che sembra sancire la morte dell’agorà pubblica e il trionfo della “solitudine iperconnessa” delle odierne piazze virtuali, rivelatesi incapaci di offrire partecipazione reale ed agire politico trasformatore.

Mentre lo story telling dominante impone Smart City come “città radiosa” della quarta rivoluzione industriale, Viaggio al termine della città di Lippolis tenta di rilanciare un “principio speranza” che sappia opporsi tanto alla distopia del no future, quanto all’oblio digitalizzato.

In questo senso, se la fantascienza di Dick rimane una guida fondamentale per intuire la distopia che si proietta al di là degli schermi trasparenti di Smart City, dal punto di vista del pensiero politico occorre rilanciare il “principio speranza” di un’utopia concreta di cui parlava Ernst Bloch alla fine degli anni Cinquanta, unico antidoto al sentimento angosciante di no future annunciato già alla fine degli anni Settanta e oggi apparentemente inscalfibile. Per fare questo diventa necessario riempire quel “deserto della critica” provocato da decenni di decostruzionismo, tornare alle origini del “vicolo cieco dell’economia” imboccato ormai troppo tempo fa e riannodare i fili di un pensiero che risulta tanto meno lontano quanto più coglieva la radice di quel mondo in cui siamo sempre più immersi: la natura catastrofica del cosiddetto progresso; la sempre più evidente antiquatezza dell’uomo rispetto alla civiltà delle macchine; la non neutralità della tecnologia nell’universo capitalistico e il dilagare pervasivo delle sue nocività; il senso della superfluità della vita umana rispetto al totalitarismo dell’homo economicus; la passività, l’isolamento e l’annientamento di ogni esperienza comunitaria indotti dalla mercificazione di ogni aspetto della vita; la distruzione avvilente della plurisecolare morale popolare di giustizia sociale, la common decency, a opera dell’ideologia e della neolingua progressiste (pp. 16-17).

Note

1) Gioacchino Toni, Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Contesto e radici, in “Carmilla online”, 17 ottobre 2021; Gioacchino toni, Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Immaginari ed eredità, in “Carmilla online”, 19 ottobre 2021.

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Purple Rain, i 40 anni della pioggia viola che stregò il mondo

L'anniversario

Una voce flebile sussurra "I never meant to cause you any sorrow..." facendo ammutolire l'intero club, in una notte afosa di Minneapolis. E' il 3 agosto del 1983. Il cantante imbraccia una chitarra, ha un'acconciatura alla Little Richard e indossa giacca viola e camicia bianca con le ruches. Il suo nome è Rogers Nelson, per gli amici Prince. Dopo La lunga introduzione strumentale di una chitarrista appena diciottenne, Wendy Melvoin (la metà del leggendario duo Wendy & Lisa), il Principe di Minneapolis inizia a cantare un brano che avrebbe fatto la storia, dando il titolo all'album pubblicato poco più di un anno dopo, il 25 giugno 1984. "Purple Rain", sesto Lp nato dalla fervida fucina di Prince. Poco più di un mese dopo, il 27 luglio, uscirà l'omonimo film a cui il disco faceva da colonna sonora. Una pellicola bizzarra, diretta da Albert Magnoli, in cui il buon Rogers Nelson vestiva i panni di The Kid, un giovane cantante da night-club in perenne competizione con altre due band, destinato a sfogare sul palco tutte le frustrazioni di una vita familiare deprimente, a causa dei suoi genitori litigiosi e violenti. The Kid canta di una pioggia viola che appartiene alla fine del mondo: "Blood and sky mixed (I know times are changin’/ it’s time we all reach out/ for something new…)" e che ha a che fare con il restare accanto alle persone care, fidandosi e affidandosi. La pioggia è l’elemento purificatore, mentre il viola è l’alba, un nuovo inizio.

Di lì a poco, l'album e il film proietteranno Prince nella stratosfera della pop culture. Il genio di Minneapolis inizierà a riempire le arene, al pari di Bruce Springsteen, Madonna e, soprattutto, quel Michael Jackson con il quale ingaggerà una perversa (e in parte fuorviante) competizione.

Magistrale sintesi di soul, funk e rock hendrixiano (ascoltare per credere l'assolo finale della title track), "Purple Rain" venderà oltre 25 milioni di copie in tutto il mondo, mentre il film incasserà al botteghino oltre 70 milioni di dollari contro un budget di poco più di sette.

Il resto è storia. Di un album, di un brano e di un genio, che avrebbe continuato a dispensare perle di creatività per almeno altri tre decenni, fino alla sua tragica - e Dio sa quanto prematura - scomparsa, avvenuta il 21 aprile 2016. "Sometimes its snows, in April", cantava. E in aprile se n'è andato, lasciando un vuoto incolmabile tra i suoi fan e tra tutti gli appassionati di musica.

Ora, a quarant'anni esatti dall'uscita di quel capolavoro, la sua Minneapolis non aspetta altro che festeggiare il suo genio. Oltre a una serie di concerti che, tra gli altri, si svolgeranno proprio nello storico locale in cui "Purple Rain" debuttò nel 1983, ai fan sarà data la possibilità di vedere da vicino, gratuitamente, il costume che Prince indossò nel film. L'abito sarà infatti in mostra fino al 27 luglio nell'atrio della Gale Family Library all'interno del Minnesota History Center. Il costume, disegnato da Louis Wells, Vaughn Terry, e Marie France, è stato acquisito nel 1987 dall'istituzione storico culturale. Concerti e tavole rotonde si terranno anche a Paisley Park, il quartier generale in cui Prince visse fino a quel tragico giorno del 2016, quando - secondo i risultati dell'autopsia - un'overdose accidentale da Fentanyl se lo portò via.

"Purple Rain" sbarcherà anche sui palcoscenici. L'anteprima mondiale, prima del debutto a Broadway, dell'adattamento teatrale si terrà allo State Theater di Minneapolis. L'opera, diretta da Lileana Blain-Cruz, è basata sulla sceneggiatura originale scritta da Albert Magnoli e William Blinn.

Oggi, 25 giugno, inoltre, il film originale esce in versione 4K e su diverse piattaforme digitali, sotto l'egida di Warner Home Video. La nuova versione in 4K Uhd della pellicola, che nel 1985 vinse il premio Oscar per la miglior colonna sonora, comprende anche un bonus content con otto video musicali.

(Claudio Fabretti)

La recensione

È durante il giro di concerti lungo tutto il Nord America che Prince presenta a sorpresa alcune canzoni che andranno a comporre il sesto album. Tutto avviene una sera dell'agosto 1983, in Minnesota, quando il pubblico radunato al First Avenue per un concerto di beneficenza si trova ad applaudire tra le altre "I Would Die For You", "Baby I'm A Star" e "Purple Rain". Le cose sul palco funzionano talmente bene che Prince decide di usare le registrazioni per il suo nuovo progetto in studio. Ma c'è di più: durante il lungo tour il musicista ha seriamente pensato a una sceneggiatura cinematografica da concretizzare in un vero e proprio lungometraggio dal sapore autobiografico, dove si racconteranno le vicende di Kid, l'alter ego dello stesso Prince, combattuto tra una vita familiare non proprio idilliaca, con un padre dispotico e violento, e le sue aspirazioni artistiche, spesso frustrate. In mezzo, la storia d'amore tra il protagonista e la solita splendida ragazza, inevitabile in script di questo genere. Le riprese, iniziate a Minneapolis nel novembre dello stesso anno, avrebbero portato al rock movie "Purple Rain", affidato alla regia di un certo Albert Magnoli che si trovò a filmare una produzione tutt'altro che milionaria. La colonna sonora sarebbe stata affidata alle nuove tracce registrate questa volta da Prince in piena collaborazione con il suo gruppo denominato Revolution. Ensemble che aveva accolto tra le sue braccia la nuova chitarrista Wendy Melvoin, subentrata al dimissionario Dez Dickerson.

L'esperienza cinematografica conferma l'espansione degli interessi del nostro ma anche l'intenzione di allargare quello che sta diventando un vero e proprio clan. E tra musicisti e artisti che si avvicendano accanto a Rogers Nelson non possono certo mancare le belle donne che, con la loro sensualità, vengono spesso celebrate dalle liriche spinte e provocatorie dell'artista. E se durante il tour seguito a "1999", l'accompagnatrice principale era stata Vanity (poi leader delle Vanity 6, prodotte dalle stesso Prince, attrice e sposa di altri musicisti), per il 1984 la protagonista assoluta è la sconosciuta Apollonia Kotero, portata addirittura di fronte ai microfoni durante le registrazioni dell'imminente sesto album. E quello che accade durante l'anno che celebra l'America e le Olimpiadi di Los Angeles ha dell'incredibile: in una stagione a stelle e strisce dominata in lungo e in largo dalla seconda British Invasion (con Duran Duran, Culture Club, Eurythmics, ma anche Def Leppard, sugli scudi), di fronte all'immenso successo di Michael Jackson e dei quasi dissolti Police, Prince frantuma quasi tutti i record, battendo in volata il contemporaneo ritorno di Bruce Springsteen nato in the Usa: "Purple Rain", nella sua versione a 33 giri, si issa in cima alle classifiche americane per ventuno settimane consecutive (solo "Thriller" aveva saputo fare meglio con 28!), produce due singoli al numero uno, "When Doves Cry" e l'omonima ballata, vende otto milioni di copie (cifra oggi salita a 15, sempre per quel che riguarda il mercato statunitense), e si estende in un tour estenuante e spettacolare. Ma le sorprese non sono certo finite: il film, costato non certo uno sproposito, diviene un successo enorme e supera i 100 milioni di dollari d'incasso, portando la colonna sonora addirittura al premio Oscar!

In questo tornado di eventi, Prince non perde certo di vista l'aspetto musicale. La prima novità riscontrabile è strumentale: se il precedente lavoro era di fatto dominato dall'impasto tastieristico, in "Purple Rain", Prince decide di mettere in primo piano la chitarra. E tra svisate, ricami ed espressioni facciali del titolare, tutto sembra ricondurre al mito di Jimi Hendrix. E i media non si tirano indietro, alimentando il paragone. Che Prince, giudicato spesso vanitoso e presuntuoso, soffre e giudica scomodo: "Sono più legato allo stile di Carlos Santana, al suo modo di suonare più delicato, femminile", sussurra, a più riprese, un principe ormai deciso a non rivelare più niente agli organi di stampa. Ma l'intro dell'album non ammette repliche: "Let's Go Crazy" è un irruento e agilissimo esempio di rock adrenalinico; un'apertura affidata alla voce di Prince in pose da predicatore, il suo invito a lasciare i pensieri dietro l'angolo, a scatenarsi in una catartica danza. I Revolution costruiscono un'impalcatura sempre sorretta dall'ormai classico Minn-Sound, e la chitarra del maestro a condurre le danze, fino all'estremo sacrificio, le ultime note tirate a grande velocità con l'evidente supporto hendrixiano del wah wah. Ma non c'è respiro: le rullate pirotecniche, l'ammaliante suono dei synth quasi in odore di psichedelia, un'andatura incalzante utile a descrivere la nuova love story tra Prince e Apollonia, chiamata anche a pertecipare ai cori in "Take Me With You". Una passione che non frena di fronte a nulla: "Beautiful Ones", una ballata spaziale, baciata da una produzione iper-moderna, con il drumming rallentato e un incessante uso di delay, l'invocazione di Prince che non cade mai nel mieloso, grazie anche a un interpretazione vocale ora disperata, ora viziosa, spesso isterica. Il ritorno all'irruenza viene accolto dalla chitarra insinuante di "Computer Blue", ma la produzione stellare con un lavoro di echi incredibile e la sovrapposizione delle voci cancella ogni idea di rozzezza senza per questo snaturare l'animo rock del brano, dove nel finale Prince rende anche i suoi omaggi alla scuola degli heavy-singer. La nuova vicenda dalle tinte erotiche, a tratti molto hardcore, vede protagonista una famelica femme fatale, quella "Darling Nikki" che il genietto incontra nella hall di un albergo a cinque stelle, sorprendendola nell'atto di masturbarsi con le pagine di un quotidiano. Sostenuta da un struttura armonica coraggiosa e da un andamento futuristico, la donna seduce Prince e gli fa vivere una notte di sesso estremo, lasciandolo solo e inerte nel letto disfatto.

Il mega-successo di "When Doves Cry" (oltre due milioni di copie vendute) viene inaugurato da una distorta sequenza pentatonica per confluire in un andamento sincopato e obliquo dove non c'è traccia di basso! Quasi la descrizione di una storia giunta al sua capolinea, la confessione estrema dell'autore di fronte alla solitudine di un amore spezzato. Il finale è affidato a un clamoroso e inatteso solo tastieristico, velocissimo eppure poetico, degno per un finale di stampo quasi cinematografico. Con "I Would Die For You" si entra nella dimensione live, con Prince che confessa, sul consueto ed eccitante passo tipico del Minneapolis-Sound, con spazzole, tastiere ed echi, di non essere né uomo né donna, ma solo un comprensivo amante. Il concerto prosegue con il brano forse più tradizionale nel suo andamento funky-soul, "Baby I'm A Star", contraddistinto da un ritmo potente, lucido e preciso. L'ormai mitico finale è affidato alla ballata "Purple Rain", eterno evergreen del Principe, manifesto anche estetico del suo periodo viola (o porpora): solenne, romantica, con un trasporto chitarristico lirico e hendrixiano e la conclusione orchestrale, dilatata, per nove minuti di estasi pop.

Grazie alle canzoni di "Purple Rain", Prince trova la quadratura appropriata per sfondare definitivamente anche a livello sociale. Il segreto è tutto in un songwriting asciugato, modellato verso una forma di canzone più classica, almeno a livello di minutaggio dei singoli brani, ma mai compromessa alle logiche di mercato, se non a quelle dello stesso Prince.

(Davide Sechi)

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La camicia di forza dell’austerity si può allentare. Ma il governo tace

di Emiliano Brancaccio

Come temuto, la minaccia dell’austerity riaffiora all’orizzonte della politica economica comunitaria. Il cartellino giallo della Commissione europea è infatti giunto: assieme ad altri sei paesi, l’Italia sarà sottoposta a una procedura d’infrazione per deficit pubblico eccessivo.

L’ammonizione di Bruxelles è in parte mitigata da un giudizio sostanzialmente positivo sul quadro macroeconomico italiano. In particolare, la Commissione nota con soddisfazione che «le condizioni del mercato del lavoro sono migliorate negli ultimi anni e non si sono tradotte in pressioni salariali». Gentiloni e colleghi, in altre parole, si rallegrano che la crescita dell’occupazione non abbia favorito lo sviluppo delle lotte sindacali. Anche per questo motivo, quando a settembre si faranno tutti i conti la Commissione sarà un po’ più indulgente col governo. Meloni e Giorgetti ringraziano, e poco importa che nell’ultimo decennio il potere d’acquisto di lavoratrici e lavoratori sia caduto di oltre 3 punti percentuali e che l’inflazione abbia pure vanificato i bonus fiscali e le minori aliquote. Il minuetto tra autorità nazionali ed europee va dunque avanti sereno, sulle spalle della classe subalterna.

Ma c’è di più. Le prime stime indicano che l’avvio della procedura d’infrazione dovrebbe implicare una stretta di altri dieci miliardi sul bilancio pubblico. In realtà, se anche l’ammonizione non fosse giunta, le nuove regole europee avrebbero comunque imposto una manovra restrittiva per rispettare il sentiero di abbattimento del debito. Sia come sia, nel complesso bisognerà pescare una trentina di miliardi entro fine anno tra minori spese e maggiori entrate. In teoria, il boom dei profitti causato dall’inflazione aprirebbe sconfinate praterie per un cospicuo prelievo sui redditi da capitale. Ma la realtà è che il governo Meloni preferisce radere altri campi. Corre voce che alla fine deciderà di tagliare su investimenti al sud, sanità pubblica e contratti dei dipendenti statali. Sempre la stessa musica di classe.

È alquanto ironico che questi primi cenni di ritorno all’austerity europea avvengano nel silenzio delle sedicenti forze «sovraniste» oggi al governo, che fino a ieri facevano dell’uscita dall’euro la panacea di ogni male nazionale. Gli agitatori che all’epoca denunciavano ogni stortura della politica economica europea appaiono oggi appagati, come pasciuti dormienti sulle cadreghe conquistate.

La disattenzione è tale che alla maggioranza di governo sembrano sfuggire alcune crepe nella nuova camicia di forza europea che, se sfruttate, potrebbero almeno allentare le future strette di bilancio.

La crepa più interessante riguarda il fatto che l’attuale regolamento Ue apre finalmente a un «dibattito sul metodo scientifico» per il calcolo del cosiddetto «Pil potenziale», vale a dire il livello di «equilibrio» dell’economia. Ancora oggi la Commissione europea utilizza un metodo a dir poco folle, che in alcuni casi ha portato a giudicare livelli di disoccupazione elevatissimi – anche superiori al 10 percento – come situazioni di «equilibrio naturale» dell’economia. Il risultato di questa metodologia anti-scientifica è stata una continua sottostima del Pil potenziale, e quindi una continua esagerazione del rapporto tra deficit pubblico e Pil potenziale. Insomma, il metodo della Commissione ha reso ancor più gravosa la politica di austerity.

Un’onda di critiche proveniente da vari premi Nobel per l’economia, e persino dal Fondo Monetario Internazionale, ha costretto il legislatore europeo a contemplare l’apertura di una discussione sulla metodologia di calcolo del Pil potenziale.

Fino a questo momento, tuttavia, nel governo italiano nessuno ha aperto bocca. Per quel che sappiamo, alle trattative di settembre sui tagli di bilancio i tecnici del ministero dell’economia si presenteranno a Bruxelles più realisti del re: ossia, con un metodo di calcolo pressoché identico a quello della Commissione.

Anziché correggere misure del Pil insensate e foriere di ulteriore austerity, Giorgetti e soci preferiscono forse tosare ancora un po’ sanità e stipendi? Anche su questa mistificazione «di classe» della scienza macroeconomica europea sarebbe ora di battere un colpo.

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Iran - Urne aperte per il nuovo presidente. Si teme una bassa affluenza

Oggi si aprono le urne in Iran per sostituire il defunto capo dello stato Ebrahim Raisi morto in un incidente aereo lo scorso 19 maggio assieme ad altri alti funzionari della Repubblica islamica. Milioni di iraniani sperano con il loro voto di indirizzare le future scelte economiche, sociali e di politica internazionale del Paese soggetto a pesanti sanzioni decise dagli Stati Uniti, con un programma nucleare non più legato all’accordo internazionale del 2015 e che lo scorso aprile ha sfiorato una guerra totale con Israele. Sarà determinante, perciò, per il risultato delle presidenziali anche l’affluenza alle urne, in calo in tutte le ultime consultazioni elettorali.

Dopo la selezione delle candidature vagliate dal Consiglio dei Guardiani – composto da sei teologi nominati dalla guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, e da sei giuristi approvati dal Parlamento – solo 6 tra gli 80 pretendenti sono stati ammessi. Qualche ora fa due candidati hanno annunciato il proprio ritiro; la competizione elettorale riguarderà quindi l’ultraconservatore e negoziatore sul nucleare Saeed Jalili, il riformista Massoud Pezeshkian e i conservatori “pragmatici” Mohammad Bagher Qalibaf, Mustafa Pourmohammadi.

I progressisti puntano su Pezeshkian che è stato vicepresidente del Parlamento ed ex ministro della Sanità dal 2001 al 2005 sotto la presidenza di Mohammad Khatami. Di etnia azera, come molti iraniani, Pezeshkian ha ricevuto il sostegno di Mohammad Javad Zarif, ex ministro degli Esteri ai tempi del presidente Hassan Rohani. Afferma di voler rinegoziare l’accordo sul nucleare sulla base di quello raggiunto nel 2015 (da cui gli Stati Uniti di Donald Trump si sono ritirati unilateralmente nel 2018). In politica interna Pezeshkian ha criticato la repressione delle proteste scoppiate nel settembre 2022 dopo la morte Mahsa Amini avvenuta in seguito all’arresto da parte della polizia morale. A suo sfavore c’è la disillusione che regna tra i sostenitori delle riforme e della riduzione del potere delle autorità religiose che potrebbero preferire l’astensione.

Gli altri tre candidati, pur considerando le differenze che hanno espresso in campagna elettorale e che hanno fatto parlare i media locali e internazionali di “frattura tra i conservatori”, non sono portatori di novità di rilievo. Tutti e quattro inoltre non appaiono in grado di introdurre i cambiamenti necessari per affrontare la crisi economica che è il problema centrale nella vita di gran parte degli iraniani.

È opinione diffusa tra gli analisti che Qalibaf, probabilmente, otterrà il maggior numero di voti, ma non la maggioranza necessaria per assicurarsi la vittoria al primo turno. Il 24 giugno gli istituti Ispa e Meta hanno pubblicato i risultati dei rilevamenti effettuati il 22 e 23 giugno. Pezeshkian ha battuto di un soffio Jalili nel sondaggio Ispa con il 24,4% contro il 24%. Qalibaf era al terzo posto, con il 14,7%. Anche il sondaggio di Meta vede Pezeshkian in testa con il 24,4%, appena sopra Qalibaf con il 23,4%. Al terzo posto c’è Jalili, con il 21,5%. Tuttavia questo sondaggio mostra anche che in uno scontro diretto, Qalibaf batterebbe Pezeshkian con il 50,3% dei voti contro il 37% del suo avversario riformista. Invece una potenziale battaglia tra conservatori, Qalibaf uscirebbe in vantaggio con il 40,5% contro il 38,5% di Jalili.

La guida suprema Khamenei non ha espresso una preferenza per uno dei candidati. Piuttosto ha sottolineato l’importanza di un’alta partecipazione elettorale, definendola “una delle ragioni per cui la Repubblica islamica ha avuto la meglio sui suoi nemici”. “La forza dell’Iran non sta nel possedere una serie di missili, ma nella partecipazione attiva dei suoi cittadini al processo elettorale”, ha detto in un discorso televisivo.

Si prevede che la partecipazione al voto sarà uguale o leggermente superiore al 48,8% delle elezioni del 2021. Molto dipenderà dall’affluenza della Generazione Z, in particolare a Teheran e nelle grandi città, i giovani sono più espliciti nell’esprimere la disillusione per l’immobilità sostanziale dell’Iran. E hanno svolto un ruolo fondamentale nel movimento di protesta “Donne, Vita, Libertà” del 2022-23. Le loro specifiche richieste li hanno spinti in prima linea nel dibattito politico iraniano. Pezeshkian è tra i pochi politici che hanno compiuto sforzi significativi per coinvolgere e ascoltare i giovani iraniani, riconoscendone l’impatto. In netto contrasto con gli altri tre candidati, che respingono l’idea di un reale divario generazionale in Iran.

Durante un incontro avuto da Pezeshkian con studenti universitari, un giovane ha espresso crudamente la disillusione dei suoi coetanei, dicendo: “Il 90% dei ragazzi iraniani cerca di convincere gli altri a non votare, piuttosto che per chi votare”. Lamentandosi della situazione, ha aggiunto “Sto studiando e frequentando l’università solo per fuggire da questo Paese... non ci interessa se l’Iran sarà stabile o no. Perché? Perché anche se diventi presidente per quattro o otto anni, questo Paese non è riparabile”. Infine, sottolineando la profondità del malcontento, ha concluso: “I ragazzi iraniani non dicono più che non vogliono questa persona come presidente o quel funzionario in quella posizione; dicono che non vogliono affatto questa struttura”.

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28/06/2024

Pom Poko (1994) di Isao Takahata - Minirece

Guerra in Ucraina - Mosca minaccia Washington dopo la strage di Sebastopoli

di Francesco Dall’Aglio

Nella mattinata di domenica 23 giugno un missile ATACMS con munizionamento a grappolo lanciato dall’Ucraina ha colpito una spiaggia molto frequentata della Crimea, Uchkuevka, tra la baia di Sebastopoli e l’aeroporto di Belbek.

Il missile faceva parte di una salva intercettata dall’antiaerea russa e non è chiaro dove fosse diretto, se il suo obiettivo fosse davvero la spiaggia o se sia stato deviato con contromisure elettroniche o colpito dalle difese russe. Il numero di vittime e di feriti è molto più basso di quello che ci si poteva aspettare perché, come si può vedere dai filmati di alcune telecamere di sicurezza poste sulla spiaggia, gran parte delle sfere di metallo che costituiscono il carico di quel tipo di munizioni sono finite in acqua. I successivi eventi del Dagestan, sempre domenica, hanno aggiunto ulteriore tensione e a peggiorare le cose ci si è messa una serie di commenti a dir poco improvvidi da parte delle autorità ucraine, dell’Unione Europea e degli USA che certamente non hanno rasserenato le autorità russe. Mychajlo Podoljak ha twittato che la Crimea, oltre ad essere territorio occupato, è una base militare e i civili russi che vi si trovano sono ‟occupanti civili”[1]; Peter Stano, portavoce dell’Unione Europea per gli affari esteri, in risposta alla richiesta di un commento da parte della TASS ha dichiarato che i rapporti russi ‟hanno credibilità prossima allo zero”[2], mentre il generale Pat Ryder, portavoce del Dipartimento della Difesa statunitense, in una conferenza stampa a dichiarato di non avere ‟alcuna informazione che indicasse se dei civili erano o non erano stati uccisi”, ma che ne avrebbero discusso con gli ucraini [3]. Il ciclo di dichiarazioni ufficiali è stato chiuso dal portavoce della Dipartimento di Stato, Matthew Miller, che pur rammaricandosi per la perdita di vite umane ha detto che le armi statunitensi servono all’Ucraina per difendere il proprio territorio di cui la Crimea fa parte, e che la Russia potrebbe chiudere il conflitto e le sofferenze che porta ritirandosi dal territorio ucraino [4]. Proprio questa, come vedremo, è la dichiarazione che ha maggiormente messo in allarme Mosca.

La reazione ufficiale russa è stata molto dura e si è diretta più che contro l’Ucraina contro gli Stati Uniti, accusati senza mezzi termini di essere i principali responsabili di un attacco terroristico perpetrato contro civili inermi poiché i lanci dei missili ATACMS sono programmati, secondo i russi, da specialisti statunitensi in base ai dati forniti dall’intelligence USA. L’ambasciatrice statunitense a Mosca, Lynne Tracy, è stata convocata al Ministero degli Esteri e sono state annunciate ‟misure di rappresaglia” non specificate[5]. Al di là delle vittime civili, la rabbiosa reazione russa deriva principalmente da due motivi: l’impiego nell’attacco di armi a lungo raggio fornite dagli USA e soprattutto il fatto che siano state adoperate in Crimea. La questione dell’autorizzazione statunitense a impiegare armi a lungo raggio sul territorio russo, e non solo nella zona di combattimento o nei territori occupati, ha tenuto banco per settimane raggiungendo a volte effetti ridicoli. Alla fine era stato trovato un compromesso che garantisse un vantaggio militare all’Ucraina ma allo stesso tempo non fosse considerato dalla Russia come una escalation troppo grave: le forze armate ucraine hanno ottenuto il permesso di colpire oltreconfine entro un raggio di 100 chilometri nel settore di Kharkiv e in generale contro bersagli, aerei o terrestri, che stessero preparandosi a colpire il territorio ucraino dalla Russia.[6] Dalla Crimea però, a parte il fatto che le vittime sono civili, non stava partendo nessun attacco e la distanza è ben superiore a 100 chilometri qualunque sia stato il punto di partenza dei missili. La cosa più inquietante per i russi, però, è stato l’elemento retorico del ‟territorio ucraino occupato” dal quale devono essere allontanati e il fatto che evidentemente questo territorio continui a includere la Crimea, cosa che per la Russia non è negoziabile e non lo era mai stata, nemmeno durante i colloqui del marzo-aprile 2022.

La rappresaglia minacciata dalla Russia va dunque intesa come diretta contro gli Stati Uniti, non contro l’Ucraina. E secondo le regole della proporzionalità, verosimilmente contro i sistemi di intelligence, ovvero i droni di osservazione General Atomics MQ-9 Reaper o i ben più grandi e costosi Northrop Grumman RQ-4B Global Hawk che stazionano quasi in permanenza sul Mar Nero. Sebbene non dirigano il tiro delle artiglierie ucraine, come spesso erroneamente si dice, forniscono però intelligence fondamentale prima e dopo gli attacchi, tenendo sotto osservazione i bersagli e quantificando i danni. È proprio l’intelligence il contributo più importante che la NATO sta dando all’Ucraina, al di là delle forniture di armi e munizioni, ed è la cosa che i russi soffrono di più. Sono note già due azioni ostili contro questi sistemi di sorveglianza, ufficialmente fatte passare come malintesi o, appunto ‟azioni non professionali”: il 29 settembre 2022 un Su-27 aveva lanciato un missile ‟nelle vicinanze” di un Boeing RC-135 Rivet Joint della RAF,[7] ma l’incidente più spettacolare, anche perché ripreso dalle camere di bordo, era avvenuto il 14 marzo 2023 quando un altro Su-27 aveva prima irrorato di carburante un MQ-9 Reaper statunitense e poi ne aveva intenzionalmente speronato l’elica di coda, facendolo precipitare nel Mar Nero.[8] In molti dunque si aspettavano una ripetizione di queste situazioni o un magari atto dimostrativamente ancora più esplicito.

Nella tarda serata del 24 giugno un canale telegram russo piuttosto noto e molto bene informato sulle vicende dell’aviazione russa, Fighterbomber, che gode di un certo credito anche perché non si fa problemi nel riportare le perdite russe quando si verificano, ha pubblicato un post abbastanza criptico congratulandosi ‟con tutti quelli coinvolti”, citando ‟azioni non professionali” e ‟una turbolenza sul Mar Nero”, e chiedendosi se la cosa sarebbe continuata o si sarebbe trattato invece di un singolo evento[9]. Lo stile di Fighterbomber è sempre criptico, dato che spesso rivela dati non di pubblico dominio e non sempre può riferirli esplicitamente, ma ‟azione non professionale” è la frase con cui i bollettini ufficiali descrivono le azioni di disturbo o le provocazioni effettuate da  aerei ostili: tutto lasciava dunque pensare che un drone statunitense fosse stato abbattuto o danneggiato. Il candidato principale era l’RQ-4B Global Hawk ‟FORTE10”, in volo da tempo sul Mar Nero e che aveva fatto precipitosamente ritorno alla base di Sigonella proprio quando Fighterbomber pubblicava il suo messaggio. Il giorno dopo sempre Fighterbomber pubblicava un video di sei minuti, nel quale spiegava la dinamica dell’azione: un Mig-31 aveva raggiunto ‟assolutamente per caso” FORTE10 ad altissima velocità alla sua altitudine operativa di 20.000 metri, generando una turbolenza che lo aveva mandato fuori rotta e costretto ad abbandonare la missione e fare ritorno alla base[10]. Fighterbomber non ha fornito prove fotografiche o video dell’incidente, ma alcuni eventi contribuiscono a farci credere che è probabile che si sia verificato davvero. In primo luogo, nessun drone da osservazione statunitense ha più volato sul Mar Nero dalla notte del 24; solo nel primo pomeriggio del 27 giugno è comparso in zona un RC-135W britannico (come quello protagonista suo malgrado dell’incidente del 29 settembre 2022) decollato dalla Gran Bretagna, accompagnato da due caccia Typhoon partiti invece dalla Romania.

Come mostra il tracciato del volo, l’aereo si è però tenuto lontano dalla Crimea e poco dopo ha invertito la rotta tornando nello spazio aereo NATO, dove ha continuato a volare per un paio d’ore prima di fare rotta verso la base di partenza, mentre i due caccia lo hanno lasciato e sono tornati alla base romena dove sono dislocati. Non ci è dato sapere se la missione consisteva in questo o se sono stati dissuasi dal completarla da qualcosa incontrato lungo la strada, né se, come affermano alcune fonti, ci fosse un’altra coppia di caccia inglesi che volavano con il transponder spento. Un altro dettaglio interessante: il giorno dopo il presunto incidente, il 25 giugno, il Segretario della Difesa statunitense Lloyd Austin ha telefonato al Ministro della Difesa russo Andrej Belousov. L’ultima volta che Austin aveva parlato con il suo omologo russo, che all’epoca era ancora Shoigu, era stato il 15 marzo 2023 in occasione dell’abbattimento dell’MQ-9 Reaper, che secondo la trascrizione ufficiale della telefonata era stato l’unico argomento di discussione tra i due [11]. Questa volta da parte statunitense non sono stati rivelati dettagli sulla telefonata, solo che Austin ‟ha enfatizzato l’importanza di mantenere aperti i canali di comunicazione”, canali che si erano appunto chiusi il 15 marzo dell’anno scorso, e nient’altro [12]. Anche il comunicato del Ministero della Difesa russo è piuttosto laconico, anche se aggiunge qualche dettaglio in più: si è discusso della situazione in Ucraina, del pericolo di escalation causato dalle forniture militari statunitensi, e ‟di altre cose” [13].

Pare anche che gli statunitensi si siano innervositi e abbiano provato a restituire il favore ai russi in Siria. Secondo il generale Yury Popopv, il 27 giugno un MQ-9 Reaper è passato pericolosamente vicino a un Su-35 russo nella regione di Homs, a un’altezza compresa tra i 7 e gli 8000 metri [14], mentre in due occasioni aerei statunitensi avrebbero ‟illuminato” caccia russi. Va però detto che in Siria queste provocazioni reciproche non sono rare e nemmeno troppo mal viste, al di là delle proteste ufficiali, perché consentono alle rispettive areonautiche di testare i limiti dei propri apparecchi in competizione con gli omologhi avversari, escludendo naturalmente di entrare in combattimento.

Per concludere, il canale telegram ufficiale del Ministero della Difesa russo ha pubblicato come prima notizia del 28 giugno un post nel quale si comunica che Belousov ha incaricato lo Stato Maggiore russo di ‟presentare proposte di misure” per rispondere alle ‟provocazioni” dei droni-spia sul Mar Nero, che oltre a designare i bersagli per le armi fornite dalla NATO all’Ucraina costituiscono un pericolo per gli aerei russi. Questo, scrive sempre il Mistero, aumenta il rischio di uno scontro diretto tra NATO e Federazione Russa, e se ciò dovesse accadere i paesi NATO ne saranno ritenuti responsabili [15]. Nessun accenno, ovviamente, a ‟incidenti” già avvenuti o a ‟misure” già prese, ma la dichiarazione abbastanza esplicita che da parte russa ci si riserva la possibilità di agire in futuro.

Insomma, di ciò che sarebbe successo nella notte del 24 giugno abbiamo solo prove indiziarie. Fighterbomber, nel suo stile criptico, promette foto e filmati ma chissà se ne vedremo. Ufficialmente nessuna delle due parti ha riconosciuto che qualcosa di strano sia successo sul Mar Nero ma qualcosa, nei rapporti tra Stati Uniti e Russia, pare si stia muovendo davvero e la telefonata di Austin a Belousov ne è il segnale più evidente. Intanto a New York è arrivato, il 26, anche il Ministro degli Interni russo Vladimir Kolokolt’cev. L’occasione della visita non annunciata è la riunione dei capi della polizia dei paesi dell’ONU, cosa che gli dà il diritto di muoversi sul territorio statunitense nonostante le sanzioni che lo hanno colpito ma che non gli impediscono di recarsi ai meeting delle Nazioni Unite che però non frequentava dal 2018: anche lui, si direbbe, è stato colpito all’improvviso da una irrefrenabile volontà di comunicare.

C’è sicuramente grande confusione sotto il cielo, ma la cosa una volta tanto potrebbe avere risvolti positivi.

Note

[1]   https://x.com/Podolyak_M/status/1805171253755412849.

[2]   https://tass.com/world/1807635.

[3]  https://www.defense.gov/News/Transcripts/Transcript/Article/3815559/major-general-pat-ryder-pentagon-press-secretary-holds-an-off-camera-press-brie/

[4]   https://www.state.gov/briefings/department-press-briefing-june-24-2024/

[5]  https://www.reuters.com/world/europe/kremlin-blames-us-barbaric-atacms-missile-attack-crimea-2024-06-24/

[6]  https://www.washingtonpost.com/world/2024/06/21/ukraine-firing-range-us-weapons-russia/

[7]  https://www.bbc.com/news/uk-63327999

[8]  https://www.theguardian.com/us-news/2023/mar/16/us-releases-footage-russian-jet-crashing-into-american-drone-over-black-sea

[9]  https://t.me/fighter_bomber/17145

[10] https://t.me/fighter_bomber/17156

[11] https://www.defense.gov/News/Releases/Release/Article/3330335/readout-of-secretary-of-defense-lloyd-j-austin-iiis-phone-call-with-russian-min/

[12] https://www.defense.gov/News/Releases/Release/Article/3817099/readout-of-secretary-of-defense-lloyd-j-austin-iiis-phone-call-with-russian-min/

[13]  https://eng.mil.ru/en/news_page/country/more.htm?id=12517991@egNews (allego il link in inglese, la versione in russo, che comunque non riporta altri dettagli, è più difficilmente accessibile dall’Italia).

[14] https://tass.com/defense/1809669

[15] https://t.me/mod_russia/40386.

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Crosetto: pronte altre armi italiane per l’Ucraina

Si è tenuta ieri mattina, alle ore 10:00, l’audizione al Copasir del Ministro della Difesa Guido Crosetto.

A Palazzo San Macuto, sede del Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica, il ministro ha esposto in meno di due ore i termini del nono pacchetto di aiuti militari in armi e armamenti che lo Stato italiano si prepara ad inviare all’Ucraina.

Dopo questo passaggio, il provvedimento è pronto per essere pubblicato sulla Gazzetta ufficiale e, nei termini previsti, divenire così “sostegno alla guerra” per legge.

Anche in questo quarto invio del governo Meloni, al pari dei precedenti cinque pacchetti voluti dal governo Draghi, il contenuto dell’audizione e dei materiali selezionati per l’invio rimane secretato.

Si sa tuttavia che il governo si è impegnato a inviare una batteria di difesa antiaerea Samp-T, probabilmente spostandola dal Kuwait, come chiesto direttamente dall’illegittimo presidente ucraino Zelensky – il cui mandato sarebbe terminato a fine maggio, come ricordava uno striscione esposto sugli spalti dell’europeo di calcio che chiedeva di “tornare al voto”.

Inoltre, nel decreto interministeriale presentato ieri, firmato anche da Tajani per gli Esteri e da Giorgetti per l’economia, a sintesi dell’intera compagine governativa, dovrebbero esserci di nuovo i missili a lungo raggio Storm Shadow, capaci di colpire obiettivi in territorio russo anche dalle retrovie del fronte ucraino.

Paradossalmente, il pacchetto sta creando più malumori all’interno della maggioranza che non levate di scudi nell’opposizione.

La Lega infatti non nasconde il malumore per l’indicazione arrivata in sede Nato di utilizzo di armi occidentali per colpire la Russia, come avviene in realtà in Donbass dal 2014 e come accaduto domenica corsa, in pieno giorno, sulle spiagge della Crimea.

La fedeltà dello Stato italiano ai voleri della Nato si dimostra anche in questo caso in tutto il suo servilismo.

A poco servono infatti le parole del Capo dello Stato Sergio Mattarella sulla “verità a tutti i costi” nel giorno del 44° anniversario della strage di Ustica, quando missili francesi impiegati in ambito Nato colpirono in cielo italiano un aereo di linea della Itavia, assassinando 81 civili invece del leader libico e del panafricanismo Muammar Gheddafi.

La verità è nella subordinazione storica della Repubblica italiana all’“alleato” amerikano, che questa sia in Ucraina, in Palestina o in qualsiasi altra parte del mondo.

Su questo, il governo Meloni, spauracchio sovranista della finta opposizione guerrafondaia, in realtà non opera nessuna cesura col passato più o meno recente del paese. Né sugli Stati Uniti, né sulla Nato, né tanto meno sui diktat dell’Unione europea.

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Francia - “La guerra civile è già iniziata”

Due sociologi e due filosofi, questa è la banda dei quattro che, il 15 maggio 2023 su Le Monde, ci ha esposto un anno fa, dal fondo di un pozzo di indifferenza, un’idea sotto forma di bomba.

Un’esplosione che nessun intellettuale ha sentito, troppo preoccupato per l’apprendimento forzato della scrittura inclusiva, si intitolava: “Macron e la guerra civile in Francia”.

Riprendendo un’analisi di Michel Foucault, i nostri ragionati Ravachols, Pierre Dardot, Haud Guégen, Christian Laval e Pierre Sauvestre (1) avevano messo nero su bianco sulla pagina, l’unica e profonda verità, l’unica ragione dell’esistenza del macronismo: abbattere con tutti i mezzi ciò che si frappone al neoliberismo.

Il quartetto ha poi parlato di una “guerra civile” condotta dall’Eliseo. Un casino di caccia dove tutti i finanzieri del pianeta tengono d’occhio i loro giri, che non sono solo tovaglioli. Una battaglia mortale, tra l’altro combattuta a colpi di pistola. Ma per mezzo di leggi canaglia, per parlare la lingua del diciannovesimo secolo, dal momento che la politica “malvagia” è tornata.

Leggi mortali per “quelli che non sono nulla“. Ma torniamo all’orologio di Foucault, che ci conduce all’ora del delitto. L’autore di “Sorvegliare e punire” ci dice che “la guerra civile è la matrice di tutte le lotte di potere, di tutte le strategie di potere“. E chi detiene più di questo potere di Giove, è il nostro provvidenziale Thiers.

Macron sta facendo la guerra al popolo. Questa verità è stata pubblicata di nascosto in una “rubrica” su Le Monde, il quotidiano serale che è diventato neoliberista con qualche buco nel suo racket.

L'articolo della banda dei quattro rimette la ghigliottina al centro del villaggio. A dispetto di un camuffamento – sotto stracci in cui le parole Repubblica e Democrazia sono usate in modo improprio – dobbiamo finalmente ammettere che l’unico scopo della lotta di Macron è distruggere questa “classe operaia, classe pericolosa“, per citare l’esemplare Louis Chevalier.

E queste armi di distruzione passiva – dove i dannati lottano un po’, poi capitolano di fronte al capitale – non sono altro che leggi, regole, editti, appunti di società di consulenza, strumenti micidiali, armi di una guerra silenziosa.

È importante sapere come la chiama Macron: guerra. Per gli scettici, per coloro che vedono questo giudizio come un eccesso, ricordiamo che la repressione contro i “Gilet Gialli”, i crocifissi della pensione a 64 anni, quelli della disoccupazione a basso costo, i contadini “arrabbiati”, quindi i disperati di tutte le “rivolte”, ha preso una forma di guerra attraverso il dispositivo repressivo che si è opposto a loro con la violenza programmata della polizia, a cui si aggiungono il razzismo e l’impunità. Perché Giove ha la sua guardia pretoriana.

Scene che hanno finito per provocare il risveglio della Commissione Onu per i Diritti Umani, venuta a protestare in punta di piedi. Macron prende in giro Putin, ma sotto il suo magistero un passante che indossa una kefiah viene fermato da una forza di polizia che è diventata una milizia governativa. Divertitevi a chiamare Israele “uno stato coloniale e voi siete in custodia”. I magistrati che, in passato, sono stati “Charlie” fino alla morte sono andati a fare un’escursione. L'”antisemitismo”, adattato alla salsa di Darmanin, è un’arma di distruzione di massa.

Senza avvisarci, come un uomo capace di nascondersi in uno sgabuzzino per sfuggire al pericolo, con un elicottero sempre pronto a esfiltrarlo, Macron sta conducendo battaglie che spera siano le ultime. Dopo di lui, la Rivoluzione Francese non sarà altro che un vecchio delitto, già denunciato dal patetico François Furet e dalla sua setta, e i desideri del Consiglio Nazionale della Resistenza (CNR) ridotti a una chimera accompagnata dal suono di “In the mood“, di Glenn Miller.

Notate questo indizio che ci dice che siamo in guerra, viene da Oslo dove il “Center for Civil War Studies dell’Institute for Peace Research” afferma che la definizione di “disordini civili” inizia quando le forze dell'”ordine” uccidono venticinque esseri umani all’anno. In Francia nel 2023, secondo la polizia, questa cifra era di trentotto.

Questa vittoria contro gli “sdentati” e il “popolo di niente” ci farà quindi rinascere in un mondo perfetto, e la sua dissoluzione lunare è la sua base di lancio. Con gli schiavi nelle stive e i padroni sul ponte. Per il momento funziona già abbastanza bene, ma con cigolii.

La Francia è un paradiso globale per milionari e miliardari con l’aumento del tasso di mortalità infantile e l’aumento della percentuale di cittadini che vivono al di sotto della soglia di povertà. È perfetto finché il mendicante sta zitto, schiacciato.

I crimini sociali, cioè umani, che la Thatcher non ha avuto l’audacia di commettere, sono tentati da Macron, il padrino dell’uberizzazione.

Anche per lui “non c’è alternativa“, ce n’è una sola “allo stesso tempo“, vale a dire la stessa cosa. La banda di quattro intellettuali stralucidi e coraggiosi, autori di questo studio, ci ricorda che il neoliberismo è nato intorno al 1930. Si trattava di stabilire un ordine politico che garantisse le “libertà economiche”. La tabella di marcia per la finanza sarà semplice: lo Stato deve diventare il garante di una libertà commerciale senza ostacoli. Non si tratta di evocare la minima aspirazione dei lavoratori alla libertà e all’uguaglianza.

Per questo esercizio, una possibile applicazione della democrazia è un’arma pericolosa. Lavoreremo quindi, e il lavoro è ancora in corso, per mantenere la parola – democrazia – svuotandola del suo contenuto, della sua priorità di libertà, giustizia e uguaglianza. A poco a poco, l’abbandono della solidarietà, l’idea americana del successo individuale, l’incoraggiamento dei ghetti del comunitarismo, la scomparsa di una filosofia marxista che più o meno accompagnava le idee, la distruzione della classe operaia con le “delocalizzazioni”, vinsero la partita: in nome di una democrazia di nuovo aspetto, applaudita dalle varie figure della socialdemocrazia (l’olio delle ruote del capitalismo). Le persone sono sole e nude.

Ed è questa democrazia selvaggia che oggi il mondo americano, di cui l’Europa è una colonia, cerca di imporre ai paesi non allineati, per non dire selvaggi.

Washington dà le sue lezioni, distribuisce le sue medaglie mentre negli Stati Uniti si pratica la pena di morte, si vieta l’aborto, si approvano uccisioni di massa, si approvano leggi per legalizzare il lavoro minorile, per non parlare della perla democratica che è Guantanamo.

No, per essere riconosciuti come democrazia, l’importante non è un sistema sanitario che non funzioni troppo male, scuole che insegnano, tassi di mortalità in calo, l’abolizione della pena di morte o la libertà di contraccezione. No. La priorità è data all’inventario, non più del “sociale” ma nel “sociale”. Tutte le pratiche che sono diventate consuetudinarie in Occidente (ad esempio quelle sessuali) devono svolgersi in uno Stato che voglia, all’ombra della “democrazia”, unirsi al corteo dei popoli civili.

Chi rifiuta questo Eden diventa bersaglio, a volte bombardato da veri e propri diluvi di piombo, come in Iraq, o più sottilmente ostracizzato dalle ONG complici dell’imperialismo occidentale, o bombardato anche da sentenze come quelle del Parlamento europeo, che non si è mai vergognato della propria corruzione.

Siamo molto lontani da Macron, il generalissimo di una guerra civile? No, perché l’arma rimane la stessa: l’uso della parola democrazia ridefinita dai cavalieri McKinsey è anche una spada.

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Il vertice europeo conferma la Von der Leyen. Ma la verifica si farà con i voti in Parlamento

Il vertice Ue sarebbe dovuto durare due giorni, ma alla mezzanotte di ieri l’incontro era già finito con l’accordo sui nuovi vertici europei e l’approvazione dei nuovi impegni militari per la guerra contro la Russia in Ucraina.

I capi di governo dell’UE avevano precedentemente concordato il nuovo vertice della Commissione europea con 25 voti su 27. Hanno nominato la presidente della Commissione Ursula Von der Leyen per un secondo mandato, mentre sarà l’ex premier portoghese Antonio Costa (socialisti) a presiedere i vertici dell’UE in futuro in qualità di presidente del Consiglio dell’UE. Il primo ministro estone Kaja Kallas (liberali) diventerà Alto rappresentante per gli affari esteri.

Solo due capi di governo non hanno votato la decisione di maggioranza al vertice europeo: la premier italiana Giorgia Meloni e il primo ministro ungherese Viktor Orban, che si sono astenuti o hanno votato contro i candidati.

La Meloni si è astenuta nel voto per Von der Leyen, ma ha votato contro le nomine di Kallas e Costa.

La mossa di Meloni è tattica. Aver mostrato il suo “furore” prima e durante il vertice europeo potrebbe spianare la strada per ottenere una posizione importante e di peso per il prossimo staff dei Commissari europei. Nei corridoi di Bruxelles si fa strada la voce che potrebbe trattarsi di una vicepresidenza esecutiva con connotazioni economiche. Astenendosi, e non opponendosi, a Von der Leyen, il premier italiano ha confermato i buoni rapporti tra le due.

Adesso tocca al Parlamento europeo approvare questa composizione della Commissione.

In quella sede la Von der Leyen deve ottenere la maggioranza dei voti dei parlamentari – e potrebbe essere che i suoi sostenitori cristiano-democratici, socialdemocratici e liberali non siano sufficienti. Potrebbe quindi dipendere dai voti dei Verdi o dei partiti di destra.

Alla Von der Leyen a Strasburgo servono 361 voti e, qualora i 24 parlamentari europei di Fratelli d’Italia decidessero di astenersi, tale obiettivo diventerebbe decisamente più complicato. Per la Von der Leyen sembra essere giunto il momento di fare una scelta decisa fra il gruppo di destra Conservatori e riformisti (Ecr) – guidato da Meloni – e i Verdi che, invece, rischierebbero di farle perdere consensi da parte del suo stesso partito, il Ppe.

Da quanto è emerso dal vertice di ieri l’assetto guerrafondaio della Commissione europea sull’Ucraina è stato confermato. I colloqui a Bruxelles sono iniziati intorno al tramonto, al termine di una giornata in cui i leader europei hanno incontrato per l’ennesima volta il presidente ucraino, Volodymyr Zelenskiy, il quale ha battuto sul solito tasto: rifornimenti di armi e sostegno militare.

Nelle 12 pagine del documento approvato l’Ue ricorda che “l’assistenza globale all’Ucraina e al suo popolo sinora ammonta a 108 miliardi di euro, di cui 39 miliardi di sostegno militare, all’interno dei quali ci sono 6,1 miliardi erogati tramite la European Peace Facility”. I governi della Ue hanno deciso di stabilire un nuovo Fondo con “5 miliardi aggiuntivi per il 2024 per assicurare ulteriore assistenza militare e addestramento”. Il testo sottolinea che “si potrebbero prevedere ulteriori aumenti annuali simili fino al 2027, sulla base delle esigenze ucraine”.

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Il collasso del sionismo (atomica permettendo)

Nel suo articolo sul collasso del sionismo, Pappé si porta indubbiamente avanti col lavoro di analisi individuando sei indicatori cruciali per comprendere – nei limiti del possibile – come potrebbe risolversi la crisi di Israele. Crisi che indubbiamente c’è (e da tempo), ma che per evolvere verso quel crollo auspicato da Pappé, dovrebbe registrare come irrisolvibili almeno la maggior parte delle contraddizioni elencate nell’articolo, con l’aggiunta di una opzione finale che l’autore non ha preso in considerazione.

Su un aspetto Pappé si dimostra, da par suo, estremamente lungimirante: quello per cui il “destino” della Palestina e di molti degli ebrei che vorranno ancora abitarla una volta sconfitto il sionismo, risiede nelle capacità delle giovani generazioni palestinesi di essere all’altezza di un evento storico senza precedenti che li vedrebbe, nello stesso tempo, liberati e liberatori.

Ma perché questo si concretizzi occorrerebbe che il popolo ebraico – sicuramente quello che si è insediato in Palestina – vada incontro ad una vera e propria catarsi, da non intendersi però come mera questione filosofica (il purificarsi da una contaminazione) o psicologica, ma che rimetta in discussione la sua storia recente, ovvero quel processo materiale che dal 1948 ad oggi ha consentito agli ebrei insediatisi in Palestina sia di guadagnare prestigio sulla scena internazionale, sia di raggiungere uno status sociale per molti versi invidiabile, a cui dovrebbero rinunciare in cambio di una pace e di una convivenza che non è mai stata presa in seria considerazione da nessuna delle due parti politiche in conflitto schematizzate da Pappé: lo Stato di Israele e lo Stato di Giudea.

Quanto al fatto che lo Stato di Giudea, se vincente sull’altro, non sarebbe tollerato – secondo Pappé – dal mondo arabo e forse anche dal mondo in generale, parrebbe più che altro un desiderio, ché proprio questo era il segno politico degli accordi di Abramo, sponsorizzati dagli Stati Uniti con il silenzio/assenso dell’Europa, ma con la partecipazione convinta di una significativa parte del mondo arabo.

Se questo processo si è interrotto non lo si deve a contraddizioni interne alla società israeliana, né a pressioni internazionali, ma solo ed esclusivamente all’azione della resistenza palestinese il cui apice è rappresentato dal 7 ottobre.

I punti-crisi citati da Pappé, per quanto separatamente possano incidere sull’aggravamento della crisi di Israele, nel loro complesso riconducono ad un unico ragionamento di tipo circolare: Israele è uno stato con una economia avanzata, potenzialmente ricco, i cui cittadini di religione ebraica hanno raggiunto in pochi decenni un buon tenore di vita (ma con forti disuguaglianze sociali), ciononostante presenta un enorme deficit pubblico e una inflazione elevata, a causa di un impegno nelle spese militari fuori dal comune, testimoniato dal fatto che è il primo paese al mondo per spesa pro capite negli armamenti e il terzo paese al mondo come percentuale del PIL destinata agli armamenti (dati SIPRI 2023).

Un paese che paga un prezzo altissimo all’industria delle armi (tra 25 e i 30 miliardi di dollari/anno, il 5,3% del PIL), ma che è proprio grazie alle armi e al sostegno internazionale che occupa il posto che ha, avendo imposto a tratti di sangue e di fuoco (come scriveva Marx) quell’accumulazione primitiva (occupazione delle terre, esproprio delle risorse naturali, cacciata dei palestinesi) senza la quale la proclamazione dello stato di Israele sarebbe rimasto un elenco di rivendicazioni e buoni propositi.

Posto quindi che l’analisi di Pappé risulti congruente con tutti gli elementi al contorno che afferiscono alla situazione di Israele (economici, culturali, geopolitici ed anche militari) c’è un aspetto che egli trascura unitamente a quasi tutti i commentatori: quello dell’opzione atomica che Israele è in grado di esercitare.

Se come lui stesso scrive “quando Israele si renderà conto della portata della crisi, scatenerà una forza feroce e disinibita per cercare di contenerla”, ciò non può prescindere dal mettere in conto che Israele usi l’arma atomica, non in funzione deterrente, ma come impiego effettivo e risolutivo della sua crisi, sganciandola (non su Gaza evidentemente) ma su uno dei paesi costituenti “l’asse del male”. Sarebbe una chiamata di correità per tutto l’Occidente dalle conseguenze inimmaginabili che però è meno impensabile di quanto si creda, se si pone attenzione a certi precedenti.

Israele, che non ha mai ammesso di possedere armi nucleari, non ha firmato il trattato di non proliferazione nucleare e nemmeno i protocolli aggiuntivi della Convenzione di Vienna che vietano il bombardamento di installazioni nucleari, mentre si è sempre opposta a qualsiasi ispezione dell’AIEA sul sito nucleare di Dimona.

Nello stesso tempo si è prodigata con tutti i mezzi per impedire che altri paesi arabi intraprendessero la strada del nucleare, foss’anche quello civile: distruzione del reattore iraqeno di Osirak da parte dell’aviazione israeliana avvenuta il 7 giugno 1981 e di quello siriano di Al-Kibar, distrutto da Israele nel 2007, senza che in entrambi i casi ci siano state sanzioni o censure di alcun tipo da parte della comunità internazionale.

Anzi, nelle riunioni del Consiglio di sicurezza del giugno 1981, convocate a seguito dell’incursione israeliana in Iraq, il rappresentante di Israele si è permesso di dire che “il raid contro il reattore atomico iracheno Osirak era stato un atto di autoconservazione col quale Israele aveva esercitato il suo diritto di autodifesa come inteso nel diritto internazionale e come richiamato nell’Art. 51 della Carta dell’ONU”.

D’altra parte sarebbe un errore credere che la parte meno “feroce” di Israele – quella degli ebrei europei più laici e liberali che furono determinanti nella creazione dello stato nel 1948, cioè lo Stato di Israele come lo definisce Pappé – si opporrebbe all’uso della atomica, per il semplice fatto che fu proprio quella classe dirigente (negli anni ‘50-’60 del secolo scorso) a perseguire e realizzare il progetto della bomba, prima con l’appoggio della Francia e poi degli Usa.

Oggi Israele è accreditata di almeno ottanta testate nucleari, presumibilmente anche termonucleari, sicuramente del tipo “tattico” e dei relativi sistemi di lancio; armi di cui negli ultimi tempi si è parlato con scellerata disinvoltura circa un loro impiego, tutto sommato, accettabile nell’attuale situazione internazionale, che suona come un invito alle orecchie di Israele nel mentre che esso si rivela del tutto sordo alle sentenze, sia della corte internazionale di giustizia che di quella penale.

L’opzione atomica nelle mani di Israele è il peggior frutto che l’Occidente abbia partorito dall’ultimo dopoguerra perché, non solo non è ascrivibile al risiko globale della guerra nucleare ancora governato (si fa per dire) da consumati apparati di reciproco controllo e sicurezza Est-Ovest, ma perché nel suo autonomizzarsi dai suoi padrini originari, Israele ne fa un uso che nelle migliore delle ipotesi funge da ricatto per ottenere armi e consenso alla sua politica di aggressione verso alcuni paesi arabi e di sterminio dei palestinesi ma, nel caso peggiore, è una seria minaccia per tutta l’umanità e come tale va denunciata, contrastata e rimossa.

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Autonomia differenziata e/o tassello per la Terza Repubblica?

La recente approvazione definitiva della legge-cornice sull’autonomia differenziata, firmata anche da Mattarella senza colpo ferire, ha rilanciato dibattito ed iniziativa su una vicenda che si trascina dal 2001 e che pone problemi anche di natura strategica alla sinistra di classe.

È innanzitutto importante superare un’impostazione da talk-show (o, se si preferisce, da teatrino politico) che rende debole questa battaglia contro un progetto, ormai in fase di prima attuazione, che sconvolge il sistema-Paese e porta un ulteriore attacco ai territori e alle classi sociali più deboli.

Quindi un primo nodo è quello che occorre mantenere sempre uno stretto legame tra una lotta che ha sicuramente aspetti territoriali (aggravamento della questione meridionale) ma che non può mai essere slegata da contenuti sociali perchè si rifletterà negativamente anche sulle classi subalterne settentrionali.

Pertanto restano validi gli aspetti migliori del meridionalismo comunista che non ha mai contrapposto Nord e Sud.

Ciò significa, tra l’altro, che la risposta all’autonomia differenziata non può essere soltanto o, prevalentemente, di tipo giuridico-istituzionale (in questo articolo, dato il taglio dello stesso, non toccheremo le questioni relative alle proposte di referendum abrogativo o di ricorsi alla Corte Costituzionale) ma va centrata molto più efficacemente sulla critica al modello di sviluppo che c’è dietro perchè esso non è più attuale ed è controproducente anche rispetto a chi ha sostenuto un progetto che, con espressione di successo ma “aclassista”, è stato definito come “secessione dei ricchi” (occorrerebbe ricordare e precisare che, quando si usa la citata espressione, i ricchi anche al Nord sono esigua minoranza).

D’altro canto, la destra di Governo ha buon gioco perchè gli oppositori del centrosinistra sono effettivamente poco credibili non soltanto perchè, a suo tempo, sono stati loro a modificare il titolo V della Costituzione ma, tuttora, non hanno fatto una vera autocritica: né Bonaccini ha ritirato la pre-intesa raggiunta dall’Emilia-Romagna con l’allora Governo Gentiloni, né lo ha fatto De Luca che nel 2019 ha richiesto la formale apertura di trattative da parte della Campania col Governo per avere maggiore autonomia su sette materie.

In quest’ultimo caso, si arriva a sostenere che si tratta di una richiesta di “burocrazia zero” contro il centralismo dei Ministeri come se questa semplice affermazione servisse a cambiare la sostanza della richiesta fatta.

Inoltre, va ricordato che Francesco Boccia – Ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie del Governo Conte II – aveva già preparato una bozza di legge-cornice per l’attuazione dell’articolo 116, co. 3, della Costituzione.

Pertanto, se è vero che nella battaglia contro l’autonomia differenziata occorre non sottovalutare la ricerca di convergenze più ampie, è altrettanto vero che, come sinistra di classe, non si può avere il ruolo di “utili idioti” per andare verso una sorta di autonomia differenziata soft.

La contraddittorietà del centrosinistra influisce pesantemente nella comprensione della politicità dello scontro in atto che viene letto in termini riduttivi come “scambio” tra forze di maggioranza, in realtà ci troviamo difronte ad un vero e proprio progetto di Terza Repubblica da non scollegare nemmeno rispetto all’altra proposta di “riforma” riguardante la separazione delle carriere in magistratura il tutto all’insegna di un tratto complessivamente autoritario di questo Governo com’è confermato anche dal nuovo “Dl sicurezza” a firma dei Ministri Piantedosi, Nordio e Crosetto (ddl n. 1660).

In realtà, non si tratta, per quanto riguarda il centrosinistra, di un’incapacità di lettura del significato dell’attacco politico-istituzionale in atto ma di una parziale/sostanziale condivisione di fatto del disegno della destra non solo sull’autonomia differenziata ma anche sul premierato in quanto non vanno dimenticate nel passato le proposte sul semi-presidenzialismo o le leggi sull’elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti di Regione, o l’appoggio al sistema maggioritario elaborate e realizzate dal centrosinistra.

L’esigenza della chiarezza politica, quindi, non discende da un rifiuto aprioristico di alleanze ma dipende dal fatto che solo se denunciamo la politicità dello scontro in atto potremo contare sulla mobilitazione delle crescenti fette di popolazione che si rifugiano nell’astensionismo.

In tal senso, è importante non concentrarsi soltanto sul Meridione che, ricordiamo, rappresenta una minoranza della popolazione, e per fare ciò è importante far notare ai sostenitori del progetto divisivo che l’autonomia differenziata negli ultimi anni è andata profondamente e strutturalmente in crisi; infatti la “mini-locomotiva” lombardo-veneta non si può più agganciare alla locomotiva tedesca andata in recessione con lo scoppio della guerra Nato - Russia in Ucraina.

Ad esempio, è significativo il dato di Unioncamere che evidenzia come nel 2023 le esportazioni della Lombardia verso la Germania siano calate di ben l’ 8,4% con una tendenza all’aumento nel primo trimestre 2024 (dati ISTAT).

Da quanto sinora argomentato, emerge, però, che problemi di impostazione possono emergere anche rispetto ad una parte del fronte meridionalista non soltanto per questioni d’impostazione generale (non bisogna cedere a controproducenti posizioni da “Lega sud”) ma per elementi di merito.

Infatti alcune parole d’ordine non sono più rappresentative della realtà produttiva del Paese e, in particolare, del Meridione.

Questo è il caso dell’appello al boicottaggio di alcuni “prodotti settentrionali”come prosecco, parmigiano e gorgonzola (si veda, ad esempio, la posizione di Pino Aprile) che se può avere effetto su alcune fasce della popolazione meridionale riflette, però, un’analisi che vede il Meridione prevalentemente come “mercato di consumo”, invece, in Italia è da anni prevalente il modello “export oriented” quantunque oggi lo stesso sia in stagnazione per le tensioni internazionali e l’aumento delle spinte protezionistiche.

L’aspetto relativo alla centralità di questo modello è maggiormente confermato proprio nel Meridione che nel 2023 ha visto i maggiori incrementi rispetto al 2022 in Regioni come la Campania, che con un incremento del 28,9% delle esportazioni è stata la Regione che a livello nazionale ha avuto il maggior incremento seguita dal Molise con un incremento del 21,1% e dalla Calabria col 20,9%.

Del resto, se si restringe il campo al comparto degli alimentari e delle bevande – che dovrebbe essere quello dove operare il boicottaggio – si potrà notare che anche in questo caso i prodotti “nordisti” hanno un forte sbocco all’estero: l’Emilia-Romagna ha avuto nel 2023 un incremento delle esportazioni del 5,5% e la Lombardia del 7,1%.

Insomma il danno economico dell’eventuale boicottaggio non sarebbe rilevante mentre le conseguenze politiche di una simile azione sarebbero deleterie in termini di contrapposizione Nord/Sud; naturalmente anche nel caso di questi settori meridionalisti non vanno sottovalutate possibili convergenze ma sempre nella chiarezza politica.

Nel frattempo è appena il caso di ricordare che mentre l’attenzione veniva concentrata sull’approvazione definitiva alla Camera del ddl Calderoli, il Governo, passate le elezioni europee, procedeva all’invio di un altro pacchetto di armi all’Ucraina all’interno di una progressiva tendenza all’economia di guerra che pone altri pesanti interrogativi sulla fattibilità dell’autonomia differenziata.

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L'ex Ilva di Taranto nuoce alla salute

L’ex Ilva di Taranto deve essere fermata perché nuoce alla salute collettiva. La Corte di giustizia dell’Ue con una sentenza stabilisce la supremazia del cittadino su quella della produzione e del fatturato. “Se presenta pericoli gravi e rilevanti per l’ambiente e per la salute umana, l’esercizio dell’acciaieria Ilva dovrà essere sospeso“.

L’acciaieria di Taranto, la seconda più grande d’Europa, potrebbe dunque chiudere i battenti, temporaneamente, in ragione della tutela della salute e dell’ambiente.

Spetterà ai giudici nazionali fare le valutazione del caso e procedere alle decisioni necessarie, ma intanto i giudici lussemburghesi tracciano la via da seguire in materia di diritto.

Il pronunciamento della Corte di giustizia dell’Ue è solo l’ultimo atto di una storia infinita.

Nel 2019 la Corte europea dei diritti dell’uomo (organismo internazionale non Ue) ha accertato che l’acciaieria provocava significativi effetti dannosi sull’ambiente e sulla salute degli abitanti della zona, condannando l’Italia a porre rimedio. La Commissione europea aveva aperto il dossier sull’impianto industriale di Taranto già sei anni prima, nel 2013, per chiedere di renderlo meno inquinante.

“La sentenza della Corte di Giustizia Europea pone dei punti chiari ed imprescindibili, dicendo che, accanto alla valutazione del danno ambientale, va messa quella sanitaria. Inoltre, questa pronuncia bacchetta l’Italia e dice no al ricorso indiscriminato alle proroghe dell’Aia” scrivono in una nota Francesco Rizzo e Sasha Colautti dell’Esecutivo Confederale Usb.

“Questa pronuncia dà la possibilità al Tribunale di Milano di bloccare, in presenza di determinate condizioni, l’attività produttiva. Alla luce di tutto ciò, attendiamo una tempestiva convocazione dal Governo per discutere del futuro dei lavoratori e delle famiglie degli stessi, che operano in tutti i siti siderurgici italiani del gruppo” – affermano i due sindacalisti dell’Usb da anni interni ed impegnati nella vicenda dell’ex Ilva di Taranto – “Bene quindi la pronuncia della Corte che parla chiaro, ma il Governo italiano sia finalmente consequenziale, convocando i sindacati e individuando una strada che tenga insieme il rispetto della salute e dell’ambiente da un lato, e dell’occupazione dall’altro”.

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27/06/2024

Paris, Texas (1984) di Wim Wenders - Minirece

Il vittimismo aggressivo della destra al governo

Hanno imparato benissimo dai loro elettori il chiagne e fotti (vedasi i balneari, i “prenditori” di ogni grandezza, albergatori, bottegai, piccoli e grandi proprietari, evasori fiscali etc.).

Hanno imparato dai sionisti il vittimismo aggressivo.

Hanno governato per tredici anni con Berlusconi ma fanno finta di niente.

Hanno imparato a sfruttare facilmente le voragini sociali e ideali aperte dai governi di centro-sinistra.

Hanno accumulato per anni un appetito vorace di posti di comando, di prebende e aziende, di poltrone e presidenze.

Hanno ringhiato sottovoce per anni a sentir parlare di Costituzione, 25 aprile, Repubblica fondata sul lavoro e nata dalla Resistenza.

Hanno tenuto vive e attive le storiche connessioni tra fascisti e malavita organizzata.

Adesso ritengono che sia arrivato il “loro” momento e non si nascondono più. Allungano le mani e negano di aver preso il malloppo, incitano l’odio dall’alto e dal basso ma se ne dichiarano vittime.

Hanno nascosto un predatore dentro il pulcino nero Calimero.

La destra al governo ha calato le carte sul tavolo cominciando a colpire le fasce sociali più povere, togliendo il reddito di cittadinanza e il contributo all’affitto, eliminando intere categorie di permessi di soggiorno per gli immigrati, lasciando senza casa i senza casa e impedendo ogni soluzione che alleviasse la perdurante emergenza abitativa e i salari da fame.

Nel timore che la gente alzi la testa e vada a chiedere il conto varano leggi che aumentano le pene per chi si ribella.

Potendo, vorrebbero la galera anche per le zanzare in Estate.

In ogni occasione confondono la giustizia con la vendetta, con particolare accanimento verso i più deboli e gli avversari politici.

Stanno portando il paese dentro la guerra ma parlano di libertà dei popoli.

Cianciano di patria e indipendenza ma hanno dato un altro giro al cappio della Nato e della Ue che strozza il paese.

Si mascherano comodamente in mezzo ai liberali dove vengono coccolati per fare il “lavoro sporco”, in Parlamento come nella società.

Proteggono i loro mazzieri chiamando ragazzate le aggressioni ma denunciano la violenza “degli altri” anche quando non ve n’è traccia.

Azzannano ma si atteggiano sempre a vittime.

Sono bulimici e feroci.

Non sono quelli di ieri, sono i neofascisti di oggi, quelli al governo, in Italia e in troppa parte di Europa.

Organizziamoci per fermarli e rimetterli al posto che meritano nella pattumiera della storia. I liberali in Europa non vogliono né lo sanno fare.

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