A una settimana dalle elezioni europee il Governo Meloni ha presentato il “decreto Schillaci”, ovvero la promessa populista di Fratelli d’Italia di risolvere definitivamente l’annoso problema delle infinite liste d’attesa per l’accesso alle cure all’interno del sistema sanitario italiano (SSN). Il decreto, che prende il nome dal ministro della salute ed è accompagnato da un disegno di legge, strizza l’occhiolino ai privati convenzionati e mira a centralizzare la gestione delle prenotazioni.
Prima di spiegare in dettaglio il contenuto della misura, è utile fare un quadro complessivo della situazione del SSN italiano, ribadendo per l’ennesima volta la situazione disastrosa della sanità nazionale e le cause strutturali alle radici del problema.
Alcuni dati parlano da sé: nel 2023, 4,5 milioni di italiani hanno rinunciato a curarsi sia per ragioni economiche, sia per effetto delle liste d’attesa, che dopo la pandemia sono esplose e rendono impossibile accedere a visite ed esami nel Servizio sanitario. Altro dato impressionante, quello sui posti letto ospedalieri per 1000 abitanti, che oggi si attesta a meno di un terzo di quello che era 40 anni fa.
Figura 1. Posti letto per 1000 abitanti
Il Governo Meloni non ha fatto assolutamente nulla per affrontare questa situazione, che d’altro canto è il frutto di scelte scellerate e di un continuo disinvestimento nel SSN, da parte di centrodestra e centrosinistra, accomunate dalla passione per i tagli alla sanità pubblica.
Le crisi sanitarie degli ultimi anni hanno reso sempre più lampante il fatto che il nostro sistema, ritenuto appena un decennio fa il terzo miglior sistema a livello mondiale, dopo le ricette di austerità inflitte più in generale a tutta la spesa pubblica sia destinato al collasso. I dati Eurostat mostrano, ad esempio, che nel periodo pre-pandemia la spesa in euro per abitante dello stato italiano nel sistema sanitario (linea verde) è stata ampiamente al di sotto della media nei paesi dell’area euro (linea arancione), con un gap che ha continuato ad aumentare con il passare degli anni.
Figura 2. Spesa pubblica in sanità (euro per abitante)
Spesa pubblica in sanità che nel 2023 si è ridotta di 0,4 punti percentuali in proporzione al PIL, passando dal 6,7% al 6,3%, in barba alle chiacchiere profuse dal Governo in ogni occasione. In maniera non sorprendente, passata la pandemia, siamo ritornati infatti immediatamente alla stagione dei tagli, in nome delle ferree regole di contenimento della spesa, con l’aggravante che dell’assai decantato piano di ripresa post pandemico, il PNRR, solo poco più di 15 miliardi di euro (l’8,16% del totale delle risorse stanziate al 2026) saranno destinati alla Missione Salute.
La crisi del Sistema Sanitario Nazionale appare ancora più lampante se si considera che ben 12 Regioni italiane non garantiscono nemmeno la sufficienza nei cosiddetti “Livelli Essenziali di Assistenza” (LEA), cioè le cure considerate fondamentali. Non mancano i casi eclatanti, con una regione come la Calabria che si trova costretta a firmare accordi per l’arrivo di medici da Cuba in programmi che di solito sarebbero destinati a paesi in crisi sanitaria o in via di sviluppo. Ma anche guardando al SSN nel suo insieme, le problematicità rimangono evidenti: l’età media dei medici è sempre più alta, con il 56% con più di 55 anni. I posti letto, nonostante la pandemia, sono diminuiti di più di 30mila unità: nel 2020 erano 257.977, ridotti a 225.469 nel 2022, con stime che parlano di almeno 100mila posti letto di degenza ordinaria e 12mila di terapia intensiva mancanti.
In questo contesto tragico, che fa il Governo Meloni? La proposta di Schillaci prevede come fiore all’occhiello e obiettivo fondamentale la riduzione di quelle che sono le liste di attesa che puntualmente si devono affrontare per ottenere una visita. I canali d’azione principali attraverso i quali agire sono due: l’aumento di visite disponibili e una gestione centralizzata delle prenotazioni. Le risorse mobilitate per l’attuazione della proposta sono circa 300 milioni di euro, una cifra di per sé irrisoria e insufficiente, date le condizioni del SSN.
Va sottolineato poi come entrambi i canali strizzino l’occhio alle strutture private. Da un lato si prospetta la volontà di alzare – dopo un primo rialzo già previsto nell’ultima manovra di bilancio – il tetto di spesa per il ricorso del Servizio sanitario all’acquisto di prestazioni dal privato accreditato. Dall’altro la volontà di agglomerare il servizio di prenotazione tramite CUP comprendendo sia le agende del pubblico che del privato accreditato il quale, se non gestito adeguatamente, può produrre situazioni incresciose, come quella che ha portato uno dei colossi della sanità privata milanese a essere sanzionato dal Tar lombardo per gli incentivi offerti ai centralisti affinché spostassero le prenotazioni dalle agende pubbliche verso quelle private.
Ma ragioniamo meglio su cosa vuol dire il primo punto appena menzionato, cioè il cosiddetto aumento del massimale. Ciò che il Governo vuole incentivare, con l’obiettivo di ridurre un problema strutturale dovuto alla continua diminuzione di fondi pubblici, sono gli interessi e i profitti degli enti privati, incanalando ulteriori risorse pubbliche verso casse private. In altre parole, i quattro spicci che il Governo ha messo sul piatto non sono destinati alla sanità pubblica.
Una argomentazione, per quanto tendenziosa, per giustificare questa linea di condotta potrebbe essere incentrata sulla maggiore efficienza della sanità privata rispetto a quella pubblica. I nostri “amici” liberisti, in particolare, potrebbero straparlare di come la sanità privata sia migliore rispetto alla decadente sanità pubblica. Ma anche questo si rivela miseramente falso, e arriva a nostro supporto niente di meno che un recente articolo di Lancet, una tra le massime riviste di ricerca nel campo sanitario, scritto da due studiosi di Oxford. Facendo una revisione della letteratura scientifica esistente, essi notano come il passaggio da pubblico a privato (anche inteso come esternalizzazione delle prestazioni) porti solo a un miglioramento dei profitti dell’erogatore del servizio – del privato – a danno della qualità del servizio stesso, che al contrario tende a diminuire a seguito della costante riduzione dei costi. Nulla di nuovo sotto il sole: un privato, al contrario del pubblico, ha come obbiettivo fare profitti riducendo i costi sostenuti e aumentando i ricavi, un modus operandi che può sollevare preoccupazioni non indifferenti nel momento in cui il “prodotto” offerto è un servizio sanitario.
Tirando le somme, non saranno il dl e il ddl Schillaci a risolvere le carenze strutturali che il Sistema Sanitario Nazionale, vittima di una spesa pubblica sempre più insufficiente, presenta. La volontà di risolvere tramite il privato quello che si potrebbe risolvere migliorando il pubblico è da sempre una non soluzione, la diretta conseguenza di aver deliberatamente creato un problema a tavolino pensando che la sua migliore risoluzione sia quella che ridireziona fondi pubblici nei profitti per i privati alle spese e sulla pelle dei cittadini.
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