Alla fine, Benyamin Gantz ha mantenuto la promessa di dimettersi dal gabinetto di guerra sionista.
La strage di Nuseirat è stata probabilmente perpetrata anche perché, nelle intenzioni di Netanyahu, avrebbe dovuto dissuaderlo, in quanto ha consentito al gabinetto di guerra, dopo 8 mesi, di rivendicare la liberazione di 4 ostaggi. Tuttavia, è servita solo a rimandare di qualche ora l’annuncio della decisione, rispetto alla deadline dell’8 giugno posta in precedenza. Con lui si è dimesso anche Gadi Eisenkot, l’altro membro “centrista” dell’esecutivo ristretto che si occupa dell’andamento del conflitto.
Si ricorda che il motivo del contendere con Netanyahu stesso e la destra religiosa, riguarda il futuro della Striscia: mentre questi ultimi dichiarano di non volerla lasciare mai più o addirittura di volerla colonizzare interamente, Gantz, assieme a Gallant, altro membro del gabinetto di guerra, propone di installarvi nel dopoguerra una non precisata nuova entità palestinese (non, quindi, l’Autorità Nazionale Palestinese o Fatah), coadiuvata dalla presenza sul terreno di una serie di paesi arabi che hanno normalizzato o normalizzeranno le relazioni diplomatiche con lo stato sionista (vedi qui).
Si tratta, in pratica, del piano sul quale si stanno prodigando gli USA da tempo, eccezion fatta per quanto concerne il ruolo dell’Autorità Nazionale Palestinese, la cui partecipazione non sarebbe scartata da Washington, ma che è divenuta talmente irrilevante da costituire quasi un dettaglio.
Entrambe queste fazioni, ovviamente, “hanno fatto i conti senza l’oste”, ovvero parlano senza tenere conto della Resistenza Palestinese e della volontà del popolo Gazawi, che non accetterebbero nessuna delle due opzioni, nonché dell’effettivo consenso dei paesi arabi “volenterosi”, che dovrebbero partecipare all’impresa. Tuttavia, la contraddizione interna è esplosa.
“Netanyahu ci impedisce di avanzare verso la vera vittoria”, ha dichiarato Gantz all’atto di annunciare le dimissioni in conferenza stampa, “Le decisioni strategiche vengono affrontate con procrastinazione ed esitazione a causa di considerazioni politiche. Dopo il 7 ottobre, come hanno fatto centinaia di migliaia di israeliani patriottici, ci siamo messi a disposizione. Lo abbiamo fatto anche se sapevamo che si trattava di un cattivo governo. L’abbiamo fatto proprio perché sapevamo che era un cattivo governo. Abbiamo formato un governo di emergenza nell’ambito di un’alleanza forzata dal destino, non un’alleanza che aveva basi politiche. Mesi dopo il disastro di ottobre, la situazione nel paese è cambiata”.
Ancora: “Lo Stato di Israele ha bisogno e può ottenere una vera vittoria. Una vera vittoria mette il ritorno a casa dei rapiti al di sopra della sopravvivenza al potere. Una vera vittoria unisce il successo militare ad un’iniziativa politica e civile. Una vera vittoria porterà al collasso di Hamas e alla sua sostituzione. Una vera vittoria consiste nel riportare a casa sani e salvi gli abitanti del nord. Una vera vittoria consiste nello stabilire un’alleanza regionale contro l’Iran guidata dagli Stati Uniti con tutto il mondo occidentale. Una vera vittoria è cambiare le priorità nazionali, ampliare la cerchia dei servizi e dei servitori, e assicurarsi che Israele sia capace di affrontare le sfide che deve affrontare”.
In questi passaggi si vede come l’ex capo di stato maggiore si ponga apertamente come garante dei piani USA e si candidi come figura volta a garantire che Tel Aviv torni a rispondere alla catena di comando atlantista, mettendo da parte l’attuale comportamento da “cane pazzo”. Inoltre, si fa cenno alla questione dell’ampliamento dei “servitori” dell’esercito a chi ora è nei fatti esonerato, su cui si ritornerà in seguito.
Poi vi è anche spazio per un appello a Netanyahu: “Fissa le elezioni in una data concordata, non lasciare che il nostro popolo venga fatto a pezzi” e, soprattutto, uno a Gallant, con il quale, come detto, vi sono simili vedute sul futuro di Gaza: “Sei un leader coraggioso e determinato e, soprattutto, un patriota. In questo momento, leadership e coraggio non significano solo dire ciò che è giusto, ma fare ciò che è giusto”.
L’uscita del partito di Gantz dalla coalizione di governo non metterebbe, da sola, l’esecutivo a rischio sfiducia, poiché il Likud, insieme ai partiti della destra religiosa, posseggono una maggioranza di 64 parlamentari su 120. Tuttavia, ora si avrà un ribilanciamento dei rapporti di forza della compagine governativa a favore degli estremisti religiosi. A tal proposito, Ben Gvir, il Ministro della Sicurezza Nazionale, che quotidianamente parla della necessità di svuotare Gaza dai Palestinesi per riempirla di colonie sioniste e si permette anche di far sfoggio di retorica antiamericana, ha chiesto di entrare nel gabinetto di guerra al posto di Gantz.
Ora i prossimi passaggi delicati per gli equilibri interni riguardano il parlamento. Andranno, infatti, discusse la proposta di sciogliere la camera per andare a nuove elezioni, depositata dal partito di Gantz e, soprattutto, la proposta di legge di abbassare da 26 a 21 anni l’età massima in cui i giovani haredim, ovvero gli ebrei ultraortodossi, possono chiedere il rinvio del servizio militare per continuare i loro studi religiosi.
Per quanto riguarda il primo argomento, al momento risulta difficile pensare che Gallant possa fare il passo di reclutare un drappello di parlamentari del Likud per ribaltare i rapporti di forza all’interno della camera parlamentare.
Per quanto riguarda il secondo argomento, invece, il passaggio è più insidioso di quanto all’apparenza si possa pensare poiché mette sul tavolo ad una contraddizione di fondo presente nella società coloniale israeliana.
Il rimandare l’arruolamento per poter portare avanti gli studi nelle scuole religiose yeshiva, infatti, è l’escamotage attraverso il quale molti haredim riescono, alla fine, ad ottenerne l’esonero definitivo.
Gli haredim sono una componente della popolazione ebraica, prevalentemente di discendenza nordafricana e asiatica, che, oltre a sfuggire all’arruolamento, in buona parte non svolge alcuna attività lavorativa, ma vive di sussidi statali vari e di donazioni, essendo completamente dedita al culto religioso. Attualmente si stima costituiscano il 12 – 15 % della popolazione israeliana, quindi una quota rilevante di mancati arruolamenti nell’esercito, destinata a crescere dato che essi sono la componente demografica più fertile di tutta la popolazione.
A parte un’ala minoritaria di sette radicalmente antisioniste, che rifiutano lo stato d’Israele e sono spesso protagoniste di manifestazioni filo-Palestinesi, soprattutto a Gerusalemme, gli haredim sono tra i principali protagonisti degli sconvolgimenti politici che hanno portato la destra religiosa, negli anni ’90 marginale o fuori legge, ad essere attualmente egemone, rendendo Israele una teocrazia ebraica sempre più compiuta. Ovviamente, essi costituiscono anche buona parte dei coloni che, con i loro insediamenti in Cisgiordania, hanno eroso alla radice la possibilità di attuare la soluzione dei due stati.
Così Ben Gvir e soci, mentre spingono per prolungare la guerra all’infinito e colonizzare Gaza, venendo a volte a contrasto con gli stessi vertici militari, si trovano a difendere il privilegio della propria base etnica ed elettorale a non arruolarsi e a percepire milioni e milioni di dollari di sussidi.
La contraddizione, pertanto, è potenzialmente esplosiva. Tutte le componenti politiche e sociali afferenti al sionismo laico, sia quelle di destra estrema, costituite dagli ex-alleati del Likud nei governi precedenti, sia quelle più moderate o eredi dell’ormai irrilevante tradizione laburista (che rispetto alla guerra a Gaza, sulla carta, sono favorevoli ad un accordo a qualsiasi costo per liberare gli ostaggi) sono pronte a fare dell’abolizione dei privilegi degli haredim una propria bandiera, fino a minacciare di mandarli via.
Come detto, questi oppositori ripongono molte delle loro velleità nell’appoggio degli USA, che vedono nell’attuale governo sionista il maggiore ostacolo verso l’obiettivo strategico di normalizzare le relazioni diplomatiche Israele – Arabia Saudita per creare un’alleanza regionale anti-iraniana, la quale consenta a Washington un quasi totale disimpegno militare dall’area. Tuttavia, mai nessuna amministrazione USA come questa si è dimostrata incapace di controllare il suo tradizionale “cane da guardia” in Medio Oriente, imbrigliata, com’è, da una crisi di egemonia verso l’esterno e dalla crescente influenza della lobby sionista interna.
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