Della morte di Satnam Singh tutti ormai sanno tutto. Tutti hanno sentito le parole vergognose di Renzo Lovato, il quale ha trasformato l’omicidio del lavoratore 31enne in una sua “leggerezza”, nonostante l’avvertimento che aveva ricevuto: insomma, è colpa sua se è stato lasciato a morire dissanguato per strada.
Per queste parole il padre di Antonello, intestatario dell’azienda, potrebbe ora essere coinvolto nell’indagine, per aver svolto un ruolo attivo nelle vicende. “È costata cara a tutti” la morte di Satnam, come ha detto il signor Lovato, dato che ora arriva quest’onta penale sulla sua famiglia?
No, ad aver pagato è stato solo Satnam, e ha pagato non la “leggerezza” ma un modello di sistematico sfruttamento e riduzione al minimo di ogni tutela sul lavoro. E infatti, l’azienda dei Lovato era già al centro di altre indagini.
Mentre riceveva fondi europei (131 mila euro negli ultimi otto anni), sulla sua azienda gravava e grava tuttora un’indagine per caporalato. In realtà, è a una quarantina di imprenditori agricoli della zona che è contestato il reato.
L’autodefinitasi vittima ha truffato pure l’INPS. Faceva lavorare i braccianti fino alla maturazione dei requisiti per la disoccupazione, poi li licenziava e li riassumeva in nero: così poteva evitare di pagare i contributi, e magari toglieva dalle paghe già da fame una parte di retribuzione, mettendola in conto alla collettività.
I lavoratori venivano assunti tramite un caporale, senza fornire formazione, vigilanza o garanzia di sicurezza di alcun tipo. Venivano poi fatti lavorare a cottimo, senza pause, riposi e senza ovviamente riconoscergli straordinari.
Inoltre, i braccianti venivano fatti alloggiare in baracche, per le quali erano pure costretti a pagare. A Lovato è stata contestata anche la sottoposizione dei lavoratori a condizioni degradanti.
E chi si rifiutava di stare a queste condizioni da criminale, subiva il più tipico dei ricatti: dopo il finto licenziamento, non veniva richiamato a lavorare in nero nell’azienda, e vedeva perciò sparire la sua fonte di reddito.
Perché, da che mondo è mondo, la mancanza di un contratto è un facile via per evitare di pagare contributi, ma il nodo che spesso ci si dimentica è che nel lavoro dipendente il nero garantisce al datore di lavoro quello che più gli serve: di avere un rapporto di potere sul lavoratore.
Il contratto è uno spauracchio non solo per i costi che impone, ma perché mette in fila tutta una serie di diritti e di tutele che il padrone è poi costretto a rispettare. E inoltre, gli riserva tutta una serie di strumenti con cui, nel caso peggiore, può persino difendersi in un’aula di tribunale.
Il non poter disporre della manodopera come pare e piace è la cosa che va sempre meno giù a padroni e padroncini. E le difese collettive (sindacati con visioni conflittuali e organizzazioni politiche popolari) sono state smantellate in modo così sistematico e profondo da trasformare il senso stesso del lavoro rispetto a come era previsto inizialmente nella Costituzione.
Basti pensare che, nell’ultimo rapporto della Guardia di Finanza, il risultato dei controlli degli ultimi 17 mesi ha segnalato quasi 60 mila lavoratori a nero o in condizioni irregolari. Il 32% in più rispetto alle rilevazioni del periodo analogo precedente.
In sostanza, in nome del dio profitto, la classe imprenditoriale sta facendo quello che gli riesce meglio: sfruttare in maniera sempre più intensiva i lavoratori. Tutto è poi facilmente giustificato con l’aumento del PIL, senza il quale come si farebbe a rientrare nei parametri europei?
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